[Mostly Weekly ~231]

Andare per musei, il Giappone isolato e il cloud invadente


A cura di Antonio Dini
Numero 231 ~ 6 agosto 2023

Benvenuti su Mostly Weekly, la newsletter settimanale che esce quando è pronta.

Nei giorni scorsi, dopo una dozzina d'anni, ho rimesso mano a una serie di vecchi articoli che non avevo più portato avanti. È la caccia al moto perpetuo, parte prima e parte seconda. Cose di orologi, ma simpatiche. Ecco, solo per dire che adesso c'è anche la parte terza, quella sul tourbillon, e che presto arriverà anche la quarta (che nel mondo dell'orologeria con numeri romani si scrive strana, con quattro stanghette, preparatevi).

Poco prima di spedire Mostly Weekly ho scoperto che, dopo una malattia che è rapidamente peggiorata nelle ultime settimane, è morto Bram Moolenaar, il creatore di Vim e un grande filantropo. Ne scriverò meglio la prossima settimana.

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Intanto, buona lettura.


Il viaggiatore vive di momenti rubati, di riflessioni, di piccoli doni, di occasioni e di briciole
– Nicolas Bouvier



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Editoriale

Scrive Richie Hofmann, poeta (opens new window): "Per sfuggire alla calura estiva e per ritrovare una versione più sensibile e percettiva di me stesso, vado al museo. I musei offrono la possibilità di stare in mezzo ad altre persone senza interagire veramente con loro. A volte le gallerie sono affollate di turisti. Altre volte sono solo con l'arte e con il silenzio. Spesso trascorro ore nei musei, a casa e in viaggio, per cercare entrambi i tipi di incontro".

E voi, andate nei musei della città dove vivete?

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Densha de Go! 1
Densha de Go! 1 ~ Foto © Antonio Dini

Importante

Quando la frode siamo noi: le ricette classiche della cucina italiana sono perlopiù inventate (opens new window) (originale (opens new window). E oltre al podcast c'è anche il libro che spiega tutto: Denominazione di origine inventata (opens new window). A me da un lato la cosa sembra un po' eccessiva, forse tirata per fare un po' di clamore. Ma dentro c'è un fondo di verità. È anche una specie di amara vendetta del passato, persone e cose, che da qualche anno è stato musealizzato e sfruttato come se fosse una specie di fabbrica sfruttabile grazie alla macchina del tempo del marketing. Invece, erano ed eravamo molto diversi da come si viene dipinti oggi. Ricette e persone, intendo.

Alcune volte a Tokyo Nicolas Bouvier non mangiava nemmeno un boccone. Era il 1956, Bouvier si guadagnava da vivere scrivendo articoli per i giornali giapponesi e fotografando le persone che lo circondavano, i suoi vicini e i negozianti di Araki-chô, il quartiere in cui viveva. In quegli anni in Giappone i tempi erano duri, "la vita" era "frugale e picaresca", scrisse. I suoi clienti, che spesso erano piccoli negozianti o i suoi stessi vicini, erano quasi sempre poveri quanto lui. Lo pagavano in natura: uova, una seduta di massaggio, un francobollo. Ma ben presto le riviste non gli avrebbero più comprato neanche una riga ma lui doveva dei soldi al suo padrone di casa e contava e ricontava i soldi che aveva in tasca chiedendosi come avrebbe fatto a comprare quello che gli serviva, giorno per giorno. "Quando le cose andavano male, fu un semplice muro a tirarmi fuori dai guai", racconta nelle sue Cronache giapponesi (opens new window). Lo vide durante i suoi spostamenti quotidiani. Era proprio davanti a lui quando si sedeva per riposare: era un lungo muro di cemento accanto al quale aveva camminato centinaia di volte e che divenne il suo set, il suo palcoscenico: i passanti erano i personaggi. E la speranza rinacque. Seduto su una cassa, fotografava l'andirivieni delle persone, con il muro come sfondo. Ogni giorno andava in scena un film diverso, con persone che camminavano lungo il muro senza vederlo. Inconsapevoli di essere guardati, immortalati dall'occhio del fotografo-viaggiatore, come è stato spesso scritto, dall'"occhio che scrive", come lo ha definito François Laut nel magnifico libro che gli ha dedicato (opens new window). A me è piaciuto molto il poeta Nicolas Bouvier. Le sue foto del muro del quartiere Araki-chô di Tokyo, poi, non sono affatto male, non solo perché lo hanno tirato fuori dai guai quella volta, facendo un gran successo con redattori più che stupiti: "Anche loro erano passati davanti a quel muro per anni, senza vederlo". Le sue cronache giapponesi sono fantastiche.

Per entrare in Europa dal 2024 agli stranieri servirà una cosa che si chiama ETIAS, l'equivalente dell'Esta per entrare negli Usa. Non è un visto ma un permesso di entrata che serve per filtrare le persone. In pratica, tutti i titolari di passaporti di 60 Paesi che attualmente possono recarsi nella maggior parte delle destinazioni europee senza visto - compresi i titolari di passaporti americani - dovranno ora ottenere l'autorizzazione ETIAS per lo stesso viaggio. Si tratta di circa 1,4 miliardi di persone, secondo le stime dell'Unione Europea. Gli americani non sono molto contenti (opens new window), nonostante l'ETIAS costi 7 euro e non 21 dollari come l'Esta.

Ha vinto un Pulitzer o quasi: è un lunghissimo esempio di Explanatory Journalism (opens new window) fatto bene: la storia del Boeing 757 scritta da Peter Rinearson sul Seattle Times (opens new window), che tra parentesi è il giornale dove ci sono molti interessi di Boeing (inclusa la fabbrica di Everett).

Crediamo di sapere molte cose, ma in realtà non è così. I dinosauri, ad esempio, sono qualcosa che diamo per acquisito, una materia sulla quale le scoperte generali sono già state fatte e adesso si tratta di raffinare qualche particolare, giusto? No, per niente. Scopriamo nuove specie di dinosauri ogni quindici giorni e la paleontologia sta vivendo una delle sue fasi più felici: stiamo vivendo l'età dell'oro della paleontologia (opens new window).

Visto che siamo in estate e che ci si sposta per le vacanze (auspicabilmente), siano esse viaggi lunghi, turismo a corto raggio o villeggiatura in località nota, a quanto pare una parte di noi si sta abituando a viaggiare sempre più leggera (opens new window). Intendo, con pochi bagagli. È una tendenza che dietro potrebbe avere molte motivazioni.

E visto che si parla di gente che viaggia leggera, come non parlare di gente che vive appesantita da tonnellate di cose? L'accumulo è un problema che è stato grandemente sottovalutato. Questo articolo del Guardian secondo me fa un lavoro eccezionale a evidenziare che si tratta di una patologia mentale (opens new window), in cui i problemi sono fuori e non solo dentro la testa. Non è una questione di "ordine e disciplina", ma è molto più complicato (con buona pace di Marie Kondo). Questo tipo di articoli secondo me è utile perché fa capire che ci sono problemi ad esempio anche per la sicurezza delle abitazioni in caso di incendi, con le case strapiene di roba. Tuttavia, a me nessuno toglie dalla testa che tra le cause ci sia anche un problema più ampio legato al consumismo sfrenato e alla perdita di identità che fa emergere questo tipo di patologia. Le frattaglie della mente spiattellate e accumulate attorno, da persone che continuano a ripetere: non ce la faccio più.

La settimana scorsa qui su Mostly Weekly avevo anticipato le notizie sul Dieselgate 2.0, cioè la scoperta che a quanto pare Tesla avrebbe barato sull'autonomia dei suoi veicoli (aumentandola) e trovato il modo di addomesticare le proteste. Adesso, da un punto di vista completamente diverso, c'è questa interessante idea portata avanti da una comunità di hacker (opens new window) di fare il jailbreak della propria Tesla e attivare funzioni altrimenti a pagamento.

Amanti della street photography, ecco qui un po' di consigli su come andare e scattare la folla nella folla (opens new window) durante una manifestazione. Utili, soprattutto quelli sulla prudenza.


Yamato

Sakoku (鎖国)
La parola di questa settimana per il nostro dizionario di giapponese (in edizione sintetica) è sakoku (鎖国), che letteralmente vuol dire "paese chiuso" o "nazione bloccata".

Per i 265 anni che precedettero l'inizio dell'era Meiji, nel 1868, il governo militare Tokugawa attuò la politica del sakoku o "paese chiuso" per isolare il Giappone dal resto del mondo. L'isolamento del Giappone ebbe fine nel 1854, quando il commodoro della Marina degli Stati Uniti Matthew Perry e la sua flotta di navi da guerra di colore nere chiesero gentilmente al Paese di aprire le frontiere al commercio oppure avrebbero scatenato l'inferno.

Le navi del commodoro Perry era nere non per una astuta citazione dell'Iliade, quanto soprattutto per il processo di manutenzione degli scafi in legno: venivano ricoperti abbondantemente di bitume e catrame per proteggerli dalla salsedine, dalle intemperie e da un particolare tipo di parassita marino che si attacca allo scafo delle navi in legno e ne compromettono l'ingrità. In realtà tutte le navi da guerra americane in quel periodo erano nere, e questo fungeva anche da mimetizzazione durante la notte, quando potevano manovrare senza essere viste in un'epoca in cui gli unici rilevamenti possibili li faceva un marinaio che si arrampicava sull'albero più alto della nave e dalla sua posizione precaria scrutava l'orizzonte con un cannocchiale.

Scomponendo sakoku si trovano due kanji. Il secondo è facile: 国 si pronuncia kuni o koku e vuol dire "nazione". Tipo Nihon-koku (日本国) che vuol dire Stato del Giappone o più semplicemente Giappone. Oppure イタリア国, che vuol dire Itaria-koku, la translitterazione di "Italia" più stato. Fin qui, facile.

Il primo, invece, è un po' più complesso. Perché saku (鎖) è uno di quei kanji con tre o quattro significati che cambiano a seconda del contesto indica un errore, la confusione, un mix di qualcosa e addirittura il concetto di cambiale (quella che si firma in cambio di soldi, l'etimologia in italiano è completamente diversa). Mettendo assieme saku con koku non solo c'è una crasi e la parola diventa sakoku ma il significato diviene quello di "nazione chiusa" o "bloccata".

Bloccando tutto i Tokugawa avevano degli obiettivi precisi: innanzitutto mantenere il potere ottenuto dopo un periodo di rivoluzioni e guerre interne conclusosi nel 1600. Bloccare tutto eliminava la variabile degli stranieri. Inoltre, secondo motivo, permetteva di sradicare il cristianesimo che, per opera soprattutto dei gesuiti, avevano cominciato a fare proseliti sul serio in Giappone e stavano minando l'ordine sociale oltre che quello religioso del Paese. Infine, bloccando le potenze straniere (Portogallo, Paesi Bassi e Spagna) non solo il Giappone non diventava una colonia, ma praticava una politica autarchica che permetteva di stabilizzare l'economia eliminando di fatto il commercio internazionale e basandosi sull'autosufficienza fornita dall'agricoltura e dal pescato.

La conseguenza dell'apertura forzata e quindi della fine dell'isolazionismo giapponese, portò al crollo del sistema feudale sino ad arrivare alla restaurazione del sistema imperiale nel 1868 (l'inizio dell'era Meiji che tutti i giapponesi rimpiangono in qualche modo), cambiarono tradizioni e modi di vestire, alimenti e arredamento, arrivarono novità tecnologiche, il Giappone imparò che il prezzo da pagare per il sakoku era il ritardo nello sviluppo e quindi una debolezza enorme (mancavano i cannoni sulle coste per respingere le navi americane) e accelerò sullo sviluppo. Infine, la modernizzazione del Giappone aprì la strada a un percorso di espansione territoriale, di trasformazione da potenziale colonia in potenza economica e militare internazionale, sino alle due guerre che ne stabilirono lo status: la guerra contro la Cina nel 1894-1895 e la guerra contro la Russia nel 1904-1905.

La trasformazione da un'isola remota e sconosciuta, senza una voce internazionale, a una nazione industrializzata capace di battere uno dei grandi imperi del mondo (la Russia dello Zar), influenzò profondamente la politica internazionale del XX secolo.


Italiana

Il Giappone invecchia e il caldo è sempre più una minaccia (opens new window), scrivono nella Svizzera italiana. Le vittime ci sono state anche in Corea del Sud, ma in Giappone, con oltre 36 milioni di over 65, le alte temperature sono già oggi un problema: negli ultimi anni c'è stato un vero e proprio boom di decessi.

La storia di Swatch (opens new window), da un vecchio numero di Domus. E già che ci siamo, da un altro vecchio numero, anche la storia del progetto di Alain de Botton (opens new window) per fare alberghi diffusi come strumento di innovazione culturale: era state pensate per educare un pubblico inglese ritenuto conservatore all’architettura contemporanea.

La storia delle Filippine non la conosce nessuno, qui da noi. La letteratura non ne parliamo neanche. Eppure c'è una sorta di Alessandro Manzoni ibridato con Giuseppe Garibaldi che ha scritto i romanzo fondamentali. Si chiama José Rizal (opens new window), è l'inventore dell'idea delle Filippine e in italiano è stato tradotto solo di contrabbando da Vasco Caini, un ex professore di fisica in pensione (opens new window) (per via della badante della moglie, pensa te).


Multimedia

Nel 1842, l'artista e studioso francese Joseph-Philibert Girault de Prangey partì per un tour del Mediterraneo orientale per documentare i luoghi e l'architettura attraverso il nuovissimo mezzo della fotografia. Partì dall'Italia per la Grecia, l'Egitto, la Turchia, la Siria e il Levante (che comprende gli attuali Libano, Israele e Palestina). I dagherrotipi che scattò sono le più antiche foto sopravvissute di quei luoghi. Un viaggio indietro nel tempo di 180 anni (opens new window).

Una collezione di disegni di Hokusai viene intagliata su blocchi di legno e stampata per la prima volta in assoluto (opens new window).

Lo ammetto, mi mancano gli onigiri, i paninetti giapponesi ideali per un pranzo veloce. Qui spiegano come si possono fare in Italia (opens new window).

Far atterrare un aereo da trasporto militare Hercules C-130 (decisamente grosso) sulla portaerei USS Forrestal (per definizione piccola) è un interessante problema (opens new window).

A me piace vedere quando fanno le cose e questo video su quelli che fanno le matite (opens new window) è ipnotico.

Le navi da crociera sono diventate sempre più grandi. Ecco perché (opens new window).

Clockwork Pi Dev Term! Super Cool! (opens new window) Quanti ricordi!

La storia di alcune delle stewardess della Pan Am (opens new window) (come venivano chiamate).


Tsundoku

In questi ultimi mesi ho riletto alcune serie di manga che sono fondamentali nella storia del fumetto giapponese e non solo. Eccole qua, visto che questa volta parliamo di giapponese più che altre volte. Sono vecchie serie: prendetele come le letture di un vecchio boomer; per le cose nuove ci saranno altre occasioni. Tra l'altro, concordo perfettamente con questa giornalista (opens new window): leggere fumetti è un ottimo modo per uscire dalle secche di un periodo in cui non si ha voglia di leggere alcun libro. Provate.

Akira (opens new window). Lo conoscete tutto, l'ha scritto e disegnato Katsushiro Otomo e poi è diventato un film straordinario. Ma il manga è notevolissimo, con giochi di luce, inquadrature, una plasticità dei movimenti che lo rendono assolutamente attuale. E la storia è una delizia da rileggere. Questa edizioni vale molto, anche se io ho la prima della Glénat (ma solo perché sono vecchio).

Nausicaä della valle del vento (opens new window). Anche questa pubblicata da Panini, è una serie fondamentale. Hayao Miyazaki l'ha iniziata come "hobby" prima di pensare al film, che è servito a sua volta per dare l'avvio allo Studio Ghibli. Poi, l'ha finita con una certa calma una ventina d'anni dopo. Ottima. Sempre da vecchio, ho la serie Glénat ma anche quella Panini, che è decisamente ben fatta.

Crying Freeman (opens new window). È il capolavoro di Ryoichi Ikegami, sulla storia di Kazuo Koike. Bello, intenso, quando uscì rivoluzionò il disegno giapponese. Il primo volume (quello uscito più o meno a puntate in Italia negli anni Novanta) ha una unità di intenti e visione che i successivi portano un po' troppo all'estremo, a mio avviso. Il film live action che ne fu tratto non è mai stato valutato molto ma è uno dei primi tentativi di dare gambe a un tipo di narrazione orientale che per lungo tempo era stata filtrata da noi occidentali.

Ghost in the Shell (opens new window). Il problema del manga di Masamune Shirow sono gli infiniti reboot e storie gaiden, le variazioni sul tema che annacquano il valore originale del manga. Il film con Scarlett Johansson è un bel film, ad esempio, se solo trattasse un'altra storia. Comunque, questa storia nella sua versione originale è fondamentale perché è l'inizio del ramo giapponese del cyberpunk. E il cambiamento che ha dato all'immaginario futuro contemporaneo non è ancora terminato.

Lamù (opens new window). Tutto di questo manga, e dell'anime televisivo che ha incantato una generazione o due di ragazzine e ragazzini, è un mistero, La mitologia, le motivazioni dei personaggi, le storie, persino la sigla italiana, che per decenni non si sa chi avesse cantato. Questa edizione è buona, anche se un paio di numeri non si trovano più purtroppo. Quella vecchia, frammentata in un sacco di piccoli albi, non valorizza il disegno della mangaka più importante degli ultimi anni, Rumiko Takahashi.


Coffee break

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Al-Khwarizmi

Il mondo dei semiconduttori, la base sulla quale avviene il calcolo, è in rapidissimo cambiamento. Non più in maniera monodimensionale, come aveva previsto Intel con la legge di Moore, ma attraverso una serie di fattori diverse nei quali il vecchio re, Intel, non è più tale. C'è un problema culturale oltre che tecnologico ed economico. È molto interessante, perché anche l'attuale assetto, centrato su Tsmc, Amd e Nvidia, potrebbe essere transitorio. Ma quale potrebbe essere l'evoluzione? Prima bisogna capire dove si trova Intel e poi si riesce a capire il resto. I problemi di Intel e come potrebbe risolverli (opens new window).

Complice una studentessa candidata per un master nel quale insegno e del quale curo parte della selezione (la quale ha inserito nel curriculum che conosce "il sistema operativo di AS/400 (opens new window)"), sono andato a curiosare nel giurassico tra i mainframe di cui oggi l'unica e più grande nonché l'ultima interprete è proprio Ibm. Come stanno i suoi mainframe? (opens new window) Con questo articolo capirete tutto, anche perché sono ancora in circolazione.

Torniamo un po' a parlare di riga di comando, che da tempo la stavamo trascurando. Un articoletto dedicato a Linux ma che funziona benissimo anche per macOS su come fare a trovare stringhe di testo in raccolte di documenti di testo. In pratica, grep oppure find, ma spiegati bene (opens new window).

Invece, se volete fare una giratina tra i soliti noti del mondo delle applicazioni per riga di comando, questa lista comprende una serie di strumenti interattivi interessati (opens new window), praticamente tutti disponibili anche per Mac con il packet manager Homebrew (opens new window) (che se non lo conoscete (opens new window) forse dovreste conoscerlo (opens new window)). Io ad esempio lsd (opens new window) non lo conoscevo: carino.

Redhat, il colosso del software open che è stato comprato da Ibm e adesso fa parte dell'ecosistema di Big Blue, è famosa per le sue guide e articoli di inbound marketing (opens new window): nel settore tech li ha praticamente inventati lei. Questo su come si usa Vim (opens new window) è ben fatto e spiega molto bene come iniziare.


Densha de Go! 2
Densha de Go! 2 ~ Foto © Antonio Dini

La coda lunga

Ho un amico, anche se non ci sentiamo mai, che odia il cloud. O forse non lo odia ma lo considera semplicemente quello che è: il computer di qualcun altro. Certo, il cloud è il modo per erogare servizi che altrimenti non sarebbe possibile avere, o che costerebbero troppo. Tuttavia, è diventato anche il filtro e il contenitore di moltissime informazioni. Man mano che la parte abitata della rete si espande, che le cose che costituiscono la nostra vita da atomi diventano bit, il cloud assume un ruolo fondamentale. E ci mettiamo tutto dentro, anche perché da un certo punto di vista è più affidabile delle nostre cose locali, siano essere atomi che stanno in casa o bit conservati dentro la memoria dei nostri computer, dei nostri telefoni e dei nostri tablet. Fino a che non lo sono più. E quando questo succede, è un problema. Ci sono varie storie dell'orrore che raccontano di gente che ha perso tutti i suoi dati, oppure a cui è stata chiusa questa o quella identità digitale (Google, Amazon, Twitter, non cambia niente) e si è trovata letteralmente persa. Chissà cosa ne penserebbe il mio amico di questo lungo articolo di Wired (opens new window) (originale (opens new window)) che fa un po' un primo giro, forse anche troppo timido, di perché il movimento Local-Software-First potrebbe salvarci dalla prigione del cloud. Secondo me gli piacerebbe.




I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.



“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”

– G.K. Chesterton


END




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