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A caccia del moto perpetuo – Parte III


In cui alcune guerre di religione, rivoluzioni e geniali artigiani alle dipendenze di monarchi assoluti hanno cambiato il modo di fare gli orologi

giovedì 3 agosto 2023


Tutti i capitoli: prima parte, seconda parte, terza parte


C'era una frase che mi ruzzolava in testa da un po': "Una grande tradizione non è nient'altro che un'innovazione che ha avuto successo tanto tempo fa". Questa frase, piuttosto banale a dire la verità, mi ha fatto scattare qualcosa e all'improvviso mi sono ricordato. Avevo lasciato alcune pagine in sospeso per più di dieci anni. Avevo promesso ai miei cinque lettori di un tempo: "ne parliamo la prossima volta". Poi, mi devo essere perso via. Il tempo passa veloce. Fino a che non ho pensato "È ora di rimetterci mano". Ecco qui il frutto di quel pensiero


Tourbillon

In cui si parla delle guerre di religione e degli Ugonotti

Mettetevi comodi, perché serve tempo e qualche giro attorno all'Europa per raccontare la storia del signor Abraham-Louis Breguet, nato il 10 gennaio del 1747 a Neuchâtel, cittadina che all'epoca faceva parte della Prussia e non della Svizzera, e della sua geniale invenzione. Una delle tante.

C'è una cosa che va detta subito: Neuchâtel esisteva da tempo, ma sotto dominazioni diverse. Era stata parte del regno di Borgogna, del Sacro Romano Impero e, dal 1707 fino al 1848, sotto il controllo del re di Prussia, a parte un breve periodo tra il 1802 e il 1814, durante le guerre napoleoniche. Dopo il re di Prussia, nel 1848, finalmente Neuchâtel diventa una repubblica e un cantone della nascente Confederazione Svizzera.

Mettiamoci però in prospettiva. Quando pensiamo ad Abraham-Louis Breguet, infatti, pensiamo a un periodo storico il cui futuro è tutt'altro che certo. Neuchâtel era stata riconosciuta formalmente solo nel 1648, praticamente un secolo prima, con la pace di Vestfalia, quella che aveva messo fine a due guerre belle lunghe: quella dei trent'anni in Europa centrale e quella degli ottant'anni tra la Spagna e le Sette Province Unite, antesignane dei Paesi Bassi.

Guerre brutte, pesanti, che avevano scombussolato l'Europa, perché quel periodo storico è caratterizzato non solo dalla trasformazione dei confini, la lotta fra imperi e la costruzione delle prime identità nazionali europee, ma anche da serrate guerre di religione tra Stati protestanti e cattolici da una parte e dagli scontri legati a interessi meramente economici dall'altra.

In tutto questo la Svizzera pian piano stava prendendo la forma che conosciamo oggi, e, assieme alla Germania centro-occidentale e ai futuri Paesi Bassi, diventa un centro del calvinismo di lingua tedesca. Certo, ci sono le minoranze ovunque, e la storia delle religioni in questo periodo va a braccetto con le scelte che vengono fatte dai sovrani, dagli interessi che rappresentano, dai cambiamenti di assetti di lungo periodo. Tuttavia, il calvinismo ha un ruolo molto particolare quando si parla di orologi. Perché la religione ha cambiato molte abitudini e indotto tante persone a spostarsi. E ha fatto germogliare un'intero settore economico "un po' più in là".

In cui appare chiaro che religione e orologi sono legati

La storia del calvinismo la conosciamo: è quella di Giovanni Calvino, che poi sarebbe Jehan Cauvin perché nato nel 1509 a Noyon in Piccardia, che in realtà sarebbe il dipartimento dell'Osie, in Alta Francia. I nomi all'epoca erano ancora un concetto alquanto ondivago, soprattutto perché venivano normalizzati in maniera diversa nei vari paesi. Ad esempio, i francesi hanno cambiato il nome di Calvino, prima usando il latino (all'epoca suonava moderno) come Johannes Calvinus, e poi in lingua francese come Jean Calvin. Assieme a Lutero (e non fatemi cominciare con i suoi, di nomi), Calvino ha riformato il cristianesimo, ma non è stato il primo né il solo. Infatti Calvino, a differenza di Lutero, era un teologo che appoggiava buona parte del suo pensiero su una base riformatrice precedente, messa assieme da un altro personaggio alquanto interessante: Huldrych Zwingli, che da noi veniva chiamato Ulrico Zuinglio e che ha riformato, lui sì letteralmente una per una, le chiese cattoliche svizzere.

Fu un periodo di grande confusione, ammettiamolo. A me fa venire in mente, anche se è ambientato sei secoli prima, l'incipit dei ‌Les fleurs bleues di Raymond Queneau: "Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I normanni bevevan calvados".

Ecco, mi immagino una cosa così, solo più acida e più cattiva: si rischiava di morire per un "amen" detto nel modo sbagliato. Ma si sa, all'epoca, nel sei-settecento, non c'erano cinema, televisione e social, quindi la gente si appassionava a quel che si ritrovava sottomano. E la religione di quei tempi aveva un ruolo nella vita quotidiana che oggi non ha più. Per questo l'appartenenza a questa o quella confessione spesso faceva la differenza tra una vita serena oppure la miseria, la fame, la guerra. O la migrazione.

Arrivo al punto, non temete. Tutto questo ha un impatto frontale con l'orologeria. Perché questo settore, come ci siamo detti nei capitoli precedenti, non è nato in Svizzera. Tutt'altro. Dopo il Rinascimento (che ha visto succedere cose interessanti anche in Italia) e per tre secoli circa, alla guida del campionato degli orologi c'erano i francesi e i tedeschi. Poi arrivarono le riforme, le guerre di religione, il caos. E poi fu la volta dei protestanti francesi, che andavano sotto il nome di Ugonotti. Gente sfiduciata (ne avevano ben donde) tra una guerra e l'altra capirono che era arrivato il momento di varcare il confine e spostarsi in Svizzera. A Ginevra, per la precisione. Poco dopo essere sbarcati al di là del Giura e arrivati sulle sponde del lago Lemano, gli Ugonotti si resero conto di essere l'involontaria soluzione a un problema creato dal calvinismo: una alternativa al mestiere degli orafi di Ginevra. Perché c'era un problema che angosciava i ricchi artigiani dell'oro e delle pietre preziose.

Uno dei tratti caratterizzanti di Calvino, in un'epoca in cui nobiltà e clero mangiavano a quattro palmenti ostentando ricchezza come oggi neanche un trapper o un influencer, era quello non solo della frugalità ma anche del rifiuto dell'ostentazione. Un rifiuto che potremmo definire "attivo", nel senso che era vietata e perseguita l'esibizione di gioielli e altri simboli di ricchezza. E se ci si rifiutava, si finiva male. Un bel problema per gli orafi, il cui business model dipendeva dai trapper e dagli influencer dell'epoca. La conseguenza fu che dovettero rapidamente inventarsi un mestiere alternativo. Quello dell'orologeria si presentò come una opportunità facile da percorrere grazie agli Ugonotti che avevano competenze circa gli orologi da indossare, quelli che oggi definiamo orologi da tasca o da panciotto ma all'epoca erano gli unici e venivano comprati dalle ricche dame oltre che dai gentili cavalieri.

Ginevra era una città ricca, con un'economia calvinista certamente ma anche molto florida. Prosperavano tutti tranne che gli orafi. I quali però avevano capito che oltre alle lavorazioni preziose aveva in comune con l'oreficeria la conoscenza e l'uso di metalli differenti e una certa manualità. C'era tutta una parte relativa alla meccanica della misurazione del tempo da capire, ma per quella ci si poteva pur sempre attrezzare con l'aiuto di un compare ugonotto.

Tra la fine del Seicento e la fine del Settecento la Svizzera scopre l'orologeria. Sia quella delle pendole da parete (se ne producevano di raffinate che facevano concorrenza a quelle parigine) che quella degli orologi da indossare. Merito degli orafi di Ginevra, dove si accesa la prima scintilla.

Questo spostamento di competenze spiega anche un altro grande mistero: perché siano i gioiellieri a vendere gli orologi. Non è del tutto logico, se ci pensate un attimo. Certo, è vero che sono preziosi come gioielli, anzi che oggi sono i gioielli maschili. E che al principio erano oggetti preziosi destinati a sovrani e ricconi, trapper e influencer, più per il gusto dell'oggetto che non per il suo uso: delle uova di Fabergé che ticchettavano, insomma.

Tuttavia, durante il periodo di maggior crescita e diffusione dei segnatempo gli orologi meccanici erano soprattutto degli strumenti che servivano alla vita moderna. Eppure, se vi capita di andare a comprarne uno, ancora oggi vedrete che i negozi che li vendono sono sempre e solo delle gioiellerie. Non dico che si debbano trovare dal ferramenta o su Amazon (ci sono, prevalentemente al quarzo però), ma la categoria non ha mai sviluppato una sua identità completamente differente da quella dei gioielli, anche quando erano degli strumenti. Ci torneremo, ma è una cosa da tenere a mente.

In cui un certo Daniel Jeanrichard cambia per sempre la Svizzera

Intanto, e siamo appunto nel periodo che va dal Cinquecento fino al Seicento, la Svizzera si trasforma. Sfrutta la capacità degli artigiani ugonotti, i calvinisti francesi sfuggiti ai sovrani cattolici e bravi nella costruzione di strumenti per la misura del tempo. Ma non si ferma qui: i piccoli imprenditori svizzeri che vogliono vendere segnatempo interpretano in maniera originale l'impresa dell'orologeria, riorganizzandola. C'è un uomo solo, praticamente, dietro a questa trasformazione, ma ci arriviamo tra un attimo. In un tempo che gli storici del settore definiscono breve ma che in realtà si spalma su tre generazioni, Ginevra prima e poi buona parte della Svizzera francese diventa il polo dell'orologeria mondiale, superando Parigi, Lione ma anche Norimberga e Augusta.

Siamo all'alba della nascita della Watch Valley, come dicono quelli impallinati con l'innovazione e le startup. Un gigantesco distretto che va da Ginevra a Basilea lungo l'arco del massiccio del Giura e che permette una integrazione dello sciame di micro-imprese funzionali allo sviluppo dei prodotti. La Svizzera con l'orologeria ha dato una interpretazione assolutamente originale a questo fenomeno, a partire dall'impatto di una religione, di una migrazione e di un travaso di competenze fra settori contigui.

Non è finita, però, perché Ginevra non è la vera capitale dell'orologeria. Piuttosto, lo è la valle degli orologi: la produzione infatti divenne molto presto non più gestibile in una sola città e quindi venne spostata fuori. Manodopera motivata e a basso costo, distribuita in posti diversi. L'espansione segue le linee geografiche del Paese. Come si studia a scuola, la Svizzera è composta da tre regioni geografiche: l'altopiano, le Alpi e il massiccio del Giura. È in quest'ultima area che fiorisce la produzione degli orologi. Si frammenta, si spezzetta e si suddivide in una miriade di piccoli centri, dove il mestiere dell'orologiaio, per uno di quegli apparentemente inspiegabili misteri della vita, diventa una professione e un lavoro compatibile con i mesi invernali in cui i contadini e gli allevatori sono bloccati nel loro cottage dalla abbondanti nevicate e, con molto tempo libero a disposizione, lavorano alla creazione di parti e componenti dei movimenti. L'idea della "cottage industry", come la definiscono gli economisti, è legata all'economia pre-industriale e riguarda settori come i tessuti e l'abbigliamento. L'industrializzazione porta l'industria a domicilio in fabbrica, dove i macchinari permettono di centralizzare e moltiplicare la produzione. La Svizzera, con l'industria orologiera, fa esattamente il contrario. Porta tutto fuori, nelle valli, nelle case, tra le mani degli artigiani che lavorano in famiglia, d'inverno.

Così, fra La-Chaux-de-Fonds, La Vallée des Joux, Neuchâtel, Le Locle e Schaffhausen, prende forma la struttura del comparto moderno. Dietro, però, c'è un uomo solo. Pare, infatti, che il merito di aver dato la spinta principale a questo tipo di approccio a domicilio sia stato un orafo e orologiaio autodidatta, un certo Daniel Jeanrichard, che ha portato la divisione del lavoro nell’industria orologiera. È lui che, ad esempio, va a Le Locle, a incoraggiare i contadini del luogo ad applicarsi alla lavorazione dei primi "pezzetti" di ruote, viti e ingranaggi vari necessari agli orologi. Nato probabilmente nel 1665, tra i pupilli di Jeanrichard ci sono David Vaucher e Abraham Bosset, nomi importanti perché continueranno a fare proselitismo nelle valli. Vaucher ad esempio porta le lavorazioni di fino per l'orologeria nella Val-de-Travers, nel cantone di Neuchâtel. È importante che lo faccia perché qui, a Fleurier per la precisione, l'industria crescerà rapidamente, spinta anche da un altro tipo di trasformazione industriale.

In cui si racconta la storia di Édouard Bovet de Chine

Il tessile e l'abbigliamento avevano fatto retromarcia: dal cottage alla fabbrica, come abbiamo detto. La trasformazione tecnologica non era passata senza costi sociali. Siamo infatti nell'epoca delle rivoluzioni tecnologiche, delle grandi invenzioni, e ci sono i telai di Jacquard, la prima forma di meccanizzazione del settore tessile, che stanno portando via il lavoro a migliaia di persone. Erano i computer di una volta, quelli che terrorizzano i sindacati in qualsiasi forma si presentino.

Nella Val-de-Travers del Settecento ci si butta sul primo mestiere che promette un'entrata stabile e possibilità di crescita: la componentistica per gli orologi. Tanto che Fleurier diventa sinonimo internazionale di qualità. Nel 1730 nasce la fabbrica di orologi Fuss. Poi nascono persone come il nostro Édouard Bovet, che ha una storia esemplare e di tutto rilievo, anche se ci allontana per un attimo dalla nostra caccia del moto perpetuo. Ma lasciatemela raccontare, ci metto un attimo.

Dunque, il Bovet è un giovane e intraprendente aspirante orologiaio nato nel 1797 a Neuchâtel. Quando ha 17 anni va a vivere a Londra con i fratelli, impara il mestiere nella fabbrica di orologi Maniac e poi, quando questi gli offrono di partire per l'Oriente come venditore-meccanico accetta con entusiasmo. Questo viaggio farà indirettamente la fortuna del villaggio di Fleurier.

Infatti, lavorando per Maniac, Bovet apre un intero mercato agli artigiani svizzeri. Ma andiamo con ordine. Dopo una traversata avventurosa su una goletta della Compagnia delle Indie Orientali e quattro anni in cui si sposta tra varie parti della Cina, durante le quali fa da venditore e riparatore per i clienti cinesi, Bovet capisce una cosa. I clienti cinesi sono molti meno di quelli che potrebbero in realtà essere. Il mercato sino a quel momento è composto sostanzialmente da mandarini, la casta dominante in Cina. Ma secondo Bovet si può fare di più e meglio allargando ai ricchi commercianti, che sono in cerca di un riconoscimento del loro status e hanno fame di cultura e di bellezza. Cosa c'entra la fame di cultura e di bellezza con gli orologi? Tutto.

Il popolo cinese adora gli orologi, ma non per i motivi che immaginiamo noi. Non gli interessa sapere che ore sono: nessuno ha particolarmente fretta e basta poco per capire se siamo prima o dopo pranzo. Invece, quello che i cinesi vedono negli orologi è una forma di arte meccanica, una ingegnosa curiosità da esporre e osservare a lungo, del cui movimento godere dal punto di vista estetico. Il primo a capirlo è stato l'Imperatore, che ha riempito il palazzo proibito di orologi europei sin dai tempi del gesuita Matteo Ricci, oltre a quelli antichissimi prodotti in Cina. E Bovet capisce che può soddisfare una domanda ancora inespressa ma potenzialmente enorme, perché oltre ai mandarini ci sono altri ricchi cinesi che vogliono queste forme d'arte meccanica: per goderne e per stupire gli amici dimostrando così il proprio status. Per sentirsi "arrivati".

Dunque, Bovet si mette in proprio con i fratelli, e fa della Val-de-Travers e di Fleurier in particolare il cuore della sua produzione. Gli orologi, che all'epoca erano tutti ovviamente da tasca, vengono adattati al giusto cinese. In pratica: lacche, oro e decorazioni varie, ma anche un piccolo vetro a mo' di finestra che permetta di vedere il meccanismo interno. Gli artigiani di Bovet, organizzati in piccole aziende familiari e legati da contratti di fornitura, cominciano a produrre, creando un vero e proprio "impero diffuso".

Gli orologi di Édouard Bovet de Chine, com'era conosciuto, sono ingegnosi, delle piccole scatole delle meraviglie che consentono di vedere il movimento mentre ticchetta, e vengono preparati a coppie. Infatti, per procedere alle revisioni e riparazioni dovute a usura o incidenti, devono essere rimandati dalla Cina sino in Svizzera: c'è da aspettare fino a due anni. Il "gemello", tenuto in una scatola, viene fornito al cliente come muletto, mentre l'altro farà il suo lento viaggio. Sui quadranti, per la prima volta gli orologi occidentali hanno scritte in cinese inclusi i numeri e il nome di Bouvet, che diventa così sinonimo di orologio con la pronuncia cinese: "pauvey" o qualcosa del genere. Ancora oggi quel nome per i cinesi indica l'idea stessa dell'orologio modernamente inteso.

Nel 1830 Bouvet torna dalla Cina, va a vivere con i figli (avuti dalla moglie cinese di cui le cronache non ci tramandano la storia) in una casa, chiamata «Le Palais chinois», che oggi è il municipio del villaggio. Si mette quasi subito nei guai per le sue idee politiche un po' rivoluzionarie: vorrebbe scacciare i soldati del re di Prussia e trasformare il suo cantone in una repubblica. Non riesce, va in esilio per 12 anni e torna solo quando il re di Prussia molla finalmente la Svizzera, cioè nel 1848. Morirà l'anno dopo, a poco più di cinquant'anni.

Fine della storia di Bouvet, del successo di Fleurier (oggi rinomata località per produrre orologi, come insegna Parmigiani Fleurier) e del perché pezzi della Svizzera fossero in realtà parte della Prussia. Siamo andati un po' avanti, adesso torniamo indietro nel tempo di qualche decennio, ai tempi di Breguet e dei suoi.

In cui si prima chiude un'altra parentesi lasciata aperta

Anzi, per essere precisi: eravamo rimasti nella bottega di Daniel Jeanrichard, che non costruisce solo gli orologi e le parti che li compongono, ma anche gli strumenti per la loro realizzazione e la misura delle parti stesse. Le innovazioni nel suo laboratorio si succedono quotidianamente: ha creato cento startup sepolte tra le montagne, che per quarant'anni producono una vera e propria scuola artigianale di altissimo livello, oltre a un modello economico e organizzativo.

Ma come tutte le storie, anche questa arriva al termine dopo aver emesso il suo acuto. Jeanrichard continua il suo lavoro, tra alti e bassi, ma mai più come prima. Non scompare però, almeno non subito. Nell'Ottocento la sua marca ha una certa notorietà grazie al nipote, Louis Jeanrichard, che fa un ottimo lavoro. Poi, con la morte anche di Louis, l'azienda va in coma e muore. I marchi però non sono come le persone: quando evaporiamo nel nulla del tempo di noi resta solo la memoria, mentre i marchi possono essere riportati in vita dagli stregoni del marketing. E così accade a Daniel Jeanrichard, che viene riesumato nel 1988 dal Gruppo Sowind, la società che controlla Girard Perregaux. Come è accaduto varie volte in tempi moderni nel mercato dell'orologeria svizzera, viene portata avanti una operazione commerciale più che culturale. Prima con l'etichetta "Daniel Jeanrichard" e poi con il solo nome "JeanRichard", che si inventa anche la "R" maiuscola per sottolineare la crasi dei due nomi. Tutto questo però qui non ci interessa già più.

In cui si racconta finalmente la storia di Abraham-Louis Breguet

Invece, torniamo al nostro amico Abraham-Louis Breguet, che nasce proprio all'inizio di tutto questo, nel 1747, e segue però una strada del tutto diversa rispetto agli Ugonotti. Va al contrario: dalla Svizzera sotto il calcagno del re di Prussia, infatti, Breguet va in Francia, a Parigi, quando è ancora ragazzino, a 15 anni, e perfeziona rapidamente le sue competenze nel settore dell'orologeria. Diventa anzi decisamente bravo, molto bravo, bravissimo. E mostra da subito di avere due talenti: il primo è per l'invenzione (e ne vedremo delle belle) il secondo è per gli affari. Nella strada parigina degli orologiai, cioè Quai de l'Horloge (il lungosènna dell'Île de la Cité, l'isola fluviale dove c'è anche la cattedrale di Notre-Dame), a soli 28 anni fonda il suo laboratorio e fabbrica Breguet SA. Siamo nel 1775, ancora manca qualche anno alla rivoluzione francese e poi all'impero napoleonico, ma lui non ha problemi. Continua a creare orologi innovativi, rivoluzionari, straordinari, che diventano i preferiti di Maria Antonietta prima e di Napoleone Bonaparte dopo.

Certo, il periodo di mezzo, quello della rivoluzione, non è il massimo per chi lavora su meccanismi di precisione per ricchi e ricchissimi nobili. Per questo, con un tempismo e una sensibilità per i cambiamenti del mondo davvero notevole, Breguet ritorna in Svizzera nel 1789 e così non viene neanche sfiorato dal furore dei rivoluzionari. Tornerà a Parigi solo dopo il 10 Termidoro, quando la testa di Robespierre rotola di sotto dalla ghigliottina, per trovare un ottimo interlocutore in Bonaparte, che apprezza il suo operato così come lo faranno i regnanti della Restaurazione francese. I suoi sono capolavori ma sono anche strumenti estremamente affidabili e precisi per la misurazione del tempo. Viene apprezzato per la bellezza della sua opera ma anche per l'ingegnosità tecnica. Napoleone, che era un esteta ma anche un condottiero, pragmatico e capace di cogliere l'essenziale in tutto, compra vari orologi da Breguet. Questi realizza per lui il primo orologio da viaggio, una pendola compatta e portabile, che diventerà per Bonaparte la compagna di viaggio in Egitto e per altre campagne militari successive.

Breguet, per tutta la prima parte l'Ottocento, sino alla sua morte nel 1823, sarà fornitore non soli di individui ricchissimi ma anche delle organizzazioni dei grandi imperi, dando i suoi orologi alla Marina Imperiale Francese a alla Marina Imperiale Russa. Ma sarà anche il fornitore personale dei reali. Come la Regina di Napoli Carolina Murat, infatti, che nel 1810 riceverà da Breguet il primo orologio da polso per signora di cui si abbia notizia.

Breguet si è inventato praticamente tutto, lavorando in parallelo in tutte le aree critiche della nascente orologeria moderna di cui in effetti è uno dei padri. Ha infatti creato l'orologio automatico, che lui chiamava "perpetuo", il moderno bilanciere, vari tipi di scappamenti ad ancora o a cilindro, la molla a gong per gli orologi con ripetizione e il primo dispositivo per ammortizzare gli shock, da sempre nemici dei meccanismi che misurano il tempo. Era il "paracadute", che ancora oggi viene utilizzato su alcuni calibri molto particolari prodotti dalla stessa Breguet.

L'uomo era anche un abile imprenditore: a un certo punto decise infatti di collaborare con il “Bureau del Longitudes”, creando un ottimo cronometro da marina (strumento fondamentale assieme al sestante e alla bussola che serviva per fare il punto e calcolare la posizione) che, come abbiamo visto, gli permise così di guadagnarsi le commesse di ben due marine imperiali. Aveva creato anche una serie di soluzioni per la lubrificazione dei meccanismi che sono tutt'oggi alla base del settore. Infine, divenne anche membro dell'Accademia delle Scienze e ricevette la Legione d'Onore da Re Luigi XVIII. Insomma, dire che ebbe successo in vita è un po' una minimizzazione. Era una rockstar dell'orologeria, una specie di Leonardo da Vinci con più senso imprenditoriale.

L'uomo, tuttavia, portava una grande agitazione sepolta nel profondo del suo cuore, che lo motivava e lo spingeva a correre sempre di più. L'ansia del moto perpetuo, che non riusciva a catturare.

In cui cresce l'ansia del moto perpetuo

Breguet era ossessionato da un sogno: creare un orologio che fosse capace di andare avanti all'infinito, senza bisogno di essere caricato. Creare sostanzialmente un moto perpetuo. In un'epoca in cui le leggi della fisica ancora non avevano dimostrato che la conservazione del moto all'infinito non è possibile, il traguardo pareva possibile, si trattava solo di ingegnarsi a sufficienza per superarlo.

Come tutte le persone che avevano affrontato prima di lui i problemi dell'orologeria, sapeva che alla base del problema del moto c'era l'attrito. Uno poteva creare un orologio quanto più complicato possibile, pieno cioè di funzioni aggiuntive oltre alla semplice registrazione del passaggio del tempo, o con la manifattura più fine e le componenti più precise, ma doveva fare sempre i conti con i materiali che cambiano forma e proprietà a causa del caldo e del freddo, e che si sfregano tra loro (qui entra in campo la nostra amata tribologia e i modi per lubrificare progettati da Breguet).

Breguet sapeva anche che tutto questo insieme di problemi, per quanto semplificabile e riducibile alle sue parti essenziali, non era risolvibile. Perché tutto quello che riguarda il moto di un orologio è composto da cerchi e da archi, da movimenti orizzontali e verticali, che come tali sono vincolati da una legge naturale ineludibile ma estremamente parziale, perché colpisce da un lato solo e in una sola direzione. Signore e signori, entra in campo la forza di gravità, che "schiaccia" tutto verso il basso e rende qualsiasi soluzione parziale e richiede sempre aggiustamenti e compensazioni.

Un nemico impossibile da sconfiggere, sul quale però Breguet con il passare del tempo si era fatto delle idee precise. Aveva un piano. Il merito era di una straordinaria opportunità che gli era stata fornita. Uno di quei rari momenti in cui, a un uomo estremamente motivato, era stata offerta carta bianca. Anziché crogiolarsi, era la leva con la quale tentare di sollevare il mondo.

In cui si assiste alla grande fortuna di Breguet

Nel 1782 Breguet aveva realizzato per la regina di Francia un orologio che aveva colpito moltissimo sia il marito e sovrano Luigi XVI che la regina Maria Antonietta e tutta la corte. Era l'orologio numero 2 10/82. Un l’orologio perpetuo (cioè automatico) a ripetizione (che ribatteva con la molla a gong il passaggio dell'orario) e la funzione di calendario. Era ed è un capolavoro. Uno strumento di artigianato enorme, pazzesco. La regina aveva colto le regole del nuovo gioco dell'orologeria, a metà fra arte e tecnica: se anche gli altri consideravano questi orologi come gioielli e non come strumenti, lei aveva "visto" all'interno dell'orologio quello che i mandarini cinesi avrebbero imparato ad amare: l'arte meccanica, il piacere estetico di guardare un movimento e le sue mille complessità, rese ancora più estreme dalle eleganti complicazioni. Dall'alchimia dei materiali preziosi e dall'ottica dei riflessi nei gioielli purissimi si era arrivati alla gioia della meccanica, con i suoi meccanismi sempre in movimento. Ammirare un orologio anziché un semplice gioiello era un po' come passare dalla fotografia al cinema: sempre prezioso, ma in un modo estremamente più complesso.

Forse tutto questo l'anno dopo spinse la regina, per il tramite del suo amante il conte Hans Axel von Fersen, a fare una proposta che solo i sovrani oscenamente ricchi (o le loro incarnazioni moderne: gli oscenamente ricchi senza più bisogno della corona) sanno fare. La regina chiese un orologio che contenesse tutte le complicazioni conosciute, tutto il meglio dell'orologeria sino a quel momento, e anche altro, da inventarsi sul momento. Per il puro piacere estetico di avere l'orologio più complesso di sempre. In questo, la regina a Breguet non poneva limiti di tempo o di budget, come si direbbe adesso. Massima libertà per ottenere il massimo risultato.

In cui anziché disegnare un granchio si prende un impegno serio

A differenza del racconto taoista contenuto nel vecchio testo del ‌Chuang Tzŭ, che narra di un saggio invitato dall'imperatore a disegnare un granchio che chiede una villa e servitori per anni, reiterando la richiesta sino a che, ormai vecchio, quando l'imperatore perde la pazienza, disegna un granchio rudimentale ma perfetto in un attimo; a differenza di questo racconto, dicevo, Breguet si mette di buzzo buono. Ed esagera, da buon overachiever qual era. Tanto che né la regina né lui vedranno mai il "numero 160" terminato. Ma l'orologio, che si chiama Breguet Marie-Antoinette, esiste ed è passato alla storia oltre ad essere diventato un oggetto desiderato.

Breguet Marie-Antoinette

Oggi questo "poema orologico" (per tradurre l'espressione inglese a poem in clockwork) è nella enorme collezione che ci è stata lasciata da David Lionel Goldsmid-Stern-Salomons, nobile britannico e autore di uno studio monumentale su Breguet. Salomons riteneva che Breguet fosse il più grande maestro orologiaio di sempre e che il suo lavoro dovesse essere preservato come i quadri o le statue dei grandi maestri dell'arte. Il numero progressivo degli orologi, ciascuno dei quali progettato e realizzato come pezzo unico, indica che nel corso della sua vita Breguet è stato particolarmente fertile, ma sono numerate anche le sinfonie dei grandi compositori: per Salomons era arte, nient'altro che arte.

La collezione era grande, ma sfortunata. Il Breguet Marie-Antoinette venne rubato nel 1983 assieme a un centinaio di altri pezzi del maestro orologiaio franco-svizzero, poi recuperato con solo 39 altri pezzi nel 2007 e oggi finalmente è conservato nell'Istituto d'arte islamica L. A. Mayer che si trova ad HaPalmach Street a Katamon, lungo la strada dal Teatro di Gerusalemme.

L'orologio è valutato 30 milioni di dollari; è un orologio da tasca che contiene tutte le complicazioni allora conosciute tranne una: ci sono la ripetizione minuti, il calendario perpetuo completo (giorno, data, mese e ciclo quadriennale), l'equazione del tempo, la riserva di carica, un termometro in metallo, i grandi secondi indipendenti, la lancetta dei piccoli secondi, e poi soluzioni rivoluzionarie come lo scappamento ad ancora, la spirale in oro, il doppio paracadute. Manca una sola cosa cosa all'appello: il tourbillon, cioè il turbine che inganna la gravità.

In cui si accenna finalmente al problema del tourbillon

Ricordate il problema dei problemi per realizzare il moto perpetuo? È la gravità, la grande nemica, la legge naturale dalla quale nessuno sul pianeta terra può sfuggire. Nel 1795 Breguet inizia a lavorare a questo problema. La spinta che deriva dalla possibilità di realizzare una nuova complicazione con già un cliente (la regina di Francia) lo motiva ancora di più, sia dal punto di vista economico che del prestigio. L'idea non è ancora completamente chiara, però, perché l'orologio non ha ancora preso completamente forma. Il tourbillon servirà ma bisogna capire dove e come. Anche altri maestri orologiai sono al lavoro sul problema. Sono pochi ad aver capito che il problema è la gravità e ancora meno quelli che hanno capito che la soluzione potrebbe essere un ingegnoso inganno rotante.

In cui ci si sposta brevemente sull'altra sponda della Manica, a Londra

Tra i grandi maestri orologiai che cercano di arrivare a una soluzione al problema della regolazione c'è John Arnold. L'inglese, coetaneo di Breguet, era una specie di superstar del settore. Un David Bowie dell'orologeria. Aveva iniziato giovanissimo, aveva inventato più della metà delle componenti dei moderni orologi, e aveva una passione che nell'Europa Continentale non era ancora così diffusa: brevettava le sue idee. Così, abbiamo una lunga lista di innovazioni che questo genio d'Oltremanica aveva portato a compimento e altre con le quali si era solo baloccato. Dalla sua, ad esempio, l'invenzione del cronometro propriamente detto (il segnatempo moderno) e il perfezionamento del cronometro marino, indispensabile per calcolare la longitudine, come abbiamo visto, e fare il punto nave. Arnold aveva lavorato talmente bene su quest'ultimo che John Harrison, l'inventore dei cronometri marini, disse che non c'erano ulteriori miglioramenti da fare e lasciò il campo.

Tra le tante altre cose Arnold aveva fatto, c'era stato lo sforzo di compattare e rendere più economico da produrre il "cuore" dell'orologio, realizzando uno scappamento smontabile, un bilanciere progettato in maniera tale da tener conto delle variazioni (dilatazioni e contrazioni dettate dalla temperatura) della molla a spirale, e il primo metodo per la regolazione del bilanciere stesso. Con questo, si era messo anche lui sulla strada della creazione di un sistema per compensare gli effetti della gravità sul meccanismo dell'orologio da tasca. Il ragionamento di Arnold, come quello di Breguet, era che far marciare in orario gli orologi richiedeva troppe regolazioni. Bisognava trovare un modo per ridurre il numero di posizioni da regolare alla radice, cioè risolvendo il problema della gravità sul singolo meccanismo sul quale questa aveva effetto. Avendo modularizzato e standardizzato molte componenti dell'orologio, Arnold "vedeva" dove operare più chiaramente di molti altri.

L'era degli orologi da tasca è stato un periodo storico particolarmente innovativo, perché ha costretto tutti a trovare nuove soluzioni sempre più precise in spazi sempre più ristretti. Rispetto a un orologio da tavolo o da muro, un orologio da tasca costringe a ottimizzare. Sono convinto che la creatività in molti casi si comporti come un gas: quando è lasciata troppo libera si disperde, ma quando viene compressa diventa esplosiva. E gli orologi da tasca avevano reso la creatività dei maestri orologiai davvero esplosiva.

Tuttavia, il maledetto problema della regolazione restava. Con il passare del tempo gli orologi da tasca diventavano imprecisi, non importa quanto fosse ben fatto il meccanismo. Le regolazioni possibili erano fino a otto, perché dovevano tenere conto degli effetti della gravità sia quando l'orologio era tenuto in tasca che quando era appoggiato su un piano, magari a faccia un su o magari a faccia in giù. Le posizioni che erano state trovate per fare le misurazioni e le regolazioni di fino dei meccanismi erano: quadrante in alto, corona in basso, quadrante in basso, corona a sinistra, corona in alto, corona a destra, posizione di metà corsa corona in alto e posizione di metà corsa corona in basso.

Dato che Arnold aveva praticamente inventato la forma moderna del cuore dell'orologio, aveva anche capito dove e in parte come si poteva operare per ridurre il numero di regolazioni. Forse Arnold aveva addirittura cominciato a giocare con l'idea di un tourbillon. Tuttavia, è stato Breguet a prendere l'idea, sposarla con la sua visione di come devono essere fatti gli orologi e realizzarla. E poi, tanto per non sbagliarsi, anche brevettarla, nel 1801. In tutto questo, nel frattempo Arnold è morto. Ma la sua morte non è quella di un concorrente: è la morte di un amico.

In cui si vede l'inizio e la fine di una grande amicizia

Nel 1792 Arnold aveva visto un orologio creato da Breguet a Londra, durante una visita del duca di Orleans, titolo che all'epoca era impersonato da Luigi Filippo II di Borbone-Orléans. Arnold guarda l'orologio, ne riconosce le qualità eccezionali e senza pensarci due volte s'imbarca e va a Parigi per conoscere il suo autore, cioè Breguet. Tra i due scocca la scintilla: li possiamo immaginare la sera fino a tardi, con le candele accese, fogli di carta riempiti di formule matematiche e disegni, che parlano di orologi, di meccanismi, di problemi e di soluzioni.

Alla fine Arnold e Breguet si lasciano con un accordo: Breguet prenderà a bottega il figlio di Arnold, John Roger Arnold, per imparare tutti i trucchi del mestiere, e in cambio avrà carta bianca nell'usare tutte le innovazioni e le idee sviluppate da Arnold stesso. Qui il capolavoro è assoluto. Innanzitutto per John Roger Arnold, nato nel 1769 quindi ventiduenne, che è stato a bottega sia dal padre e che andrà a bottega anche da Breguet. Dopo la morte del padre John Roger eredita l'attività di famiglia, la potenzia con il contributo di un altro famoso maestro dell'orologeria britannica e inventore rinomato, cioè John Dent, e la fa crescere ancora. Quando muore, nel 1843, l'attività passa a Charles Frodsham, già famoso orologiaio all'epoca. Oggi la sua Charles Frodsham & Co è l'azienda di produzione di orologi più longeva al mondo e contiene al suo interno anche dei frammenti del Dna di Arnold padre e figlio, oltre che di Dent.

Poi, l'accordo tra Arnold e Breguet è un capolavoro per Arnold padre, perché si assicura di continuare a lavorare in un ambiente in cui l'innovazione è potenzialmente enorme ma in cui la ricchissima clientela è sconfinata. Il bisogno di orologi è come quello di computer nel dopoguerra: l'unico limite è il cielo. Dagli osservatori astronomici e meteo ai castelli dei reali, dai velieri agli eserciti sino ai ricchi mercanti e borghesi, tutti hanno bisogno di nuovi orologi. Arnold non ragiona in termini di competizione limitata al presente, di trimestrali e risultati da mostrare quotidianamente. La sua è la logica di una impresa di famiglia, destinata a durare, con delle fondamenta solide e prospettive ancora migliori. Portarsi in casa, a Londra, il know-how del più grande talento parigino, per Arnold è un investimento oltre che un affare.

E infine, è un capolavoro per Breguet. Perché la sua più grande invenzione, il tourbillon, non rischierà di essere "sporcata" da una guerra per chi ci è arrivato prima. È stato lui? Non completamente. È stato Arnold? Forse, anche perché per primo aveva capito come compattare i pezzi-chiave del cuore del meccanismo di un orologio e aveva cercato di ottimizzarne il funzionamento. Il tourbillon in effetti è questo: non una complicazione bensì un tipo di meccanismo studiato per controbilanciare in maniera più efficiente gli effetti deleteri della gravità. È una modifica strutturale, non un'aggiunta "sopra" un meccanismo completo. Una nuova specie, non un'evoluzione. Come tale, richiede di pensare in maniera diversa.

Gli scambi tra i due andavano avanti regolarmente e nel 1795 Breguet finalmente completa la prima versione di tourbillon, intuita da Arnold, per poi brevettarla nel 1801. Ci vuole tempo perché all'epoca le cose viaggiavano a una velocità diversa e il lavoro dei maestri orologiai era enorme: tra quello che dovevano fare giorno per giorno (riparazioni, assistenza, rifinitura, produzione, vendita) e quello su cui lavoravano nel lungo periodo, i giorni passavano come il vento, le settimane e i mesi come le onde del mare, gli anni come il volo di un gabbiano. La solitudine di un orologiaio sul suo banco da lavoro è un esercizio zen in cui si scompare, è come la "zona" dell'atleta, l'immersione del programmatore che "affonda" tra le righe di codice, cercando di tenere insieme la struttura, enorme e complessa, e l'infinitamente piccolo del dettaglio più marginale. Ci vogliono ore per "entrarci" e un attimo per essere buttati fuori. Ma quando sei dentro, il tempo passa a una velocità diversa.

L'invenzione, il brevetto e la produzione richiede anni. Quando arriva in fondo, Arnold è morto. Per rendere omaggio all'amico che non c'è più, nel 1808 non solo Breguet mostra il primo tourbillon mai realizzato al figlio di Arnold e suo ex allievo, John Roger, ma con il suo permesso lo innesta nell'Arnold n. 11, uno dei primi orologi da tasca creati dal collega. Nello sportello dell'orologio, che oggi è nella collezione di orologi e pendole del British Museum, appone un'incisione:

Il primo orologio Tourbillon di Breguet incorporato in una delle prime opere di Arnold. Un omaggio di Breguet alla venerata memoria di Arnold, donato al figlio nel 1808

In cui una tempesta alla fine si sfoga in un bicchierino

Il tourbillon a un asse, quello inventato e realizzato da Breguet, è concettualmente molto semplice: contrasta gli effetti della gravità facendo ruotare lo scappamento e il bilanciere all'interno di una gabbia che si muove circolarmente. In pratica, grazie al lavoro di ottimizzazione e razionalizzazione fatto da Arnold, Breguet può selezionare la parte più importante dell'orologio, sospenderla in una gabbia e farla ruotare lungo un asse. Le posizioni su cui regolare l'orologio passano così da otto a tre: quadrante in alto, quadrante in basso e una posizione verticale a scelta.

Dato che il tourbillon compie una rotazione completa al minuto, con lo scappamento che gira attorno al proprio asse, gli effetti della gravità su tutte le possibili posizioni verticali vengono sostanzialmente azzerate. È un'invenzione geniale, solo che è tremendamente difficile da realizzare. Gli spazi all'interno della gabbia sono minuscoli, i materiali necessari a forgiare componenti così piccole sono particolari, esotici, costosi. La lavorazione quasi impossibile: richiede una manualità sovrumana e moltissimo tempo. Tanto che gli orologi con il tourbillon ancora oggi costano una fortuna, dai 40mila euro in su. Almeno, fino a che i cinesi non hanno iniziato a produrne di relativamente economici, sotto i cinquecento euro. Un mistero perché, seppure non di qualità sublime, sono veri tourbillon, perfettamente funzionanti.

L'impatto nel mondo dell'orologeria di questi movimenti è epocale. La realizzazione di Breguet è semplicemente miracolosa e ipnotica da vedere. E infatti viene mostrata: gli orologi da tasca e poi quelli da polso con il tourbillon hanno sempre spazio sul quadrante o nella cassa per mostrare questo cuore che pulsa. Sembra di vedere Iron Man a torace aperto con il suo cuore meccanico esposto: un delicatissimo passerotto che batte le ali indifeso, girando all'infinito attorno al suo asse. Negli orologi da polso non ha molto senso se non per dire Yes, we can, perché in realtà basta il movimento discontinuo del braccio a randomizzare e sostanzialmente annullare gli effetti della gravità sul meccanismo. Però nonostante questo è considerata la complicazione delle complicazioni. Anche se, come abbiamo detto, non è tanto una complicazione quanto un tipo di movimento a sé stante.

Oggi non c'è più solo il miracolo tecnologico di Breguet che fa bella mostra di sé negli orologi contemporanei. Negli ultimi cinquant'anni, infatti, vari maestri dell'orologeria si sono confrontati con il progetto del tourbillon, modificandolo, migliorandolo o semplicemente potenziandolo. Il primo è stato Alfred Helwig che nel 1920 ha creato il Flying Tourbillon, in cui la parte sospesa è attaccata al resto del meccanismo non con un ponte su due punti ma a sbalzo con un punto solo. Poi Anthony Randall nel 1977 ha progettato un tourbillon a due assi, che è stato realizzato tre anni dopo da Richard Good. Nel 2004 è nato il tourbillon a quattro assi (in pratica, due tourbillon a due assi uno dentro l'altro) creato da Greubel Forsey.

Sono poi varie le maison che utilizzano i tourbillon, assieme ad altre complicazioni deliziose e a ricchissimi quadranti laccati a mano e casse incrostate di pietre preziose, per rendere unici i loro segnatempo. Da Patek Philippe con parecchi modelli a Jaeger-LeCoultre con i suoi Gyrotourbillon (sono tre, finora) a IWC nella serie Da Vinci con il Cronografo Tourbillon Retrogrado, fino a Franck Muller con il Giga & Fast Tourbillon. Stili diversi, approcci diversi. C'è una escalation barocca di complicazioni, materiali, incisioni e complessità progettuali in cui gli orologi diventano una versione mondana di quanto chiesto dalla regina Maria Antonietta. Orologi milionari (nel senso che costano una qualche milionata) e hanno un gusto molto poco moderno, che si richiama a un tempo quando la differenza tra un oggetto "ricco" e un oggetto "povero" era nell'abbondanza di fregi e rifiniture.

Per nostra e soprattutto per sua fortuna, la Breguet di oggi, che fa parte del gruppo Swatch, continua a produrre orologi tourbillon. Tuttavia, quello che era il più grande tentativo illuministico di creare il moto perpetuo è apparentemente andato fallito. Il tourbillon non basta: non è lui la chiave e non riesce a rendere perpetuo il moto dell'orologio. Lo rende solo più preciso. Però, nascosto tra le pieghe di questo lavoro incredibile, c'è anche un altro cambiamento, molto profondo, che è avvenuto nell'industria orologiera. Un cambiamento che diventa sempre più evidente dopo la seconda guerra mondiale, quando gli orologi vivono la loro stagione di platino.

In cui si guarda al prossimo passo nella ricerca del moto perpetuo

Tra la prima e la seconda guerra mondiale, infatti, finisce l'epoca degli orologi da tasca e nasce quella degli orologi da polso. L'abbiamo visto e lo vedremo ancora. E, in attesa che arrivino altre modalità per misurare il passare del tempo (primo con gli orologi al quarzo e poi con gli smartphone e gli smartwatch) per una stagione non breve gli orologi meccanici diventano uno strumento indispensabile della società moderna. C'è bisogno di orologi perché bisogna sapere sempre che ore sono, con una precisione estrema. È il treno e i suoi orari che rendono la misurazione del tempo necessaria, assieme alla fabbrica con i calcoli su quanti oggetti vengano prodotti per unità di tempo e con quanti operai. L'Europa e l'America dell'Ottocento pretendono di sapere e quindi di misurare con gli strumenti pensati per questo scopo: gli orologi.

Lewis Mumford nel suo Tecnica e cultura (1934) scriveva: «L’'orologio, più della macchina a vapore, è l'’oggetto che meglio contraddistingue l'’era industriale». L'orologio è infatti lo strumento che misura il tempo, lo rende un prodotto fungibile e permette di trasferirlo, di comprarlo e di venderlo. È l'orario in fabbrica, l'orario d'ufficio, il tempo necessario a produrre qualcosa, il mitico mese-uomo. Ma l'orologio, poco dopo essere finalmente sceso dalle torri campanarie e dalle pareti, dai mobili e dai trumo' per salire sino alle tasche delle persone e poi salire ancora sino al polso delle donne e poi degli uomini, incontra una trasformazione ancora più incredibile.

In pochi decenni, nel corso del Novecento, succede di tutto. Sono passati 102 anni dall'invenzione del tourbillon, infatti, quando i fratelli Orville e Wilbur Wright compiono il primo volo a motore controllato e sostenuto con un velivolo più pesante dell'aria, il Wright Flyer. Se l'orologio moderno ci ha messo quattro secoli per trovare un modo per vincere la gravità, grazie al tourbillon, il progresso dei 60 anni successivi all'invenzione del volo controllato è ancora più straordinario e significativo: l'aereo migliora costantemente, anno dopo anno. Permette di valicare gli oceani in tre giorni, poi in due, poi in un solo giorno, poi in meno di dieci ore. Si apre una nuova epoca, grazie soprattutto alle invenzioni nate durante la guerra: quella del motore a getto. Con il motore a getto arriva una grande rivoluzione sociale i cui effetti sono il combinato della nave e del treno innalzato all'ennesima potenza: i viaggi in aereo per tutti. Prima, lunghissimi e rapidissimi, i viaggi sono solo per una élite, per gli avventurosi e per i molto ricchi o per chi per lavoro deve andare di qua e di là. Poi, con aerei sempre più grandi che abbattono il costo per passeggero per chilometro, diventano un'opportunità per le masse. Sempre più persone si spostano in cielo e traversano i fusi orari. Arriva un'epoca in cui si cambia continente con una facilità maggiore di quella con cui d'estate si mandavano i bambini in colonia.

Con tutto questo, gli effetti del grandissimo non potevano non ricadere anche sul piccolissimo, cioè sugli orologi. Come si trasformano nell'era del motore a getto? Di quale combinazione c'è bisogno, subito dopo la guerra? Lo scopriremo tra poco (promesso), nella quarta parte.


Tutti i capitoli: prima parte, seconda parte, terza parte, quarta parte.