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Immemore

"Il libro è una ristampa, io ce l'ho da tempi immemori", e altri false fiends


Scrive una ragazza in un gruppo di appassionate di letteratura giapponese: "Il libro è una ristampa, io ce l'ho da tempi immemori". Ah, dolore.

Perché purtroppo per me, che perlopiù scrivo ma cerco anche di leggere, la lingua non è solo fluida ma anche jazz. Cioè, si muove, cambia, ma lo fa seguendo anche delle scale e delle progressioni che "funzionano". E soprattutto, le parole qualcosa vogliono dire: ci vuole, cioè, la precisione.

Non sto parlando di grammatica descrittiva vs grammatica prescrittiva, ma semplicemente del fatto che ci sono cose che suonano proprio sbagliate e altre che addirittura lo sono, sbagliate. Il libro che la ragazza possiede "da tempi immemori" suona male ed è anche sbagliato.

Suona male perché casomai avrei usato il singolare ("il libro è una ristampa, ce l'ho da un tempo immemore"). Rimane però l'altro problema: "immemore" è sbagliato.

False friends e altri pasticci

"Immemore" è un false friend, una parola tradotta dall'inglese a orecchio ma che vuol dire un'altra cosa. L'espressione originale infatti è "from time immemorial", che vuol dire "da un tempo immemorabile", un tempo non ricordabile.

Invece, "immemore" in italiano vuol dire altro: privo di memoria, se riferito a una persona, o privo di vita, se riferito a una cosa (avete presente: "Stette la spoglia immemore / orba di tanto spiro", dal Cinque maggio del Manzoni: la spoglia di Napoleone non è smemorata, è priva di vita). Per completezza: in inglese "immemore" si dice "forgetful, oblivious".

Quindi, dato che la ragazza voleva chiaramente esprimere l'idea ho quel libro da così tanto tempo che neanche mi ricordo più da quanto, la frase in italiano è: "Il libro è una ristampa, io ce l'ho da tempo immemorabile".

Il latinorum di don Abbondio

Dopodiché, a fare un po' di autoanalisi la cosa che mi dà veramente fastidio è l'abitudine italiana di usare espressioni difficili per dare l'impressione di essere colti, di saperne di più. Ricordate il latinorum di don Abbondio, sempre del Manzoni? A mio avviso, invece, è meglio parlare facile ma preciso: si chiama "leggerezza" ed è indice se non altro di chiarezza mentale.

Infatti, "scrivere bello" secondo me non vuol dire usare uno stile barocco, ampolloso, ridondante. E neanche usare un vocabolario limitato e banale, fatto di termini generici e lessicalmente povero. Invece, vuol dire essere precisi ma con garbo: usare le parole giuste ma con misura. È una questione di stile ma anche di sostanza: con dei mattoni semplici si può costruire un edificio funzionale e al tempo stesso elegante.

Insomma, è meglio se uno non fa citazioni e giochi complicati se poi li sbaglia anche: comunica solo l'idea che chi parla abiti la lingua in modo sciatto, cioè trascurato e negligente.

E poi c'è una questione legata alla conoscenza che passa attraverso il rapporto tra parole e concetti. Scrivendo si pensa, ma bisogna sapere il significato delle cose, non solo il suono delle parole che le indicano. Ma di quest'ultima cosa parliamo un'altra volta.

(scritto il 31 marzo 2022)