[Mostly Weekly ~130]
La fine del principio
A cura di Antonio Dini
Numero 130 ~ 29 agosto 2021
Buona domenica! Terzo e ultimo numero sperimentale dell'estate, in realtà più che sperimentale lo definirei "messo assieme con la colla e due nastrini" perché questa settimana il tempo è stato veramente poco e la formula dei pochi articoli ma lunghi (rispetto alle tante segnalazioni) è veramente diversa da quello a cui sono abituato ed è più complessa da gestire.
Comunque, io sono Antonio Dini e voi vi siete davvero iscritti a Mostly Weekly, la newsletter settimanale che esce quando è pronta. Mostly Weekly è aperta a tutti, senza pubblicità o affiliazioni: una donazione su Liberapay (opens new window) o via PayPal (opens new window) è però molto apprezzata.
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Intanto, buona lettura
Un viaggio di mille miglia inizia con un umile passo
–– Lao Tzu
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Apertura
Uno zainetto per le gite fuori porta
Nei giorni scorsi, per la prima volta da un anno (o quasi due, a seconda di come conto), mi sono mosso un po’ fuori Milano. Sempre treno, però: è dal febbraio 2020 che non prendo un aeroplano. Comunque, spostarsi in treno vuol dire fare bagagli diversi rispetto all’aereo. A questo si aggiunge che ho staccato per qualche giorno in montagna, dove mi è capitato di camminare zainetto in spalla, sudando parecchio. E tutto questo mi ha portato a leggere e studiare un po’ di cose sugli zaini e gli zainetti. A partire dai materiali.
Ho letto, ad esempio, un sacco di cose su cosa sia il Denier, l’unità di misura per la densità lineare delle fibre: un Denier è la massa in grammi di novemila metri di una determinata fibra. Novemila metri di filo di seta pesano circa un grammo, gli altri materiali tendenzialmente di più (ma non è detto).
Il termine, infatti, diventa interessante perché serve a sapere lo spessore e il peso dei tessuti usati per fare gli zaini. Quanto più alto è il Denier (ad esempio, ci sono nylon da 250D, 950D, 1.500D) quanto più ipoteticamente è robusto e sicuramente pesante. Quali materiali? Ci sono i nylon (ci sono vari tipi: ripstop, ballistic, cordura, kodra), il poliestere, il polipropilene. Il poliestere (fatto di fibre di plastica) è pesante e di qualità minore (si usa per gli zainetti di scuola), il polipropilene è diffusissimo (è anche questo un prodotto derivato dal petrolio) resistente, abbastanza isolante, idrofobico (ma non impermeabile) e tuttavia sensibile ai raggi UV (cioè, si scolora).
Il nylon invece è una vera e propria galassia, anche perché il risultato finale dipende da quanto sono grandi i fili (il loro Denier) ma anche da come viene intessuto: ci sono maglie filate con geometrie più o meno resistenti. Ma non è finita perché poi ci sono gli zaini che usano (ancora) la tela o la pelle. La tela è pesante, non è idrorepellente (serve la cera, ma poi ci sono problemi di manutenzione) e si consuma facilmente. Però è quello da cui noi tutti “vecchi” abbiamo cominciato e ci sta addosso meno peggio di altre cose.
Invece, la pelle può essere di tipi molto diversi e con qualità che spesso è scarsa, almeno rispetto ai materiali sintetici. Anche qui, c’è un tema importante di manutenzione e di prezzi: la pelletteria viene usata nelle borse e accessori di moda, che hanno prezzi molto superiori a quello dei materiali e delle lavorazioni. Di uno o due ordini di grandezza più grandi.
Tuttavia, se credete che sia finita, vi sbagliate: ci sono ancora molte cose. La tela per le vele o Sailcloth (la fibra definita come “ultra-high-molecular-weight polyethylene” che oggi si usa per le vele delle navi), il poliuretano termoplastico (TPU) e poi due tessuti compositi (ispirati all’idea del Sailcloth), cioè il vecchio Cuben Fiber (oggi si chiama Dyneema Composite Fabric) e l’X-Pac, generalmente realizzati con un mix di nylon davanti per la durabilità del prodotto, una trama di poliestere per la resistenza e una pellicola impermeabile che non scompare con il tempo. Tanta roba, vero?
Beh, niente in confronto a un altro particolare aspetto: le zip. Perché uno zaino è resistente e impermeabile quanto il suo punto più debole, che sono le cuciture e soprattutto le cerniere lampo. E chi fa le migliori cerniere? Anzi, chi ha il monopolio di fatto del mercato delle cerniere lampo? YKK (opens new window), azienda giapponese nata a metà degli anni Trenta e trasformatasi dopo la guerra in un colosso della cerniera lampo.
Le cerniere YKK sono le migliori in circolazione, quindi è naturale che le migliori marche di zaini da viaggio tendono a usarle, anche se il prezzo finale del prodotto si alza. Le cerniere YKK sono super resistenti e hanno pesi diversi a seconda dell'area dello zaino in cui vengono utilizzate. Una YKK tipo 10 manterrà sicuro uno scomparto principale, mentre una YKK tipo 5 potrebbe essere adatta per tasche laterali più piccole che non sono sottoposte a grandi tensioni.
Quelli di YKK sono diventati l’azienda principale al mondo perché sono letteralmente ossessionati dalla qualità e fanno tutto internamente. Fanno il proprio ottone, forgiano i denti delle cerniere lampo e costruiscono persino le macchine per realizzare le cerniere lampo e le scatole di cartone in cui vengono spedite. È quasi impossibile che una cerniera YKK sia guasta o si rompa “facile”. Le cerniere YKK rappresentano circa la metà di tutte le cerniere nel mondo. Sebbene meno popolari, anche le cerniere RiRi (opens new window) (marchio nato in Germania negli anni Trenta e oggi svizzero) sono piuttosto diffuse. Sia RiRi che YKK sono superiori a qualsiasi altra cerniera realizzata “in house” da un produttore di borse. Ma c’è un ma, anche qui. Infatti, l’ultimo marchio che sta emergendo per qualità si chiama Zoom Zippers e sta salendo la lista dei migliori produttori di cerniere lampo al mondo, anche se alle volte troviamo ancora qualche problema.
Zoom Zipper (opens new window) è taiwanese, è nata nel 1979 e da decenni lavora per arrivare a un livello di qualità della produzione che, nel settore della meccanica fine, è quasi impossibile in Asia. Fare cose di precisione come una cerniera lampo o, ad esempio, con una penna a sfera (la cui punta è una sfera tenuta ferma in un tronco di cono di diametro leggermente superiore per consentire il flusso dell’inchiostro in maniera proporzionata alla densità di quest’ultimo) sembrano stupidaggini, ma in realtà sono fondamentali da un punto di vista geopolitico oltre che industriale.
Il problema è che imparare a fare queste cose non è per niente banale. L’articolo del Washington Post (opens new window) che racconta l’epopea cinese per arrivare alla produzione proprietaria di punte per penne a sfera è del 18 gennaio 2017. Cioè, la prima volta che la Cina è riuscita a produrre una punta di penna a sfera di qualità è stato quattro anni fa, quando le “biro” inventate cioè da László Bíró nel 1938 (ma ci sono già brevetti per modelli parzialmente simili del 1888) sono diventate un prodotto industriale di massa grazie agli argentini, agli inglesi e poi in generale soprattutto grazie alla Bic. (Una nota a margine: dal 1991 molte aziende che producono penne a sfera forano la punta del cappuccio rimovibile per prevenire il soffocamento nel caso qualcuno dovesse inavvertitamente ingoiarlo).
La Cina, che produce l’80% delle penne a sfera del pianeta (pari a circa 38 miliardi di pezzi, nel 2017), faceva tutto tranne che la cosa più importante: le punte. Queste vengono invece importate da Giappone, Germania e Svizzera, che ha la strumentazione, gli impianti e la manodopera per fare questo tipo di produzioni. Per questo dietro all’exploit dei puntali di penna a sfera cinesi c’è stata una notevole spinta politica, una riflessione sull’economia nazionale (fare penne di bassa qualità oppure usare puntali importati indica un’economia debole) e un più complesso desiderio di evoluzione. È una delle spinte che riguardano il futuro della Cina (e di tutti noi), anche considerando come sta evolvendo (opens new window) il modello di capitalismo senza democrazia di quel Paese. E nessuno ancora si azzarda a mettere in discussione le cerniere lampo made in Japan.
Tutto questo ancora prima di iniziare a parlare di modelli di zaino, di tipi di sospensione, forma, dimensioni e tutto il resto. E il colore. E lo stile. E il limite dei bagagli in cabina per le principali 160 compagnie aeree con le quali potrei volare. Figuratevi arrivare poi a comprarne uno.
Ecco, così sapete anche voi cosa leggo in treno mentre viaggio.
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Importante
Le culture animali
Guardiamo il lato positivo: gli animali sono come noi (o noi come loro, dipende dal punto di vista). Non solo sanno contare (incluso lo zero) (opens new window), ma hanno anche un concetto di cultura che non troppo dissimile da quello che viene studiato ad esempio dalla sociologia dei processi culturali: una forma di conoscenza condivisa che si trasmette tra generazioni e gruppi. Tanto che, se questo filo sociale si interrompe, se si perdono cioè sempre più animali anziani ed esperti e i loro habitat di riferimento, c'è uno shock culturale che mette a rischio le varie specie perché i giovani non sanno come fare. Detto in un altro modo: quel che abbiamo capito (opens new window) è che gli animali imparano in maniera sociale e creano una cultura che viene appresa da singoli individui, permettendo ai gruppi di comportarsi in modi simili. Man mano che si riducono gli habitat e muoiono sempre più animali, scompaiono anche le loro culture. Le nuove generazioni sono in difficoltà a cercare di sopravvivere senza la conoscenza che veniva tramandata dagli anziani. E ci stiamo rendendo conto finalmente che gli sforzi per cercare di preservare e conservare molte specie animali devono prendere in considerazione le loro culture e trovare il modo per fare sì che sopravvivano e vengano tramandate da una generazione all'altra. Un piccolo passo per l'umanità, un gigantesco passo per il pianeta?
Yamato
La carpa Koi
La parola di questa settimana per il nostro dizionario tematico di giapponese è Koi (鯉), che vuol dire carpa, il pesce. Lo sapete, è famoso, ma è usato in modo sbagliato in italiano. Cioè, quando noi parliamo di carpa Koi in realtà parliamo di "carpa carpa" e va bene, perché comunque ce ne sono tante e di vario genere. La carpa a cui facciamo in realtà riferimento è la nishikigoi (錦鯉), la carpa "broccata", una versione particolarmente colorata che arriva fino a 30 centimetri di lunghezza e vive in acqua dolce in Cina, Laos, Vietnam e anche lungo il fiume Amur, che è uno dei più grandi fiumi al mondo che divide la Siberia orientale dalla Manciuria settentrionale (e prima dalla Mongolia). Il "Grande Fiume" o "Fiume Nero" o "Fiume del Drago Nero" è in realtà un vero e proprio campionario di biodiversità che ci è quasi totalmente alieno perché non è stata sviluppata una narrazione occidentale paragonabile a quella dei grandi fiumi africani e sudamericani. Eppure è lungo più di 2.800 chilometri, ha un bacino di quasi due milioni di chilometri quadrati e porta più di diecimila metri cubi di acqua al secondo. È probabilmente il più grande fiume del quale non avete mai sentito parlare. Ma sto divagando, come al solito.
La nostra piccola carpa, cioè koi, è una parola semplice il cui kanji "鯉" è omofono (cioè si legge alla stessa maniera) di "恋", che vuol dire amore o affetto, amicizia. Insomma, la koi in Giappone è un simbolo di affetto e per questo è piuttosto popolare. Le carpe ornamentali, quelle che si tengono nei laghetti e nei salvaschermo per computer, hanno avuto storicamente vari nomi: irokoi (色鯉, "carpa colorata"), hanakoi (花鯉, carpa floreale) e moyōkoi (模様鯉, "carpa fantasia"). Oggi si fa riferimento alle carpe ornamentali come "carpe broccate", cioè nishikigoi (錦鯉).
Una cosa che a me ha stupito molto è che le "carpe da giardino" (ok, da laghetto) non sono per niente naturali. Cioè, sono estremamente artificiali. Intanto, sono imparentate con i "pesci rossi", il carassio dorato che in cinese si chiama 金魚. Perché la cosa di tenere i pesciolini nel laghetto e poi nell'acquario o nella boccia se la sono inventata i cinesi circa 1.100 anni fa. Durante la dinastia Song andava di moda e attraverso secoli di incroci selettivi di carpe di Prussia (Carassius gibelio), hanno fatto venire fuori colori particolari (giallo, arancione, bianco e strisce bianche e rosse) e sono andati avanti talmente tanto che adesso le due specie (pesci rossi e carpe di Prussia) sono considerate due specie separate.
In Giappone la moda delle carpe da giardino è arrivata dalla Cina (come al solito) in tempi premoderni. I giapponesi si sono appassionati, come è accaduto per il bonsai, e hanno lavorato accanitamente e metodicamente sulla carpa comune con una serie di ibridi (soprattutto partendo dalla carpa Amur) e sono arrivati ad avere più di 100 varietà divise in 16 gruppi, tutte create nei vivai. L'azienda più grande che le produce e le distribuisce si chiama Zen Nippon Airinkai. Di tutte le varietà (che sono proprio tante, ripeto), la più importante è la Gosanke (御三家) composta dalle varietà Kōhaku (紅白), Taishō Sanshoku (大正三色) e Shōwa Sanshoku (昭和三色) queste ultime due presentate durante i regni rispettivamente degli imperatori Taishō e Shōwa.
Cinque o sei anni fa ho perso questa specie di gioco-simulatore per Mac, My Koi (opens new window) che permette di creare il proprio laghetto con carpe koi da far crescere. È vagamente rilassante. Ne esistono di simili per telefono, computer e tablet.
Cose buone dal mondo
Ha vinto il premio riservato al video dell'Audubon Photography Awards: un falco dalla coda rossa (opens new window) immobile nel vento, ripreso a distanza con una stabilizzazione video impressionante. Si vede il "gesto tecnico" dell'animale, che come i ballerini che tengono la testa ferma quando fanno le piroette, mantiene collo e testa immobili nello spazio, mentre il corpo, le ali e la coda si muovono nel vento contrario.
Multimedia
La notte tra venerdì 31 luglio e sabato primo agosto del 1981 MTV iniziò la sua programmazione con Video Killed The Radio Star (opens new window) dei Buggles, definendo una generazione. Qui ci sono le prime due ore (opens new window), per chi se le fosse perse 40 anni fa (poi ci sono anche Pat Benatar e un sacco di altra roba).
Un algoritmo di base per chi studia informatica, merge-sort, fatto con una danza popolare transilvana-sassone (opens new window).
Una lunga spiega, basata su video (opens new window) (per questo è in questa sezione) dei minerali di Minecraft e di quelli "veri", del mondo reale. Sorprendente, no?
In passato vi ricorderete che ci siamo fatti dei bei giri a Manhattan, Tokyo e altre città. In Giappone poi abbiamo visto un po' di giri in treno. Questa volta invece torniamo negli Usa: Amtrak Viewliner Roomette Review: New York to Chicago (opens new window). Una sberla da 28 e più ore. Un lungo giro nella "roomette", che sarebbe la microcabina per due. Costo del biglietto: 500 dollari, ma ti paghi anche una notte d'albergo. Il video dura 16 minuti: si imparano un po' di cose sui treni americani e si vede un po' di Usa. Qui invece (opens new window) c'è un racconto scritto di un altro amante dei treni americani.
Jeff Beck che suona (opens new window) "Hammerhead" e poi fa la cover per chitarra elettrica di "Nessun dorma". Ah, in coda (era un Crossroads) ci sono anche Ron Wood e Buddy Guy. Per salutare Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones morto da pochi giorni (opens new window), riascoltate Paint It Black suonata dal vivo nel 1966 (opens new window): tanta roba (questa è l'epoca Brian Jones dei Rolling Stones: poi sono diventati un'altra cosa).
Tsundoku
Ho letto un libro molto particolare: Fuglar (opens new window). Particolare intanto perché questo "Inventario non convenzionale degli uccelli d’Islanda" non è, come ci si potrebbe aspettare, di Iperborea, la casa editrice italiana inizialmente specializzata in libri sull'Islanda (oggi sta invece cominciando a fare un po' di tutto). Invece, è del piccolo editore indipendente Quinto Quarto (opens new window) che fa pochi ma buoni libri. In questi giorni sto leggendo un altro loro libro, Statosauri (opens new window) scritto dal mio ex direttore (quando era a Wired) Massimo Russo, un saggio decisamente intrigante e ottimista sulla trasformazione della democrazia nell'era delle piattaforme. Ma torniamo a Fuglar. Come potrebbe non essere delizioso un libro scientifico illustrato (a colori) sull'ornitologia islandese? Dice la quarta: "Se oltre a sapere dove vanno a svernare i pennuti dei mari del Nord volete scoprirne le rocambolesche avventure, la pugnace vita affettiva, le tendenze modaiole, e le leggende, i racconti e i pregiudizi che li circondano, allora questo è il libro perfetto per voi". Confermo parola per parola. Aggiungo che alcuni disegni sono meravigliosi e che sto imparando cose che non mi aspettavo che avrei mai saputo sui Piovanello pancianera e violetto.
È un bel libro, non c'è che dire. Tè e dolci del Giappone. Storia, miti, ricette (opens new window) di Sabina Viti non è solo la parte, deliziosa, del tè giapponese (che arriva dalla Cina ma si differenzia profondamente per tipi, riti e significati), ma anche quella meno nota e in parte aliena a noi occidentali della pasticceria. I dolci giapponesi sono un complemento inevitabile (e misuratissimo: non si ingrassa con le dosi che ti danno le nonne di Kyoto) per il tè. I disegni e le illustrazioni sono molto belli e il libro è un atto d'amore che permette di apprezzare il gusto per qualcosa di lontano, e di prepararlo, visto che ci sono le ricette. Molte ricette.
You're Not Listening (opens new window) è un gran libro scritto da Kate Murphy. Il libro affronta un problema centrale della nostra epoca: al lavoro, ci viene insegnato a condurre la conversazione; sui social media diamo forma alle nostre narrazioni personali; alle feste parliamo l'uno dell'altro. E così fanno ovviamente i nostri politici. Risultato? Non stiamo ascoltando. E nessuno ci ascolta.
Ci è stato detto che l'automazione sta distruggendo i posti di lavoro; la realtà potrebbe essere ben diversa. In Automation and the Future of Work (opens new window), lo storico dell'economia Aaron Benanav indaga su ciò che l'automazione sta realmente facendo per funzionare e ci sfida a immaginare una società migliore che non faccia affidamento sull'automazione di massa.
Coffee break
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Chez Al-Khwarizmi
La grande migrazione
C'era una foto (opens new window), di una decina di anni fa, che a suo tempo mi ha fatto venire la pelle d'oca. È intitolata Mac University (opens new window) è presenta un "sea of Macs", una platea di studenti tutti con il portatile Apple con la mela illuminata (sì, è una foto vecchia (opens new window)). Per uno come me che ha iniziato a usare il Macintosh nella seconda metà degli anni Ottanta e che ha passato epoche di discriminazione tecnologica per questo, vedere una diffusione così ampia è motivo di orgoglio ma anche di spavento: quando la rivoluzione si istituzionalizza (opens new window), diventa regime. O almeno, il rischio è quello. Poi però non è andata così: Apple è continuata a crescere in maniera epocale ma sempre relativa perché si è scoperto che in realtà "gli altri" erano molti di più.
Una leva di crescita molto importante per la piattaforma Mac è stato il mercato degli sviluppatori. In parte perché per sviluppare per iOS e iPad serve Xcode che gira solo su Mac, in parte perché il passaggio da Mac OS al sistema operativo basato su NeXTStep e quindi su Unix, cioè OS X ora diventato macOS, ha attirato molti sviluppatori. L'attuale macOS è stato per anni un Unix/Linux (o "*nix") che semplicemente funziona e ha tonnellate di software oltre ad hardware di qualità elevata. E così, accanto agli sviluppatori iOS/iPadOS, sono sbarcati anche gli altri, soprattutto chi si occupa di siti web full-stack, frontend, backend e via definendo.
Intanto il mondo dello sviluppo web è cambiato moltissimo, sono nate tecnologie nuove, flussi di lavoro e metodologie sempre più diverse (da devops (opens new window) e CI/CD in su (opens new window)), la parte di sviluppo collaborativa o comunque basata su piattaforme online come GitHub è diventata centrale. E qui si innesca il cambiamento a cui volevo arrivare. Cioè GitHub. Che, se non lo sapevate, è open source (opens new window) e mantenuto dal punto di vista degli sviluppatori (fino a poco tempo fa) da una serie piuttosto complessa di framework e script e meccanismi per riuscire a mettere chi scrive codice per manutenerlo e farlo evolvere. Tutto completamente macOS-centrico. Si può dire che la piattaforma di sviluppo di GitHub sia stato fino a ieri macOS. Adesso è cambiato.
L'azienda ha portato avanti il suo percorso di crescita realizzando una cosa che si chiama Codespaces (opens new window). Sono gli ambienti di sviluppo basati su Visual Studio Code, l'editor (ma non è solo un editor) di codice fatto da Microsoft, che ha acquisito GitHub. Il progetto c'era già ed era l'idea di un prodotto che risolve numerosi problemi: creare rapidamente un ambiente di sviluppo fortemente collaborativo, allineato e funzionale per chi scrive codice in un progetto grande e complesso.
Creare questo tipo di ambienti è un problema vero, che sta all'incrocio tra l'effettiva necessità di andare forte e le fisime di avere un meccanismo di distribuzione dell'ambiente di sviluppo in tempi surreali (10 secondi). Il progetto c'era, ma ha accelerato dopo l'acquisizione da parte di Microsoft. Adesso GitHub sta rendendo Codespaces disponibile per i piani Team ed Enterprise Cloud. E già che c'era, lo ha reso disponibile per se stessa, con una migrazione epocale di cui rende conto in questo articolo (opens new window).
Attenzione, in realtà Codespaces non è ancora veramente pronto per la prima serata e la mossa di GitHub/Microsoft potrebbe essere una forzatura o il prodotto potrebbe segnare la fine non solo di un modello ma anche di GitHub stessa (molti hacker hanno deciso di andarsene (opens new window) già al momento dell'acquisto nel 2018, prevedendo quel che sarebbe successo dopo (opens new window) ma altri a quanto pare (opens new window) sono invece rimasti (opens new window)).
Quello che invece mi viene in mente è una cosa completamente diversa: la Apple di Steve Jobs, ereditando la piattaforma NeXT (opens new window) costruita nel 1987 su BSD-Unix per far lavorare al massimo gli "hacker delle università" (ad esempio, quel Tim Berners-Lee che ci ha costruito sopra il world wide web (opens new window)), quasi senza volerlo ha costruito lo strumento perfetto per armare l'esercito degli sviluppatori che hanno fatto crescere per venti anni le tecnologie software e di rete. Dalle scuole superiori di mezzo mondo fino ai coworking asiatici, passando per tutto quello che c'è in mezzo, milioni di persone hanno usato il Mac per la flessibilità d'impiego che permette. Anche se poi non ci hanno fatto niente più che navigare il web, scrivere in Word, fare Excel, PowerPoint e tante email.
Non importa, quel che vedo ora è che i pesci pilota di questa rivoluzione, gli "hacker" (nella accezione originaria di Steven Levy (opens new window)), cercati e trovati da Steve Jobs, forse stanno cambiando direzione. Se uno dopo l'altro gli ambienti chiave cambiano, se i team degli ingegneri di GitHub passa a un ambiente di sviluppo cloud (grande occasione persa sia per Google che per AWS-Amazon, tra l'altro), pian piano passeranno anche gli altri. Ed entreremo ufficialmente in un mondo con altri paradigmi nei quali devo ancora capire come si collochi Apple.
bat è meglio di cat
Cat (opens new window) è l'abbreviazione di "concatenate", legare assieme più file e stamparli sullo standard output, ed è un comando molto flessibile e comodo (opens new window) che si trova dentro i sistemi Unix (macOS, Unix e Linux). Però non vi nascondo che se lo si vuole usare come strumento per leggere il contenuto di file da riga di comando un po' velocemente il suo output è bruttoccio. C'è di meglio: bat (opens new window), un clone di cat "con le ali", scritto in rust e decisamente interessante. Supporta la colorazione di parecchi linguaggi di programmazione e di marcatura (incluso il markdown, che è il motivo principale per cui lo uso), è integrato con git, fa la paginazione automatica e varie altre cosine carine che lo rendono prezioso.
A voler esagerare si integra anche con fzf (opens new window) (che adoro e che uso soprattutto con Vim come plugin) e permette di fare parecchie cose, però è uno strumento da riga di comando "moderno" e pensato per un uso desktop e non da server: non lo troverete su server remoti, ma sul vostro computer può essere molto comodo. E se vi piace:
$ alias cat="bat"
Una modesta proposta
Aridatece il 12
Questo numero di Mostly Weekly viene scritto come al solito sul mio MacBook con schermo Retina da 12 pollici del 2017. E anche questa volta non posso non pensare che Apple dovrebbe fare la cosa giusta, visto che qualche settimana fa ha spedito anche una survey (opens new window) (che a me non è arrivata! Sono offeso!) per chiedere ai suoi utenti cosa ne pensano delle dimensioni, funzionalità e peso di quel computer. Cosa ne pensiamo? Che dovreste prenderlo, aggiornare la tastiera e metterci un dannato processore M1 (opens new window). Ecco cosa ne pensiamo. Il 12 pollici è un computer spettacolare, una combinazione pressoché perfetta di portabilità e usabilità (a parte la tastiera, l'ho già detto? E magari la seconda porta Usb-C). C'è già l'Air, direte voi. No: è quel pollice in meno rispetto ai MacBook Air e Pro 13 a far guadagnare quasi mezzo chilo di differenza: il 12 pollici pesa 920 grammi contro gli 1,3 Kg dell'Air e gli 1,4 Kg del Pro 13. Nell'epoca dei servizi online il 12 pollici una macchina estremamente flessibile e versatile persino per gli sviluppatori (opens new window). Anche se scalda come un ferro da stiro per via del processore Intel (e del suo più grande vantaggio: la dissipazione passiva del calore, cioè: no fan, baby!). Non rimpiango il mio vecchio MacBook Air 11 (come fanno altri (opens new window)), che è stato il mio computer precedente (2011-2017). Però non riesco a staccarmi dal mio 12, anche se dovrei fargli rifare la batteria, che è sotto il livello di guardia e Apple vuole la bellezza di 209 euro per cambiarla (scherziamo?). La survey di Apple (ne era stata mandata un'altra su iPad mini (opens new window), che si dice verrà rilanciato a breve con un fattore di forma diverso a tutto schermo (opens new window)) purtroppo non è indicazione della direzione verso la quale sta andando Apple. Non vuol dire, cioè, che stanno per rifare il 12 pollici. Eppure questo portatile è come la prima Mini Cooper (opens new window) o l'Autobianchi A112 Abarth (opens new window) del mondo dei computer: è un piccolo mito. La 500 gialla (opens new window) di Lupin III. Lo dicono ovunque, anche in Giappone (opens new window) (qui tradotto (opens new window). E se si ricomincia a viaggiare, come è capitato questa estate, per molte persone tornerà ad essere un computer unico. Se solo ci mettessero un dannato processore M1, fresco e risparmioso. E se si sovrappone agli iPad Pro 11 e 12,9 con tastiera, meglio! Vuol dire che Apple può acchiappare entrambi i lati del mercato, sia tablet che ultrabook. No?
Lost tracks
LoFi Cafe (opens new window) è in esecuzione da più di una settimana in una scheda aperta sul mio MacBook. Una raccolta di “chill beats” di ispirazione giapponese, ideali come musica d'ambiente per lavoro/studio. Occhio a non perdervi i canali: bisogna cliccare sul titolo in basso a sinistra. Anche la grafica è notevole.
I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.
“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”
– G.K. Chesterton
END
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