+

Mac Pride

Un momento indimenticabile tra il Moscone Sud e Market Street

L’orgoglio di essere Mac. L’orgoglio di usare i computer di Apple, di avere un iPod, di far parte dell’élite. L’orgoglio di essere diverso. Me ne sono reso conto la prima volta cinque anni fa, partecipando al primo MacWorld (all’epoca si scriveva così, con la W in maiuscolo), quando è arrivato il momento di fare “outing”.

A San Francisco, alle sette del mattino davanti al Moscone Center, il centro congressi più grande della California settentrionale intitolato al sindaco pro-gay ucciso da un pazzo reazionario negli anni Settanta, aspettando di entrare per assistere all’evento più surreale del mondo della tecnologia, cioè la “messa cantata” di Steve Jobs, co-fondatore e carismatico comandante di Apple, guardando duemila altri pazzi in coda dall’alba come me mentre la skyline di San Francisco ti regala attimi mozzafiato con i gabbiani che volano attraverso un cielo terso e punteggiato di grattacieli colorati, mi sono sentito orgoglioso della mia diversità. I miei fratelli di Mac mi hanno fatto perdere timori e timidezze, ho trovato finalmente il coraggio di pensare che quel piccolo miracolo della tecnologia portatile tutto bianco che riposava nel mio zainetto fosse qualcosa di più che non due chili e spiccioli di tecnologia, un sofisticato ed elegante strumento di comunicazione. Era un segno, uno stigma, e forse anche un tatuaggio dello spirito. Era me, e io in qualche modo volevo essere lui.

Non è un caso se proprio San Francisco ha visto nascere e crescere la cultura legata a due arcobaleni. Il primo è quello della bandiera colorata, l’icona del movimento gay, che campeggia all’inizio di Castro, il quartiere altrettanto gay appollaiato sulla collina centrale della città, vicino a Twin Peaks, proprio in cima a Market Street. Elegante, rilassato, alterna negozi di articoli gay e sex toys a dolci caffetterie e ristoranti esclusivi. Le coppie che camminano per le strade sono educate, upper class, spesso conservatrici, e straordinariamente speculari. Lei è una donna e anche lui lo è, almeno da un punto di vista strettamente biologico. Lui è un uomo e anche lei lo è, sempre da un punto di vista strettamente biologico. Le differenze sono altre: di genere, di carattere, di attitudine, di gusti, di passioni. Quelle di sesso non contano più, ovvero si invertono – per usare un termine che il Ventennio italiano avrebbe tramutato in stigma dell’identità e preferenza sessuale “sbagliata” – e si ricombinano in un mix variato, dinamico, strutturato in maniera alternativa. Come un arcobaleno, appunto, porta con sé molti più colori che non i due fondamentali tramite i quali la biologia ci ha abituato a perpetuare la specie.

L’idea di un arcobaleno anarchico, l’idea dello stile unito alla leggerezza di chi vuole pensare in maniera differente

L’altro arcobaleno, anarchico e disordinato, visto che la sequenza non rispetta quella naturale della teoria del colore, era disegnato fino a pochi anni fa sulla superficie della mela stilizzata e morsicata che per molto tempo ha reso il logo di Apple uno dei più famosi al mondo. Com’è nata l’idea della mela, perché proprio Apple come nome, sono misteri che la sera davanti a un fuoco informatico gli appassionati si sussurrano cercando di fornire paradossali e surreali interpretazioni o riferendo di verità nascoste e straordinarie teorie del sospetto per iniziati. Non conosciamo la verità, forse neanche i protagonisti la conoscono, però l’idea di un frutto della tentazione finalmente addentato, l’idea di un arcobaleno anarchico, l’idea dello stile unito alla leggerezza di chi vuole pensare in maniera differente, vivere rompendo gli schemi grigi di una vita banale e impiegatizia fanno parte dell’immaginario, sono quelli che hanno scavato la mente di migliaia di appassionati.

Il mio arcobaleno, quella mattina, era il secondo, ma valeva quanto e più del primo, almeno simbolicamente. La fratellanza del Mac, quel giorno lontano, stava liberando pulsioni represse per un decennio, aprendo la strada a un nuovo tipo di dimensione esistenziale dell’informatica. Grazie a lei, grazie alla lunga coda davanti all’entrata della salone principale del Moscone Center, il mio piccolo mondo personale era cambiato per sempre. E come me anche quello di migliaia di altri, negli anni precedenti o in quelli che ho potuto testimoniare successivamente. Martedì scorso, in coda davanti alla solita porta a vetri, circondato da volti americani, asiatici e di tutta Europa, chi con lo zainetto, chi in maniche di camicia e chi nel suo giaccone sintetico, cercavo negli occhi dei miei vicini più giovani lo stesso lampo, la stessa espressione che penso di aver avuto io quella volta. Ne ho trovate tante, altre ne ho solo forse immaginate, parecchie sono andate perse o magari ben nascoste dietro visi alieni e incomprensibili. Ma le cose sono cambiate anche per me.

Tra il 1989 e il 1992 la passione per il Mac, il computer appena scoperto in un’era che non vede nessun tipo di passione che non sia solipsistica e totalmente autoreferenziale, si consumava giocando con le prime funzionalità “evolute” ma “facili” e al tempo stesso “potenti” di un mondo che fino a poco prima era stato diviso tra macchine economiche ed incredibilmente facili e divertenti da usare – i microcomputer come il Commodore 64 o lo ZX Spectrum – e quelli potenti ma impossibili e complicati, come i primi Pc. Mac no. Mac era il sogno americano in una piccola scatola grigia con il piccolo monitor integrato. Era l’alieno che la madre americana di una mia compagna di scuola teneva sul tavolo di legno della sua enorme cucina rustica del cascinale ristrutturato sulle colline fiorentine, era il sogno di una macchina piccola e potente, raffinata e indomabile, che ti sceglieva anziché farsi scegliere. E mi aveva in qualche modo scelto, anche se non me ne rendevo ancora conto.

Le persone che incrocio sul marciapiede: chi con le cuffie bianche di un iPod, chi con l’auricolare Bluetooth e chi a scrutare la posta sul suo Blackberry. Cinque anni fa tutto questo non era possibile

In questi giorni, la centesima volta a San Francisco, la centesima volta di corsa per tre isolati attraverso Union Square, un pezzo di Market Street, poi giù per la Third Street sino all’angolo con il Moscone, in ritardo come al solito per l’apertura della sala stampa, con un paio di articoli da scrivere per il quotidiano in Italia come al solito in chiusura, mi sono reso conto di quanto sia cambiato tutto in un tempo che sarebbe più che normale nella vita “biologica” di tutti noi ma che, in termini di evoluzione tecnologica, è un’era geologica, un abisso. Il Nokia Umts che funziona in roaming anche con la banda larga, il navigatore satellitare TomTom aggiunto con la ricevente Gps senza fili grande come una scatola di fiammiferi da cucina per quando prendi la macchina noleggiata via Internet dall’Italia, la scheda senza fili del mio PowerBook, l’onnipresente connessione senza fili dappertutto, le persone che incrocio sul marciapiede chi con le cuffie bianche di un iPod, chi con l’auricolare Bluetooth e chi a scrutare la posta elettronica appena arrivata nello schermo del suo Blackberry. Quattro anni fa tutto questo non era possibile, o solo a tratti e forse per caso o per sbaglio.

La mia passione del Mac è rimasta costante, forse si è un po’ andata maturando, di sicuro è stata un conforto in un momento di accelerazione e insicurezza costanti. Nella ricerca continua di una nuova identità post trauma, dopo l’11 settembre, la crisi, la deriva dei valori, l’ubriacatura di governi che non governano e di guerre che sono tali solo in televisione (altrimenti si chiamerebbero massacri e scuoterebbero ancora qualche coscienza residuale) hanno scavato un solco profondo, prodotto dei traumi, introdotto delle sindromi psicotiche nella vita di tutti i giorni. Adesso rimane solo la ricerca di un conforto. Guardo la Lincoln nera con le antenne radio quadruple e i vetri oscurati allontanarsi con l’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, appena uscito dal Moscone Center: l’uomo che poteva sconfiggere Bush ma è rimasto legato al palo della sua sconfinata e fanciullesca improntitudine. Fa il consulente, ha un posto nel consiglio di amministrazione di Apple, gioca ancora con la tecnologia come suo padre aveva giocato con il sistema viario statunitense costruendone le arterie portanti, pensando di essere lui quello che ha costruito le autostrade digitali dell’informazione. Lui è il sogno che è diventato vita normale, un po’ ingrassata e imbiancata, senza più brivido e senza più traguardi da poter tagliare.

Il mio nuovo PowerBook nel solito zainetto è la confortante dimostrazione che la vita non procede per terremoti ma che qualcosa di conosciuto e amico rimane sempre a portare conforto. Il nero che fuma accanto al bidone della spazzatura che tra poco svuoterà nel suo furgoncino per raccogliere l’immondizia, infine, ha un colore antico e non cambierà mai, perlomeno fino a che ci sarò ancora io. Chissà se succede anche a chi fa outing con i colori del primo arcobaleno di provare col passare degli anni un orgoglio diverso, più maturo e forse appesantito dall’avanzare del tempo, di certo più confortante e poi – alla fine – desiderare un compagno che ti rendi conto non è quello con cui vorresti vivere, bensì colui senza il quale non puoi vivere. Chissà. È l’orgoglio di essere Mac?

(pubblicato il 13 gennaio 2006)