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Expo, il posto dell'innovazione


Le fiere mondiali sono il luogo dell'innovazione ma la loro traiettoria è più lunga e complessa di quel che non sembra. E inizia con una storia d'amore oramai dimenticata


New York Expo 1964-1965


La scienza delle grandi esposizioni: innovazioni, tecnologie, media


Indice ragionato


1 - Dalla macchina per cucire all’energia atomica: le fiere mondiali come luogo dell’innovazione

Il rapporto tra inventori e industriali; la tradizione francese e britannica prende corpo nel 1851; l’esibizione mondiale nei media e dei media

2 - La rappresentazione della tecnologia nell’era dell’industrializzazione (1851-1938)

L’esibizione di invenzioni e di avanzamenti tecnologici focalizzati al commercio; il cono gelato, una opportunità commerciale che nasce sul campo; la tecnologia dei padiglioni e i nuovi mezzi di trasporto

3 - Le invenzioni diventano parte del tema, l’obiettivo è lo scambio culturale (1939-1987)

La tecnologia piegata al volere di Robert Moses e Walt Disney; per formare nuove generazioni di consumatori; la scienza non è più in vendita: da Fiera Mondiale a Expo

4 - La promozione cittadina, regionale, nazionale (1988 a oggi)

Il padiglione come strumento di comunicazione interculturale; il soft power dell’esposizione: il ruolo di scienza e innovazioni tecnologiche; l’innovazione che viene dalla periferia: la scienza per gli Stati di nuova industrializzazione

5 - Conclusione

L’archeologia della scienza nei territori abbandonati dalle Fiere mondiali: dal giardino giapponese del té di San Francisco all’Atomium di Bruxelles passando per la torre Eiffel di Parigi fino all’Eur di Roma


Robert Moses e Walt Disney al Ford Pavillon dell'Expo di New York 1965
Robert Moses e Walt Disney al Ford Pavillon dell'Expo di New York - 1965

1 - Le fiere mondiali come luogo dell’innovazione


Quali sono i confini dell’innovazione tecnologica presentata in 164 anni di Esposizioni internazionali e universali? Si potrebbe andare avanti per giorni e non troveremmo una fine. È un catalogo delle meraviglie, sia dell’architettura -- una delle più antiche tecnologie frequentate dall’uomo -- che delle scienze e della tecnica. Gigantesche strutture prefabbricate con moduli di dimensioni standardizzate di acciaio e vetro. Torri mai costruite prima. Statue di metallo alte decine di metri, veri prodigi della tecnologia. E poi la televisione. L’ascensore. Gli apparecchi a raggi X. La stessa macchina per cucire. L’energia atomica. Addirittura il cono gelato, frutto di uno dei primi esempi di serendipity all’interno di uno spazio fieristico: l’incontro fortuito tra il bisogno di un venditore di gelati che aveva finito le coppette da un lato e dall’altro un surplus invenduto di waffel, che vennero scaldati e piegati a cono per creare uno degli street food più diffusi sul pianeta.

Una lista delle innovazioni scientifiche e tecnologiche che hanno debuttato durante ogni Esposizione internazionale e universale alla fine sarebbe tanto lunga quanto inutile. E non è neanche possibile cartografare con precisione il ruolo giocato in tutto questo dai mass media, che hanno rappresentato per un secolo e mezzo le esposizioni soprattutto dal punto di vista di scienza e tecnologia, con l’unica eccezione del dibattito politico. Su questo secondo fronte è più facile definire il ruolo dei giornali: le polemiche sugli ingenti investimenti e i ritardi nei lavori sono antiche quanto l’idea stessa di una Great Exhibition portata avanti dal marito della regina Vittoria, il principe Alberto e da Henry Cole (almeno, a quanto si può leggere andando a sfogliare la collezione storica del Times nei National Archives di Londra) e tutto sommato poco influenti. Tanto rumorose nella cronaca quanto rapidamente dimenticate, non passano alla storia.

Invece, è impossibile contenere l’esigenza di organizzare delle esposizioni universali che siano al tempo stesso fiera e mercato, catalogo e pubblicità dell’idea stessa di progresso, capaci di formare il consumatore del futuro e al tempo stesso di intrattenerlo, sino a diventare strumenti di politica estera delle grandi corporation ma soprattutto degli Stati del Primo mondo e poi di quelli emergenti.

A Toronto, nel 1967, per la prima volta viene scelto il nome "Expo"

Una premessa: a partire dalla prima edizione del 1851 sono state utilizzate varie denominazioni per indicare le varie tipologie di Exposition Internationale e World’s Fair. È solo nel 1967, a Toronto, che per la prima volta gli organizzatori scelgono di utilizzare il nome “Expo”, divenuto da quel momento lo standard mondiale, anche se la nomenclatura formale rimane piuttosto complessa. Nel testo da qui in avanti faremo riferimento a tutte le diverse tipologie di eventi come “Expo”.

E per capire il ruolo di tecnologia e innovazione in queste gigantesche manifestazioni bisogna soprattutto mettere ordine, anche per evitare gli eccessi. Le grandi enciclopedie delle esposizioni internazionali e universali, frutto del lavoro soprattutto degli accademici statunitensi e francesi, presentano già una mappa talmente ampia e abbondante di particolari e miniature da risultare scomoda e ingombrante. Una mappa non grande quanto l’immenso territorio che rappresenta ma sicuramente neanche tascabile.

Cerchiamo allora di seguire un approccio diverso. Rispetto ai tre periodi nei quali convenzionalmente si suddivide la storia degli Expo (1851-1938, 1939-1987 e dal 1988 a oggi) individuiamo tre singoli momenti/Expo significativi, che facciano da paradigma e da snodo: il primo è la Grande Esibizione del 1851 a Londra, il secondo è l’Expo ufficialmente disconosciuto, ma ciononostante importantissimo, del 1964-65 a New York (anche se sarà necessario introdurlo parlando brevemente del suo predecessore, l’Expo del 1939-40 sempre a New York) e infine il terzo è quello del 1993 a Taejon, in Corea del Sud.


2 - La rappresentazione della tecnologia nell’era dell’industrializzazione (1851-1938)


Se facciamo un salto indietro e andiamo alla corte della regina Vittoria non troviamo un solitario architetto del primo Expo. Invece, erano presenti due figure differenti e complementari, sinergiche, come lo spirito della Rivoluzione industriale prevedeva. Un innovatore e un imprenditore. Cioè il principe consorte Alberto e il signor Henry Cole, soprannominato l’old king, amico di fiducia dei reali britannici.

Cole è un personaggio affascinante: è stato un uomo poliedrico, appassionato di design (a lui si devono molte innovazioni nel commercio e nella scuola, oltre alla “invenzione” della cartolina illustrata natalizia come mezzo di comunicazione commerciale) e convinto imprenditore del settore pubblico, pieno di energie positive. Un costruttore, insomma. Dall’altro lato, il principe consorte della regina Vittoria è per il Regno Unito una figura tanto importante quanto complessa: Alberto era tedesco di origine (era un Sassonia-Coburgo-Gotha, nato nell’attuale Baviera nel 1819) e razionalista per formazione. Aveva colto nello spirito del tempo della rivoluzione industriale l’occasione per varare un ampio giro di riforme dettate da ideali illuminati e progressisti.

Alberto fu al tempo stesso uomo lucidamente razionale nella vita pubblica quanto appassionato partner nella vita privata. La storia d’amore con la regina Vittoria, uno dei pochi matrimoni reali non combinati ma frutto di un incontro casuale quanto fulminante tra i due cugini di primo grado, fu immediata, profonda e duratura: portò nove figli (4 maschi e 5 femmine), nessuno dei quali morto in tenera età (fatto inedito all’epoca, che le biografie del principe spiegano con una serie di innovazioni igieniche nella nursery della casa reale che vennero imposte da Alberto) e diede il via anche a una intesa politica e strategica fondamentale per capire l’epoca vittoriana. I due, pur rispettando i rispettivi ruoli, furono infatti inseparabili nella vita pubblica oltre che privata.

L’improvvisa morte di Alberto a 42 anni, nel 1861, segnò Vittoria (sua coetanea) per i successivi 40 anni: la regina che guidò l’Impero britannico verso la sua massima espansione (il lunghissimo regno di Vittoria impostò le più grandi riforme sociali, commerciali, industriali e scientifiche della Gran Bretagna) da quel momento si vestì di nero, portando il lutto per il marito scomparso e molto rimpianto per il resto dei suoi giorni.

La tradizione millenaria dei mercati risaliva all'Antico Egitto e all'Antica Grecia

Dal nostro punto di vista, però, Alberto aveva già inciso una delle sue tacche nella storia tra le più profonde. La Great Exhibition del 1851 era stato il luogo del progresso, della razionalità e del pensiero positivo per eccellenza per l’Inghilterra vittoriana. Partiva da lontano: seguiva una tradizione millenaria di mercati itineranti e stagionali, le cui tracce si possono ritrovare già nella Bibbia, nell’Antico Egitto e nell’Antica Grecia. Il percorso si snodava poi attraverso il Medio Evo. In quell’epoca era durante le festività religiose che si manifestava l’unica opportunità di scambio di beni commerciabili, esibizioni di prodotti, compimento di traffici e commerci, e poi, in senso sempre più ampio, la possibilità per i partecipanti di scambiare informazioni e partecipare ad attività comuni.

Anche durante il Medio Evo erano i traffici commerciali l’obiettivo, sicuramente, ma era la tecnologia a fare da acceleratore: le modalità di produzione, i mezzi di trasporto, i sistemi di comunicazione che per cinque secoli progredirono sempre più velocemente resero anche sempre più grandi queste fiere. L’equazione divenne così molto semplice: il progresso porta la prosperità economica e sociale. Le fiere e i mercati si trasformarono nei templi in cui celebrare il progresso e al tempo stesso nei laboratori alchemici in cui l’idea del progresso poté contaminare la società e trasformarla per sempre.

Terminato la frammentata epoca medioevale, con la nascita degli Stati-nazione come attori principali dell’agone internazionale nacquero anche le grandi fiere annuali di settore: soprattutto quello agricolo ma anche il manifatturiero. È stata la Francia in questa fase a mostrare una tradizione più costante nel tempo. All’inizio dell’800 la rappresentazione della tecnologia e della ricchezza di mezzi era uno strumento necessario per mostrare, prim’ancora che la potenza economica e politica, più semplicemente la salute dello Stato. Dopo guerre e crisi economiche, raccolti decimati e rischi di disgregazione, i momenti di sintesi delle fiere offrivano la possibilità di ricostruire il senso di unità statale, oltre che arricchire la produzione e i commerci.

Fiorisce anche l’organizzazione di questi eventi perché favoriscono lo scambio di idee e di informazioni. Alle fiere, a differenza che nei mercati, non si vende ma si osserva, si incontra, si apprende, si viene educati, e ci si trattiene persino, attratti dai divertimenti di strada, dalle meraviglie, dagli assaggi di prodotti e da quelli che oggi chiameremmo a pieno titolo “gadget”, distribuiti con larghezza dagli espositori per conquistare l’attenzione del pubblico.

È tuttavia la Gran Bretagna a fare il salto di qualità, con l’Esibizione internazionale di Londra del 1851 al Palazzo di Cristallo, costruito apposta per l’occasione con una serie di tecnologie per l’epoca altamente innovative. La visione è pienamente imprenditoriale ma lo spirito è statale, anzi regale. L’esibizione di progresso e di innovazione ha progettualmente un forte valore pedagogico, nelle intenzioni di Alberto, ma anche un obiettivo economico, nel pensiero di Cole: i conti alla fine della manifestazione devono tornare. Non torneranno, ma il bilancio reale non ne risentirà perché il giudizio unanime della pubblica opinione dell’epoca fu che ne era valsa la pena. Quello che era stato messo in scena, sia dal punto di vista espositivo che dalla varietà e qualità dei visitatori -- anch’essi parte integrante della rappresentazione nel luogo di incontro e scambio del Palazzo di Cristallo -- meritava di sicuro la spesa.

Il tutto, però, condito di esotismo, "naturalia" e "artificialia"

La struttura del primo Expo è unica: un gigantesco padiglione di acciaio e vetro al cui interno è raccolto un catalogo piuttosto eccentrico di meraviglie e novità, di prodotti e di esotismo. Una sorta di gigantesca Wunderkammer del tardo Rinascimento continentale e del primo Illuminismo, graziosamente organizzata per il godimento dell’alta borghesia e delle masse più evolute del Regno. Questo gigantesco “gabinetto delle curiosità” a differenza dei suoi predecessori non ha però un intento museale e non racchiude la volontà di potenza di un singolo, eccentrico nobiluomo. Bensì ha l’obiettivo di attrarre il maggior numero possibile di curiosi e seminare nelle loro menti l’idea del progresso tramite macchine e sistemi progrediti. Il tutto, però, condito di esotismo, “naturalia” e “artificialia”, bozzetti viventi della vita di selvaggi nelle remote province dell’Impero, archeologie (soprattutto dell’Egitto) senza dimenticare drappeggi, illustrazioni, bozzetti e dipinti, quinte e fondali di scena.

L’intuizione di Alberto e Cole ruota attorno anche a un’altra idea: l’Expo è un momento di potente sintesi fra due schieramenti, quello degli inventori e quello degli industriali. Il rapporto tra queste due anime della rivoluzione industriale e poi dell’epoca vittoriana è a dir poco dialettico. Riuscire a ricondurre su uno stesso seminato anime così diverse è quello che permette all’industria di crescere, accogliendo un metodo scientifico nell’organizzazione dell’impresa prim’ancora che nella produzione e d’altro canto permettendo agli innovatori di cercare in modo legittimo uno sbocco pratico e un ritorno economico non di tipo mecenatizio per le proprie creazioni. La sottile trama tessuta dal principe consorte Alberto e da Henry Cole più di un secolo e mezzo fa caratterizza ancora oggi le polemiche nella dialettica tra ricerca di base e applicativa, nel rapporto tra scienza e industria.

La sintesi di quest’epoca è colta da un passaggio del discorso al Padiglione musicale della Esposizione Panamericana di Buffalo del 5 settembre 1901 dall’allora presidente degli Stati Uniti, William McKinley. Fu il suo ultimo discorso perché la sera dopo venne assassinato. È un passaggio molto citato, quando si parla di Expo, ma quasi mai per intero. Per questo vale la pena riproporlo qui nella sua interezza: “Le esposizioni sono i cronometristi del progresso. Registrano i miglioramenti del mondo. Stimolano l’energia, la capacità imprenditoriale e l’intelletto delle persone, accelerando il genio umano. Entrano nelle case. Allargano e alleggeriscono la vita quotidiana delle persone. Dischiudono possenti depositi di informazioni agli studiosi. Qualunque esposizione, grande o piccola, ha contribuito a fare un qualche passo in avanti. Confrontare le idee è sempre formativo, e per questo motivo educa il cervello e la mano dell’uomo. Ne conseguono amichevoli rivalità che sono lo stimolo al miglioramento dell’industria, l’aspirazione a invenzioni utili e l’alto impegno per tutti i settori dell’umana attività”.


3 - Dall’invenzione tecnologica all’invenzione del futuro (1939-1987)


Dalla loro originale impostazione, gli Expo nel tempo sono cambiati perché è cambiato il mondo, cioè la società che li ha espressi. Oltre all’evoluzione delle tecnologie, che hanno dato vigore e tono all’idea stessa di esposizione, un ruolo fondamentale è da ricercare anche nei media e in particolare nella stampa prima e nella televisione poi.

L’idea stessa di Expo è stata una straordinaria occasione per la stampa, che nell’Ottocento si è espansa e rafforzata e diventando strumento di comunicazione di massa per eccellenza. Un retaggio culturale quest’ultimo che ci portiamo ancora dietro nel nostro lessico quotidiano, per la coincidenza di senso tra “stampa” e “giornalismo”, nonostante la quantità di informazioni veicolate da radio, televisione e poi internet superi di gran lunga e da tempo quelle raggruppate sulla carta quotidiana e periodica. Nell’Ottocento tuttavia la carta era la padrona dell’immaginario, l’orologio che sincronizzava la società e ne dettava i tempi con una distribuzione capillare e una serie di cicli serrati e complessi che permettevano di accedere a quattro, cinque, anche sei edizioni differenti dei quotidiani del mattino, del pomeriggio e della sera.

Nella mediazione dell’idea di Expo, primo grande evento a carattere locale e al tempo stesso mondiale, capace di attrarre investimenti di ampia portata (e quindi di influenzare anche la stampa su più livelli) emergono una serie di fattori. Gli Expo attraggono naturalmente la stampa perché sono costruiti apposta per attrarre i visitatori: le mirabili cose mostrate nei padiglioni diventano curiosità da anticipare e poi da raccontare. Gli Expo diventano, con il tempo, anche strumenti di costruzione culturale: vengono messi in scena e diventano “materia” dei concetti astratti difficili da rappresentare ma di capitale importanza. L’idea di progresso, di scienza, di antropologia, di esotismo ma anche di futuro, di novità. E dietro a questo la politica: la presenza forte dello Stato, a partire dalla Corona britannica, negli Expo (perlomeno quelli organizzati in Europa) passa attraverso la capacità di generare consenso “bipartisan” tra i partiti e le fazioni politiche se non altro per approvare e garantire appoggio e copertura finanziaria: cosa non scontata e nella quale i giornali trovano uno dei loro ruoli fondamentali di rappresentazione e mediazione.

Il cambiamento che avviene a cavallo della Seconda guerra mondiale, secondo gli studiosi convenzionalmente con l’Expo del 1939-40 di New York, è uno spostamento di senso profondo, che rivoluziona la direzione nella quale si muovono le esposizioni universali e riposiziona il ruolo di innovazioni e tecnologie al loro interno.

È quando acquistano un "tema" che gli Expo diventano finalmente completi

Gli Expo passano da essere la piattaforma sulla quale mostrare scienza, innovazione e tecnologia ad essere uno strumento completamente differente. L’obiettivo diventa adesso quello di costruire un’idea di futuro, lanciare un messaggio. È in questo momento che gli Expo acquistano un “tema”, riassunto con le modalità della moderna comunicazione pubblicitaria in un unico motto. È un bisogno quasi ideologico sul quale gli studiosi accademici degli Expo si sono sbizzarriti, soprattutto perché molto legato al mondo statunitense. Secondo uno dei maggiori e più competenti critici, Robert W. Rydell, è in questo momento che gli Expo diventano completi. Le fiere universali servono a raccogliere le idee di pochi -- architetti, artisti, scienziati -- per diffonderle a a milioni di persone e dare forma alla modernità dei vari paesi. «L’America moderna -- spiega Rydell guardando alla sua terra -- è un nuovo impero basato sull’abbondanza, costruito su vecchie fondamenta di ineguaglianza». È una visione radicale che spiega un cambiamento profondo: la tecnologia passa sullo sfondo, l’accumulazione caotica della Wunderkammer viene ordinata e catalogata secondo criteri di importanza dettati dall’esterno. Gli Expo vengono messi in piedi con l’obiettivo esplicito ad esempio di “costruire il mondo di domani”, oppure di celebrare “la pace attraverso la comprensione reciproca” e via dicendo.

L’Expo di New York del 1939-40 fu un’opera gigantesca nell’ambizione e nella sua realizzazione, ma in qualche modo incompleta. La città di 7,5 milioni di abitanti, all’epoca la seconda più grande al mondo dopo Londra, premeva per dare sfoggio al mondo delle sue capacità e per spingere l’economia. Va notato che già da tempo gli Expo americani venivano organizzati in modo diverso da quelli europei: toccava a privati e aziende, senza un diretto coinvolgimento dello Stato, farsi carico dell’intero progetto. Al limite, a fare da motore dietro le quinte erano le strutture delle cosiddette “Public authority”, enti pubblici di diritto privato tutt’ora esistenti nel diritto americano che organizzano e mantengono ad esempio le infrastrutture dei trasporti. Nel caso di New York il regista dell’operazione fu Robert Moses, una delle figure più significative nella storia della città che per oltre cinquant’anni ha letteralmente dato forma a Manhattan e agli altri quattro municipi di New York muovendosi però sempre nell’ombra, al di fuori dello scrutinio della pubblica opinione e del riconoscimento del corpo elettorale.

L’Expo di New York del 1939-40 fu il culmine di una epopea ricchissima di fatti e aneddoti, in cui l’interesse economico delle aziende e la complessa meccanica finanziaria per costruire la fiera, costata 155 milioni di dollari dell’epoca (quella di Chicago del 1933-34 era costata “solo” 33 milioni), si intrecciava con i problemi sindacali, politici locali e internazionali, come ad esempio il nodo della partecipazione della Germania nazista. L’ombra della guerra, l’invasione della Polonia nel ’39 e poi di Danimarca e Norvegia nel ’40 segnarono gli eventi. Ma dietro a tutti fu Moses a muovere le fila per far aprire e portare a compimento l’Expo nell’area del Flushing Meadows Park del Queens.

Da tempo gli Expo avevano assunto l’attuale forma organizzata con dei padiglioni nazionali oltre a quelli tematici. A New York la partecipazione fu enorme (44 milioni di visitatori, 6 meno di quelli previsti) e i commentatori registrarono opportunità di pubblicità e business gigantesche. Anche Moses aveva visto chiaramente quanto un evento del genere potesse offrire in termini di libertà di manovra nel gestire i piani urbanistici di sviluppo della città. Nell’Expo di New York si incrociarono due bisogni differenti: provare al mondo che gli Stati Uniti avevano di nuovo un’economia forte dopo un periodo di crisi, e mostrare che forma avrebbe avuto il domani costruito con gli strumenti già a disposizione oggi. Per arrivare a questi obiettivi, molto venne concesso a chi voleva cambiare la destinazione di aree prima rurali, bonificarle e trasformarle in terreno edificabile, investendo poi sulle infrastrutture necessarie a collegarle, come ponti, tunnel e linee di metropolitana.

Futurama predatava di quasi 80 anni la rivoluzione di Siri e Cortana, ancora oggi in corso

In tutto questo la tecnologia e l’innovazione avevano assunto un ruolo secondario nella progettazione dell’Expo rispetto alle esigenze economiche e politiche. Un ruolo oltremodo sfortunato, perché quella di New York fu anche una fiera di promesse rimandate: la promessa implicita nella rappresentazione tecnologica del futuro venne rapidamente archiviata e rinviata al termine della Seconda guerra mondiale. Il dispiegamento di idee, progetti e prodotti innovativi fu però lo stesso molto significativo: oltre a mezzi di trasporto non convenzionali e strutture architettoniche innovative -- i 1.500 espositori trovavano spazio in oltre 100 palazzi costruiti per l’occasione -- vennero presentate alcune tecnologie e innovazioni rivoluzionarie. Futurama, della General Motors, era un viaggio nell’America di vent’anni nel futuro (il 1960) attraverso 408 diorami disposti lungo un percorso di alcuni chilometri. Voder, invece, era un sistema di sintesi vocale prodotto dalla compagnia telefonica AT&T che predatava di quasi ottant’anni la rivoluzione in corso ancor oggi con gli agenti intelligenti come Siri e Cortana.

E poi, la televisione. Il “piccolo schermo” era già stato mostrato ad esempio all’Expo di Chicago, però qui venne per la prima volta utilizzato: il presidente Roosevelt tenne un discorso inaugurale per un piccolo pubblico televisivo nella sola area di New York che venne poi ritrasmesso dalla NBC il giorno in cui iniziarono le trasmissioni commerciali. Con il battesimo della televisione il ruolo degli Expo come luogo dell’innovazione tecnologica giunse probabilmente al suo acme.

Tuttavia Robert Moses, la cui carriera va dagli anni Venti sino a tutti gli anni Sessanta (morì nel 1981 a 92 anni), non considerava ancora chiuso il capitolo Expo. Erano passati gli anni, la guerra e altri anni ancora, e lui conservava ancora in ricordo della fiera del 1939-40. Nel tempo si era impegnato con sempre maggiore determinazione e calcolo politico a fare in modo che New York ne potesse vedere almeno un’altra durante il suo “regno”. Un regno che negli anni Sessanta stava rapidamente tramontando e che, con la distruzione della Pennsylvania Station nell’area dove oggi sorge il Madison Square Garden a New York, per la prima volta si era trovato a fronteggiare una forte opposizione personale come responsabile della Transit Authority.

Moses provò ad imporre la sua idea di un nuovo Expo nella Grande Mela all’inizio degli anni Sessanta, nonostante proprio in quel periodo si fosse tenuta la Century 21 Exposition di Seattle (1962). Nella città dello Stato di Washington erano state creati tra le altre cose lo “Space Needle” e una avveniristica monorotaia. E nell’immaginario della pubblica opinione si era fuso il concetto di frontiera americana con quello di frontiera tecnologica, con la benedizione del gruppo aerospaziale Boeing che proprio a Seattle aveva il suo quartier generale.

Torniamo invece al secondo Expo newyorkese, cercato con tanta determinazione da Moses. Per noi è uno snodo importante: l’evento del 1964-65 è più rappresentativo della seconda fase della storia degli Expo rispetto a quello del 1939-40. Vedremo tra un attimo perché.

Il progetto di un nuovo Expo a New York ottenne il disco verde da espositori e stati sponsor ma non dalla BIE (Bureau International des Expositions), l’organizzazione internazionale che regola l’assegnazione e lo svolgimento degli Expo. Il risultato fu a New York si partì “zoppi”: non solo per la prima volta senza la “midway”, l’area esterna dedicata all’intrattenimento puro che nel tempo si era separata dal corpo principale della fiera, ma anche senza il riconoscimento ufficiale della BIE. Per questo e per molti altri motivi, tra cui l’elevato costo dei biglietti, l’Expo fu tutto tranne che un successo.

Il motivo per cui questo Expo ci interessa però è un altro. Al suo interno comparve prepotente la figura di Walt Disney che, con la sua azienda, contribuì alla realizzazione di numerosi sistemi di intrattenimento (gli animatronics, sistemi meccanici a sembianza umana capaci di parlare e muoversi, simulando ad esempio i discorsi del presidente Lincoln, e people movers, sistemi di mobilità urbana) e portò avanti una lunga trattativa sulla possibilità di trasformare l’area di Flushing Meadows in una versione per la costa orientale della Disneyland di Los Angeles, inaugurata già nel 1955.

Le trattative per Flushing Meadows si arenarono e Disney andò poi a finire a Orlando, in Florida

Disney però non voleva fermarsi a solo a questo. Aveva in realtà in mente di realizzare qualcosa di mai visto prima: una comunità sperimentale abitata da persone “vere” e dove si potessero dimostrare nuove tecnologie. Era il progetto di “Epcot”, la sigla che sta per Experimental Prototype Community of Tomorrow, nelle parole di Disney una città utopica che “prenderà spunto dalle nuove idee e tecnologie che stanno emergendo dai centri creativi dell’industria americana. Sarà una comunità del domani che non verrà mai completata ma che starà costantemente presentando, sperimentando e dimostrando nuovi materiali e sistemi. Epcot sarà sempre la vetrina verso il mondo dell’immaginazione e dell’ingegno della libera impresa americana”.

Le trattative su Flushing Meadows si arenarono e buona parte dei macchinari realizzati da Disney per l’Expo andarono poi a finire a Orlando, in Florida, dove sorse il parco a tema “Walt Disney World”, costruito con grandi ambizioni destinate però a non essere mai realizzate. Alla fine il progetto, bloccato dalla morte di Walt Disney nel 1966, venne comunque completato e inaugurato nel 1971, ma con obiettivi fortemente ridimensionati e trasformati in sostanza in una “Disneyland 2”. Dell’idea iniziale restò però una traccia: “l’esposizione permanente“ di Epcot, la città del futuro.

L’intuizione di Disney era infatti basata sull’assunto che l’esibizione delle tecnologie e delle innovazioni dovesse essere istituzionalizzata: anziché un progetto in itinere, che “saltava” di fiera in fiera, aperto a interpretazioni e continue variazioni locali, il futuro doveva trovare una base più solida per poter attecchire.

Contrario alla rituale distruzione dei padiglioni e al costante superamento dei progetti del domani tracciati ad ogni Expo, Disney cercava di costruire non solo una struttura che fosse redditizia per il suo desiderio di fare business, ma che fosse anche sufficientemente duratura da portare effettivamente a quel cambiamento prospettato ma sempre rinviato dagli Expo. In questo era figlio del cleavage introdotto dalla Seconda guerra mondiale, che era stata da un lato un incredibile acceleratore di tecnologie soprattutto in ambito militare, ma dall’altro anche un momento di sospensione dell’idea ottocentesca di progresso, rinviato assieme alle aspettative individuali di milioni di persone ai tempi migliori di un “dopoguerra” remoto nel tempo e a tratti percepito come irraggiungibile.

Disney, come Moses in più piccola parte, non era tanto preoccupato dall’idea della sua eredità, quanto dal bisogno di recuperare un decennio perso con la guerra. Per questo la sua idea di ricostruzione era in realtà più potente: era frutto del desiderio di riprendere in pieno la traiettoria, solo momentaneamente interrotta dalla Seconda guerra mondiale, che era stata lanciata dalle due rivoluzioni industriali ottocentesche e che aveva proseguito nella prima metà del Novecento con un ritmo serrato di invenzioni e nuovi prodotti.

L’innovazione tecnologica da questo punto di vista era l’ipotesi sulla base della quale costruire il futuro. Una costruzione che vedeva un ruolo innovativo dei mezzi di comunicazione di massa: gli stessi Expo venivano intesi come teatro di rappresentazione e mediatore di senso per la società, gli strumenti potente ma perfettibili con cui operare.

Lo strumento migliore secondo Disney, però, sarebbe stato il progetto di Epcot: la comunità utopica che avrebbe dovuto incarnare l’idea di innovazione e di progresso. Una traiettoria, tuttavia, cancellata dalla storia.


4 - L’era del soft-power (1988 a oggi)


Se a partire dagli anni Trenta l’esigenza pubblicitaria nei confronti dei cittadini-consumatori divenne primaria e fece retrocedere il ruolo delle innovazioni tecnologiche in secondo piano, a partire dalla fine degli anni Ottanta fu il marketing internazionale ad assumere un ruolo prominente. Gli Expo diventarono il luogo in cui promuovere il “brand” di una nazione e questo cambiò ancora una volta la postura che la scienza e la tecnologia assumevano all’interno dei padiglioni fieristici.

La fiera, che si è autoconcepita come vetrina per le tecnologie del futuro, e il ruolo di vetrina è quello che la caratterizzerà sempre più, diventa anche uno strumento di potere “soft”, per riprendere la fortunata formula coniata dal politologo americano Joseph Nye. Anzi, di più. Secondo Rydell, le fiere negli Usa servirono sempre più a legittimare lo sfruttamento e la creazione di un impero. Gli Expo, che hanno fatto da enciclopedia della civilizzazione, erano diventati anche strumenti per supportare un’agenda politica sempre più pressante. Negli Usa a partire dall’Ottocento i temi erano stati: la riunificazione del Nord e Sud dopo la guerra civile, poi l’espansione in America Latina, quindi l’ottimismo durante la grande depressione e infine l’idea di un’umanità unica legata da valori Occidentali (cioè di libero mercato) durante l’era nucleare. Ma nel mondo post-bipolare, in cui sono emersi nuovi ruoli per le nazioni, gli Expo si sono scoperti non troppo diversi dalle grandi manifestazioni rituali di piazza. Quelle parate in cui sfilano, davanti ai governanti di un paese, le forze armate e i rappresentanti di industria e società. Con la differenza che non ci sono i militari e c’è invece la partecipazione anche delle altre nazioni, oltre alla possibilità di fare business assieme.

L’obiettivo delle Fiere è sempre quello di mostrare innovazioni tecnologiche a pubblici sempre più grandi, attratti dalle meraviglie del futuro ma anche dalla certezza di partecipare a grandi eventi ben studiati e strutturati, arricchiti da forme di intrattenimento uniche e irripetibili, a partire dai fantascientifici padiglioni che verranno poi regolarmente distrutti al termine dell’Expo. Ma si aggiunge anche l’obiettivo di portare alla ribalta il ruolo della nazione organizzatrice. L’Australia, con il World Expo 88 di Brisbane, apre questa nuova fase. Ma è probabilmente l’Expo di Taejon del 1993, in Corea del Sud (che celebra il centenario della prima partecipazione della Corea a un Expo, la Columbian Exhibition di Chicago del 1893), a rappresentare meglio questa nuova funzione.

L'orgoglio di San Francisco ritrovata dopo il terremoto (e l'incendio) del 1906 con L'Esposizione internazionale del 1915

Tenutosi a cinque anni dalle Olimpiadi di Seul, l’Expo di Taejon (l’odierna Daejon) è il posto dove mostrare che l’altra tigre asiatica dopo il Giappone fa sul serio con la tecnologia. Samsung, Daewoo, Sanyoung, Lg: le aziende hi-tech, all’epoca praticamente sconosciute ai consumatori occidentali, costruiscono parte della loro credibilità verso l’Europa e gli Stati Uniti ma anche verso gli altri attori regionali (come il Giappone e la Cina) dimostrando che il paese è maturo e capace. Reduce da una sanguinosa guerra e praticamente priva di materie prime di valore, la Corea del Sud aveva fatto una precisa scelta pianificando e perseguendo un futuro tecnocratico, di commistione tra stato e grandi imprese tecnologiche. Investendo sull’innovazione e sulla ricerca, anche se partendo da livelli di produzione molto umili. Il 1993 diventa l’anno in cui dimostrare con orgoglio al mondo i frutti del lavoro di due generazioni. Non è diverso dall’orgoglio ad esempio di una San Francisco ritrovata e ricostruita dopo il terremoto e il grande incendio del 1906 con l’Esposizione internazionale Panama-Pacifico del 1915. L’unica differenza è nel ruolo del Paese stesso nel flusso della storia contemporanea: da terra dilaniata da conflitti e quasi fagocitata dal comunismo asiatico a paese emergente economicamente saldo. In fila dietro quella Corea si potevano vedere decine di altri paesi: Brasile, India, Vietnam, Thailandia, la stessa Cina.

Da qui i temi dell’Expo cominciano a mutare: in maniera sotterranea l’idea Ottocentesca del progresso tecnologico fine a se stesso e pensato come inarrestabile forza economica e sociale di trasformazione costante, alimentata dalla fornace della tecnologia che brucia ininterrottamente vari carburanti, comincia a cambiare direzione. Le risorse del pianeta, necessarie ad alimentare questa idea di progresso, danno segni di esaurimento e l’inquinamento, la scarsità di cibo e acqua potabile, i problemi di sovraffollamento, sanitari e più prosaicamente igienici del mondo diventano temi sempre più importanti nell’agenda dei popoli, dei capi di stato e delle grandi organizzazioni internazionali. È un capitolo dell’agenda internazionale che si sposta nel perimetro dell’Expo e introduce idee come i sistemi di recupero dell’energia, le fonti rinnovabili e “verdi”, i sistemi di trasporto non inquinanti (qui fa la sua comparsa il treno Maglev, ad esempio). E le modalità di intrattenimento diventano ancor più vicine alle attese della società, che consuma sempre maggiori quantità di video e si attende rappresentazioni e manipolazioni visive: schermi ad altissima definizione, computer grafica, simulazioni 3D, effetti in tempo reale, video artisti digitali al posto di tradizionali scienziati e imprenditori che giochino il ruolo di innovatori. È anche una parte della cultura asiatica che vede nella tecnologia uno strumento di intrattenimento più che un fine di ricerca e sviluppo.


5 - Conclusione


L’archeologia dei territori abbandonati o riutilizzati degli Expo è ancora tutta da scrivere. Eppure il percorso porterebbe a una ricostruzione piuttosto complessa ma veritiera del ruolo generativo degli Expo nella società. Se la città e il tessuto urbano sono un mediatore tra la vita umana e l’ambiente naturale, le vestigia degli Expo sono qualcosa di complesso e ambiguo al tempo stesso. I padiglioni e gli altri edifici non sono solo contenitori di innovazioni tecnologiche ma a loro volta aspirano ad essere elementi significativi del paesaggio urbano o periferico e quasi sempre contengono una loro carica originale anche dal punto di vista tecnologico e sperimentale. Nella loro pienezza di funzione, effimera e legata al tempo di un singolo Expo, semantizzano in maniera unica il territorio. Ma il meglio, come spesso accade, viene dopo.

Le vestigia delle esposizioni che furono, infatti, possono essere subdole e quasi invisibili nel tessuto urbano. Oppure possono essere appariscenti quanto quasi misconosciute nella loro origine. L’Atomium di Bruxelles o la torre Eiffel di Parigi, il giardino del tè giapponese di San Francisco (utilizzato quasi inconsapevolmente per due Expo) e l’Habitat di Montreal fino all’Eur di Roma, che nell’acronimo cela la sua originaria destinazione (l’Esposizione Universale di Roma, quella E42 da tenersi nel 1942 che venne invece cancellata dalla guerra). In ogni caso, questi monumenti persistono, come tessuti cicatriziali indeformabili sulla pelle in costante mutamento della società.

Le tracce di questo gioco intrecciano piani differenti. Lo Space Needle e la monorotaia di Seattle portano con sé gli indizi di un futuro immaginato negli anni Sessanta, fatto di carrozzerie cromate, pinne illuminate e architetture svettanti, che richiama in qualche modo l’estetica dei Pronipoti/Jetson di Hanna-Barbera, mentre il Palazzo delle Belle Arti di San Francisco, a lungo sede museale dell’Exploratorium, porta con sé un’estetica accuratamente progettata di rovina classica, immaginabile forse come greca o romana, che esprime in maniera quasi fondante un pensiero poi ricorrente dell’architettura americana, da sempre alla ricerca di una tradizione europea da reinterpretare e di cui appropriarsi. Ancora, nel porto antico e nell’acquario di Genova c’è una ricucitura al centro della città, operata dall’Expo del 1992 e da Renzo Piano in particolare, che risemantizza il tessuto e mostra la capacità innovativa e generativa del ridisegno urbano e del recupero dei centri storici, autentiche “periferie interiori”.

Una collezione di città invisibili ed effimere alternativa a quella di Italo Calvino

Scorrendo nei cataloghi e nelle enciclopedie degli Expo la parte iconografica, mutuata dai giornali e riviste dell’epoca, dal materiale pubblicitario e dalle cartoline, e infine dalle collezioni private di immagini scattate durante gli eventi, emerge un’altra collezione -- alternativa a quella di Italo Calvino -- di città invisibili, anzi scomparse e quasi non esistite, che porta con sé un fascio di senso ricco ed eterogeneo. Anche solo da un punto di vista visivo.

Le immagini tramandate dagli Expo più antichi mantengono un senso straniante che va oltre la “relazione cronicamente voyeuristica” delle persone con la fotografia o l’abbellimento delle immagini dovuto al passare del tempo, due concetti plasmati da Susan Sontag nel suo Sulla fotografia. C’è più l’idea di un archetipo collettivo, di un regno favoloso, un’unica meta-città impossibile che appartiene alla storia e all’immaginario di tutti noi. Un territorio in prevalenza della memoria, costantemente filtrato attraverso il racconto dei mass media, pur non essendo mai realmente esistito o perlomeno non a lungo. I padiglioni degli Expo, fulcro e contenitore dell’innovazione tecnologica oltre che del senso delle esposizioni, nella loro rappresentazione visiva diventano articolazioni, quartieri e zone di un infinito tessuto urbano alternativo, alieno, legato assieme dalla macchina della comunicazione di massa. Per echeggiare il Roland Barthes della Camera chiara, sono immagini che si esprimono con un terzo modo oltre al linguaggio espressivo e al linguaggio critico, definendo un’area di mezzo tra lo storico e l’effimero in cui viviamo. In un’epoca di monumentalizzazione della memoria e storicizzazione degli oggetti quotidiani, gli Expo interpretano e portano all’estremo per un breve, rumoroso momento i gusti e le passioni di un segmento temporale della società. E poi, come le stagioni della vita -- e a differenza dell’attitudine del nostro tempo a cristallizzare le esperienze in un infinito presente --, gli Expo diventano un ricordo. Sopravvivono solo nella rappresentazione di se stessi.

Le esposizioni internazionali e universali mantengono certamente la carica di ottimismo positivista iniziale, declinata oggi con maggiore attenzione agli odierni temi ambientali e della crescita sostenibile e in un’ottica di rappresentazione del potere economico tecnologico e culturale, oltre che del prestigio delle nazioni e delle multinazionali che le animano e vi partecipano. Tuttavia, se le Olimpiadi celebrano ancora lo spirito dello “sport”, che ha a profondamente a che fare con la natura ma anche con la fisicità del corpo umano, invece gli Expo inchiodano con precisione l’idea di “progresso”, l’esoscheletro concettuale del corpo, costruito attraverso la rappresentazione delle innovazioni e delle tecnologie da un lato e delle attrazioni dall’altro. Una visione che sarebbe piaciuta al principe consorte e all’old king.


Bibliografia minima


  • Allwood J. (2001), The Great Exhibitions: 150 Years, Exhibition Consultants Ltd.

  • Findling J. E. Pelle K. D. (2008) Encyclopedia of World's Fairs and Expositions, McFarland & Company

  • Greenhalgh P. (2011), Fair World: A History of World's Fairs and Expositions, from London to Shanghai 1851-2010, Andreas Papadakis Publishing

  • Heller A. (1999), World's Fairs and the End of Progress: An Insiders View, World's Fair Inc; illustrated edition

  • Rydell R. W. (1987), All the World's a Fair: Visions of Empire at American International Expositions, 1876-1916,  University of Chicago Press

  • Rydell R. W., Findling J. E., Pelle K. D. (2000), Fair America: World's Fairs in the United States, Smithsonian Institution Press

  • Rydell R. W. (1993), World of Fairs: The Century-Of-Progress Expositions, University of Chicago Press

(11 febbraio 2015)