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The Periferal

Secondo William Gibson siamo finiti in uno stub


Per il padre nobile del cyberpunk la distopia è già in corso


(4 febbraio 2020)


All'inizio degli anni Ottanta, quando ha inventato l'idea di cyberspazio, i cow-boy della console e tutte le altre tematiche e atmosfere che da Blade Runner in avanti associamo con la tecnologia digitale, lo scrittore americano naturalizzato canadese William Gibson non aveva mai usato un computer. Neuromante, La notte che bruciammo Chrome e Monna Lisa Overdrive sono tutte storie nate picchiettando su una vecchia Hermes 2000, una macchina per scrivere svizzera degli anni Trenta comprata a un banco dei pegni di Vancouver. Oggi, a 71 anni, Gibson dice: “Non sapevo niente di computer, e non sarei riuscito a scrivere Neuromante e il resto se ne avessi saputo qualcosa”.

Nel mondo anglofono è appena uscito Agency, secondo romanzo di una nuova trilogia in fieri, iniziata nel 2014 con The Peripheral (da noi Inverso). Nella migliore tradizione gibsoniana, è un romanzo complesso, forse neanche più etichettabile come fantascienza. La protagonista è una donna: si chiama Verity Jane e si occupa di app. Poi c'è Eunice, il personaggio più umano, che però è una intelligenza artificiale. Poi c'è l'America governata da Hillary Clinton, che ha vinto le elezioni. E poi c'è un collegamento virtuale per parlare con la Londra del ventiduesimo secolo.

A Gibson, che alla fine degli anni Settanta decise di smetterla con la cultura hippie e dedicarsi alla letteratura, scegliendo la fantascienza perché c'erano più editori che compravano racconti, l'etichetta di scrittore di genere va stretta. Da vent'anni cerca di bissare il successo degli anni Ottanta scrivendo romanzi ambientati più o meno nel presente o nell'immediato futuro. La ragione è duplice, come ha spiegato al Guardian: “Una mattina del 2016 ero arrivato a un terzo del romanzo quando mi sono svegliato e Donald Trump era stato eletto presidente degli Stati Uniti. Ho guardato il manoscritto, ambientato nella San Francisco contemporanea, e ho capito che quel mondo non esisteva più. Che tutta la base emotiva dei personaggi non aveva più senso. Nessun comportamento avrebbe più avuto senso. Era successo qualcosa di enorme e io mi sentivo in lutto: avevo appena visto morire il mio romanzo che non era ancora nato”.

Ci sono voluti mesi ma, rimettendo insieme i pezzi di una poetica che ha più a che fare con il modo con cui guardiamo al presente che non con la speculazione sul futuro (ma dopotutto non è questo il ruolo della fantascienza?), Gibson ha ritrovato la sua strada. Il meccanismo narrativo ruota attorno a un'invenzione necessaria per evitare il paradosso dei viaggi nel tempo (quelli dove uno potrebbe uccidere suo nonno, oppure Hitler). L'idea è che il viaggio nel tempo sia impossibile, ma non il collegamento digitale con il passato. Un tunnel quantistico permette di far passare un flusso di informazioni. Solo che, non appena si apre il canale, il passato si rompe e diventa uno “stub”, un ramo secco. In cui la storia prende un'altra direzione che la allontana dal nostro presente.

Lo sforzo di Gibson è in realtà un tentativo di farci capire che viviamo nel presente sbagliato, che siamo finiti su un ramo secco della storia. Il resto sono solo comparse per la messa in scena: lo spazio virtuale, le intelligenze artificiali, le corporazioni che hanno soffocato gli stati nazione e guidano il pianeta, le modificazioni estreme del corpo, il marketing e il branding ridotti a metastasi di una società intossicata dal consumismo.

L'idea di Gibson, che adesso lavora al terzo capitolo della saga, è piaciuta a Netflix che sta producendo un telefilm in cui la cupezza dei tempi potrebbe sposare un non impossibile secondo mandato di Donald Trump. Gibson commenta: “Se qualcuno fosse venuto dal futuro a dirmi di Boris Johnson, l'avrei mandato a quel paese”.