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Intervista a Werner Vogels, il papà del cloud

Progettiamo il futuro usando il vocabolario del passato. L'unico modo per superare questo limite è parlare con Werner Vogels, il padre del cloud e CTO di Amazon che sta creando le interfacce intelligenti di domani


(dicembre 2017)


Uno dei temi più ricorrenti lo scorso anno è stato l’arrivo delle intelligenze artificiali e degli effetti che queste avranno sull’occupazione. Il computer “smart” può sostituire i lavoratori della conoscenza? Avvocati, medici, architetti, quadri e impiegati d’azienda: professioni e mansioni destinate a sciogliersi come neve al sole digitale?

Non esiste una risposta ma solo perché la domanda è mal posta. La realtà è più complessa, non può essere ridotta a una sola dimensione. E soprattutto, come diceva l’olandese Edsger W. Dijkstra, forse uno dei tre informatici più importanti della storia, “abbiamo la brutta abitudine di parlare e progettare il futuro usando il vocabolario del passato”. Quel che il teorico della computer scienze scomparso nel 2002 intendeva dire è che, a fronte di sfide nuove e inattese, cerchiamo di farla franca utilizzando parole e quindi concetti con i quali abbiamo familiarità. Concetti che hanno acquisito il loro significato durante le nostre passate esperienze. Ricorriamo a metafore e analogie per rendere il nuovo un po’ più vecchio, famigliare, progressivo. Questo meccanismo, che appartiene alla nostra specie da sempre, funziona molto bene con i cambiamenti progressivi. Entra però in crisi quando l’innovazione crea una cesura, e quando si apre un mondo nuovo.

Quando l’esperienza del passato non serve più, le analogie diventano imprecise e le metafore più che illuminare ingannano, il metodo applicato da una vita non serve più: il buon senso affonda nelle acque mai prima navigate. Sempre secondo Dijkstra una soluzione esiste: è un approccio ortogonale, nel quale si getta il vecchio e si impara il nuovo senza pregiudizi, senza schemi preconcetti. Altrimenti, sottolineava l’informatico, si rischia di sopprimere o ignorare le novità perché portatrici di quel disordine che perturba l’ordine secondo noi costituito.

Uno degli allievi di Dijkstra, forse quello di maggior successo, è Werner Vogels, professore di informatica alla Cornell University e Chief technology officer di Amazon per la parte di innovazione legata ai web services, cioè la divisione interna completamente autonoma AWS. Sono andato a conoscere lui e il Ceo di AWS, Andy Jassy, a Las Vegas, durante la conferenza Re:Invent, l’annuale appuntamento dedicato al cloud di Amazon. Maglietta dei Foo Fighters sotto la giacca scura, jeans, fiato corto per l’evidente sovrappeso, Vogels è un oratore energetico e appassionato, ma completamente orientato ai contenuti. Non concede niente alla retorica o alle iperboli californiane del “bellissimo”, “straordinario”, “fantasmagorico”, i termini con i quali una legione di startuppari sedicenti emuli di Steve Jobs condiscono le loro apparizioni pubbliche.

A metà del suo keynote, davanti a 43mila fra sviluppatori, business partner e investitori, Vogels chiarisce che non ci sono “notizie” nel suo intervento, due ore e mezzo tutte orientate a spiegare passo passo le nuove tecnologie e strumenti nel cloud di Amazon. Una cosa da tecnici e da smanettoni, che però tocca un argomento che dopo poche ore sarà su tutti i siti di informazione e le televisioni americane. È l’arrivo dell’intelligenza artificiale in ufficio.

Come Giovanni Drogo guarda dalle mura della fortezza Bastiani il deserto dei Tartari nell’attesa di un pericolo che non si è mai presentato, così legioni di manager d’azienda hanno scrutato l’orizzonte del web cercando di capire da quale parte sarebbe arrivata la temuta invasione nemica delle intelligenze artificiali. La forma assunta da questa prima ondata però è molto diversa da quanto attesa. Per Amazon è stata la presentazione di una versione di Alexa, il suo assistente cloud simile a Siri di Apple e Cortana di Microsoft o a quello anonimo di Google, con ”abilità“ (“skills”) per l’ufficio. E una architettura aperta che consente di aggiungerne di nuovi, sia sviluppati dai produttori di software aziendale che dalle aziende stesse.

L’idea di Vogels è che le interfacce con i computer siano sempre state limitate dalla potenza dei computer stessi e quindi pensate su misura per loro. Ma che adesso, grazie a una capacità di calcolo senza limitazioni pratiche, si può fare quel che si vuole, le interfacce vengono invece pensate su misura per gli utenti umani. E quindi si apre l’era delle interfacce con linguaggio naturale, in cui si parla e si ascolta il computer, anzi in questo caso Alexa, in grado di capire anche il contesto delle domande e fornire risposte “attive” grazie alla internet delle cose.

Vogels ha disegnato un mondo dove, ad esempio, si possono creare meeting utilizzando Alexa per trovare la sala riunioni libera, configurare il proiettore, caricare la presentazione, avviare il sistema di telepresenza per chi partecipa da sedi remote. E poi, aprire e chiudere le tende della sala, gestire la stampa dei documenti sulle stampanti compartimentali, trovare in tempo reale informazioni richieste dai partecipanti alla riunione. Alexa si trasforma insomma in un aiutante più che in un sostituto, che nelle intenzioni deve eliminare buona parte della frizione che rende più lunghe e complesse le attività amministrative e organizzative più semplici. Basta chiedere (in inglese, per adesso l’unica lingua disponibile) chiaramente ma discorsivamente quel che si vuole: «Alexa, organizza una riunione alle tre con i ragazzi del gruppo di lavoro, trovami i dati di produzione della fabbrica di questo mese, recuperami anche la presentazione del meeting con gli azionisti e i promemoria che ho scritto nei giorni scorsi per questa riunione». Niente di più semplice.

È solo il primo fronte. Nei giorni successivi Microsoft ha annunciato che il suo Office 365 diventa più smart grazie all’intelligenza artificiale che viene “aggiunta” dentro Word, Excel e PowerPoint. Microsoft in sostanza vuole semplificare e velocizzare i requisiti necessari per lavorare con la posta elettronica e i documenti della sua suite grazie al machine learning: rispondere automaticamente (anche qui, per adesso solo in inglese) a domande nel merito che arrivano per email, organizzare dati nei fogli Excel e analizzarli, creare presentazioni condivise in maniera automatica e la stessa cosa per Word.

Anche l’altro giocatore della partita aziendale per l’intelligenza artificiale, cioè Google, mette già a disposizione nella sua G-Suite funzioni che ricorrono al machine learning per generare ad esempio grafici e tabelle pivot. Google ha creato anche InBox, una app sperimentale di posta elettronica che prevede la “Smart Reply”, cioè una funzione che permette di rispondere a una mail con messaggi brevi e concisi dopo un primo filtro che mette in evidenza i messaggi che richiedono una risposta a breve.

L’intelligenza artificiale, nata all’inizio della storia dell’informatica (le basi sono degli anni Quaranta, la maggior parte del lavoro teorico iniziale è degli anni Cinquanta e Sessanta) con enormi ambizioni, è rimasta a lungo una promessa inattesa ma sta esplodendo adesso grazie alla maggiore potenza di calcolo, algoritmi relativamente migliorati e soprattutto grazie alla digitalizzazione delle nostre vite che ha prodotto le enormi moli di dati necessarie ad addestrare gli algoritmi di machine learning e prepararli a “ragionare” in modo induttivo trovando in modo autonomo soluzioni a determinate classi di problemi. Nell’empireo degli informatici questo si realizza ad esempio con i supercomputer che sconfiggono i giocatori di Go e, più di recente, che ridefiniscono in maniera più smart e leggero anche il gioco degli scacchi (con l’esempio di AlphaZero di Google). Ma è solo l’inizio: la tendenza è quella di portare l’intelligenza artificiale sui terminali smart, come ad esempio i telefonini, per rivoluzionare tutte le attività di questi apparecchi, dalla fotografia alla realtà aumentata.

Il mercato consumer è un grande acceleratore di questo tipo di tecnologie, ma è solo la punta dell’iceberg. «La trasformazione indotta dalle intelligenze artificiali – dice a un certo punto Vogels – non ha tanto a che fare con le tecnologie o l’occupazione, quanto con la cultura, che cambierà radicalmente». Una ipotesi di quale potrà essere la direzione del cambiamento la dà la notizia comunicata dalla Nasa che è stato scoperto nel sistema di Kepler 90 l’ottavo esopianeta, trovando così per la prima volta un sistema gemello di quello del nostro Sole. La scoperta del corpo viene dal combinato disposto di due fattori: da un lato le osservazioni già effettuate su una stella conosciuta, dall’altro l’utilizzo dell’intelligenza artificiale di Google, che ha riaperto e analizzato nuovamente il “dossier“, trovando subito qualcosa che era sfuggito all’occhio degli astronomi.

Quello che Vogels lascia intuire, insomma, è che l’entrata delle intelligenze artificiali nelle imprese non porterà semplicemente una riduzione dei tempi morti, una ottimizzazione delle attività, una nuova flessibilità senza soluzioni di continuità ad esempio nell’organizzazione dei meeting o nella gestione di ampi quantitativi di informazione. Questo sarebbe semplicemente una evoluzione su una scala lineare di quello che il computer già da trent’anni fa nelle aziende di tutto il mondo. Nessuno oggi sarebbe in grado di gestire logistica, trasporti, magazzino, produzione, approvvigionamento, clientela, rendicontazione senza le iniezioni di automazione dei processi che il computer ha reso possibile. Magari non sembra, perché è un semplice pc in un angolo di una piccola impresa, ma in realtà fa una differenza enorme rispetto al passato.

No, il cambiamento di passo sarà dettato dalla capacità delle macchine di ”imparare“ le soluzioni migliori per determinate classi di problemi, e applicarle. In questo senso lo strumento informatico che potrà ad esempio rivedere tutta la linea di produzione per ottimizzarla, oppure la rete vendita, o il portafoglio clienti, aumenterà in maniera esponenziale la velocità e l’efficienza aziendale, mettendo gli imprenditori e i manager di gestire attività in modi che oggi pensiamo impossibili. Lo sarà in combinazione con una connettività sempre più pervasiva, con un cloud più potente ed economico, con apparecchi intelligenti sempre più piccoli, ma lo sarà anche e soprattutto grazie alla internet delle cose che sta “accendendo” gli strumenti di tutti i giorni e permettendo nuove linee e modelli di business. E lo sarà grazie all’aura di informazioni digitali che ogni giorno di più diventano parte della nuvola di dati che ci circonda e che sta creando un sistema nervoso digitale planetario.

L’incognita principale, il motivo per il quale l’Italia cerca di correre verso l’agenda digitale (anche se spesso sembra che lo faccia con i piedi infilati in un sacco) a tutta velocità, sta nel grande ritardo operativo della pubblica amministrazione, delle aziende e del sistema formativo del paese. Gli Stati Uniti hanno scoperto che mancano più di 600mila lavoratori capaci di utilizzare sistemi di intelligenza artificiale, machine learning o simili, per programmarli con la business logic della loro azienda, addestrarli, selezionare le risposte migliori, utilizzarle giorno per giorno. Le professioni spaziano dai programmatori che in realtà sembreranno più degli educatori con competenze scientifiche per far ”crescere“ algoritmi di machine learning (lo scrittore di fantascienza e programmatore americano Ted Chiang ha scritto un bel racconto lungo sull’argomento: “Il ciclo di vita degli oggetti software”) ai futuri creativi e innovatori capaci di pensiero alternativo a quello forgiato oggi nelle storie. Persone capaci, come dice Jean-Philippe Michel, formatore canadese in trasferta a Las Vegas, «di passare da una mentalità di posto di lavoro e carriera a una invece orientata attorno alle idee di sfide e problemi».

Il cambiamento è molto di più che non insegnare a scrivere righe di codice a una generazione di potenziali ”analfabit” che devono essere convertiti in massa dai nuovi maestri Manzi del digitale. «Il futuro – dice Vogels – non è una invenzione ma una trasformazione. Dobbiamo reinventarci giorno per giorno. Come diceva il vostro Cesare Pavese, dopotutto, “per conoscere il mondo uno deve costruirlo”. Cosa aspettate?»

(pubblicato a dicembre 2017)