[Mostly Weekly ~89]

Dear Frog, This Water Is Now Boiling


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A cura di Antonio Dini
Numero 89 ~ 15 novembre 2020

When analytic thought, the knife, is applied to experience, something is always killed in the process
  – Robert Pirsig


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In questi giorni sono arrivati un buon numero di nuovi lettori di Mostly Weekly: benvenuti. Io sono Antonio Dini e questa newsletter si occupa di cose diverse ma provenienti prevalentemente dal mondo dell'informatica e del digitale. O almeno, questa è la prospettiva. È gratuita, senza affiliazioni, senza pubblicità occulta o meno, e con il livello minimo di tracciamento che la piattaforma di TinyLetter consente (ma sto lavorando per passare ad altro e azzerarlo). Scrivo Mostly Weekly da più di un anno e mezzo ogni settimana per passione, tagliando via una fetta di tempo al mio lavoro vero (quello che mi fa pagare l'affitto e fare la spesa di casa) e alla mia famiglia perché sono convinto che ne valga la pena. Mostly Weekly non ha un modello di business, anche se mi piacerebbe poterci investire più tempo. Voglio però che sia aperta e gratuita, perché credo che possiate giudicare voi stessi il risultato e, se lo ritenete opportuno, aiutarmi a renderla sostenibile con una donazione su PayPal (opens new window) modalità Parenti e amici). Sennò pace, se ci trovate idee stimolanti e meno piegate alle logiche di "inbound marketing" di chi seleziona abitualmente le notizie, sono contento lo stesso. Intanto, un benvenuto ai nuovi e buona lettura a tutti.


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Dear Frog
Il titolo di questo numero 89 di Mostly Weekly, “Dear Frog, This Water Is Now Boiling”, è una citazione contenuta in un articolo che mi ha girato un amico. Il tema è pesante: il tuo computer non è veramente tuo (opens new window)(che è una declinazione di "programma oppure sarai programmato)". L'articolo tocca frontalmente Apple e l'evoluzione del suo sistema operativo per Mac, così come da tempo per quelli di Microsoft e, ammettiamolo, anche di molte piattaforme del mondo open source, se intendiamo l'open source come il nuovo shareware gratuito programmato dai big come Google e sempre più Microsoft. Esattamente come dicevano Richard Stallman (opens new window) e poi Cory Doctorow (opens new window).

Parlando di Microsoft, immaginate cosa sarebbe successo se venti anni fa, sul palco di una conferenza di sviluppatori Python, ci avessero detto che Guido van Rossum, il creatore del linguaggio e della community, nel 2020 sarebbe andato a lavorare per la casa di Redmond. Credete che qualcuno mi avrebbe creduto? Invece van Rossum torna davvero dal suo buen retiro dalla pensione, ma non lo fa per creare un altro Python (opens new window); invece torna perché sa come si gestisce una grande community di sviluppatori. È quello che Microsoft vuole e lo paga per questo: conquistare le menti degli "utenti". E non è l'unica: Google ha assunto portatori sani di softpower del mondo tech e open da anni, a partire da Vint Cerf, papà con Bob Kahn dei protocolli Tcp/Ip.

Intendiamoci: non cerco o scontro o la rivoluzione luddista, non voglio tornare al Commodore 64 e al Motorola 8700 (che peraltro erano bellissimi). Quella che critico tutte le settimane è la mia comunità, la mia tribù, il gruppo (gigantesco) a cui ho scelto di appartenere: quella che si occupa di costruire il mondo digitale. E vorrei migliorarla, fare in modo che viva secondo standard migliori, più elevati, più rispettosi delle persone. Con più empatia, equità e privacy. Su alcune cose ci siamo, su molte altre direi proprio di no. Lo sforzo e le critiche servono per arrivarci. Le utopie non esistono, ma indicano la direzione per costruire mondi migliori.


Gadgets – Foto © Antonio Dini
Gadgets – Foto © Antonio Dini

Importantologica

L'iPhone piccolo, normale, medio, grande
Sto preparando delle recensioni di prodotti: ne faccio poche all'anno ma una di queste è per tradizione quella di uno dei nuovi iPhone. Quest'anno Apple ne ha presentati quattro, più cinque se contiamo anche l'iPhone SE (quello medio con il pulsante home e le cornici abbondanti). È il mio lavoro, lo faccio da sempre. Quest'anno sarà l'iPhone 12 Pro Max, che è una specie di bistecchiera da tasca, da quanto è grande. È difficile capire davvero quanto è grande perché non sto più viaggiando e negli spostamenti ordinari e limitati del lockdown il telefono mi pare più gestibile. Però è proprio grande. E fa anche altre cose notevoli con le tre video-fotocamere e il sensore Lidar. Ancora è presto per parlarne: posso solo dire che la manovra di travaso dal vecchio iPhone 11 Pro a questo, fatta venerdì sera, è stata veloce e indolore. Basta metterli uno accanto all'altro e fare il trasferimento diretto da telefono a telefono. Rimettere a posto le credenziali di un po' di servizi è stato invece più laborioso. E nel caso fate attenzione a non tenere il portacarte magnetico tra l'iPhone 12 e il caricabatterie a induzione MagSafe: non gli fa bene (opens new window).

Nel frattempo, per avere un'idea su questo (e soprattutto sull'iPhone 12 mini) l'unico a cui bisogna affidarsi in attesa della mia recensione è, a mio avviso, John Gruber (opens new window).

Money quote:

I’ve never before been so torn over which new iPhone I like best. I think I prefer the overall experience of the 12/12 Pro size than the Mini size — my typing, in particular, feels more accurate and efficient, and my aging eyes do better with the slightly larger display and content scaling.But if we’re talking about value, about bang for the buck, the iPhone 12 Mini is the standout.

Altre due cose telegrafiche sugli iPhone: Apple ha segretamente aggiunto (opens new window) un pulsante sul vostro iPhone. E voi non ve ne siete neanche accorti. E poi c'è questa fantastica recensione di un iPhone falso da 100 dollari (opens new window). Attenzione: "dentro" è un Android. E funziona pure male. Ma è spettacolare la creatività di chi ha messo assieme una cosa del genere: un mattone al posto dell'autoradio, certo, che però un po' di musica la fa sentire.

Apple Silicon
E ora parliamo brevemente di Mac, perché ho letto un'altra tonnellata di articoli e ho fatto due brief con gli ingegneri di Apple per cercare di capire cos'è questa "rivoluzione". Ne ho scritto sul Post (opens new window), ma anche su Wired (opens new window), sulla Stampa (opens new window) e su Macity qui (opens new window) e qui (opens new window), oltre al podcast con Riccardo (opens new window). (settimana impegnata, per questo ho lavorato un po' meno a Mostly Weekly). Cosa ho capito?

In sintesi: per un decennio Apple ha avuto dei processori per iPhone e iPad che erano nettamente superiori a quelli della concorrenza (ed è ancora così). Quando Apple ha annunciato l'Apple Silicon e poi i processori M1 la prima reazione (in parte anche mia) è stata di pensare a una "iphonizzazione" del Mac, facendo inoltre dei paragoni con l'esperienza di Windows basato sui processori Arm prodotti da Qualcomm. Il paragone è evidentemente sbagliato: è come comparare una Tesla e un monopattino elettrico. I processori Qualcomm fanno i conti con i trade-off tipici dei telefonini: piccoli, molto efficienti ma poco potenti e hanno pochissima compatibilità software. Gli M1 di Apple sono sempre SoC ma sono anche un animale completamente diverso, costruito ad hoc e scalato rispetto ai processori di tablet e smartphone. C'è la performance, il basso consumo e la compatibilità software sia diretta che tramite emulatore (Rosetta 2). L'ecosistema Apple è più "disciplinato" e si sta muovendo in modo più compatto, anche la parte CLi di Homebrew. La transizione mi sto rendendo conto che finora è stata proprio ben curata e orchestrata sino alle finezze.

I primi Mac con Apple Silicon sono praticamente identici fino alla pressoché inutile Touch Bar (solo i Mac mini M1 sono color argento mentre gli Intel sono grigi) e non c'è alcuna opzione per avere dei touch screen nativi. Questo per alcuni è un limite ma secondo me è una mossa estremamente corretta. E il touch screen speriamo non arrivi mai. Le app iPhone/iPad sono nativamente compatibili (se l'interfaccia lo consente) e da adesso le app sullo store possono essere comprate trasversalmente: si paga una app e se ne ottengono fino a tre per tutti i differenti client. Infine, pochi lo hanno notato, ma adesso il contratto di licenza di Apple prevede esplicitamente la leasing colocation (datacenter che danno spazio su propri Mac o su Mac dei clienti). MacStadium sta ancora applaudendo (opens new window) ma questo vuol dire che ci potrebbero essere apertura interessanti su quel fronte (tanti processori piccoli, potenti e che consumano poco).

Ok, finita la parte su Apple. Non è sempre così, credetemi, ma questo è comunque un passaggio che secondo me va capito, perché potrebbe essere un cambiamento di paradigma per tutto il settore.


Yamatologica

Gunkanjima (軍艦島)
L'isola corazzata, nel senso di nave corazzata. L'isola di Hashima (端島), o meglio, visto che in giapponese "-shima" vuol dire isola, l'isola di Ha, è un atollo roccioso che sembra una fortezza e che a un certo punto era diventato il singolo posto più densamente popolato del pianeta ma oggi è completamente abbandonato, con le sue mura e i suoi palazzi a disposizione di gabbiani e altre creature che vivono attorno al mare. Hashima è davanti alla costa di Nagasaki e all'inizio del 900 è stata comprata dalla Mitsubishi, che riteneva si trovasse sulla verticale di un gigantesco deposito sottomarino di carbone. E così effettivamente è. Per questo motivo per un secolo l'isola è stata sfruttata molto intensamente, praticamente diventando il principale distributore di carbone per l'industrializzazione a tappe forzate del Giappone "aperto" e poi imperialista. Nel 1941 l'isola, che ha una superficie inferiore a un chilometro quadrato, produceva 400mila tonnellate di carbone all'anno e nelle sue miniere nelle profondità della roccia, sotto il livello del mare, lavoravano anche e soprattutto i prigionieri di guerra coreani. Alcuni condomini di dieci piani servivano per far vivere i lavoratori giapponesi (fino a seimila) e l'isola era stata ribattezzata "Midori nashi Shima” l'isola senza vegetazione. Finiti gli scavi e abbandonata da Mitsubishi, tra il 1974 e il 2009 l'isola è rimasta completamente deserta. Oggi vengono fatti piccoli viaggi organizzati e dall'estate del 2015 è uno dei luoghi patrimonio dell'umanità dell'Unesco ma il suo fascino da ghost town in mezzo all'Oceano rimane ancora intatto.


Variologica ed eventualogica

Jailbreak my Tesla
Finora c'era gente che rimappava le centraline dell'iniezione delle proprie automobili o poco più. Adesso, con Tesla, siamo entrati direttamente in un altro scenario: hackerare la macchina (opens new window) per riavere indietro le funzionalità che in qualche modo ci appartengono. Rapida spiega: molte funzioni software delle Tesla, tipo la guida autonoma, sono acquisti a parte, "in-app" per così dire. Si acquistano a parte, dopo aver comprato l'auto, e si pagano a parte. Quando uno rivende la sua Tesla, i tecnici dell'azienda la resettano e gli acquisti svaniscono. Così, nasce l'esigenza di fare il jailbreaking e rimettere le cose a posto. Ovviamente questo crea problemi sia alla garanzia che alla gestione della macchina (che è sempre connessa alla casa madre). William Gibson in Canada intanto sogghigna.

Dura lex sed lex Martianis
Cosa succederà quando i privati, tipo Elon Musk con il suo programma SpaceX, apriranno i loro habitat su Marte o su altri luoghi al di fuori della Terra? Succederà che vorranno adottare le loro leggi (opens new window), perché quelle terrestri non si attuano. Ci sono principi di autogoverno che dovrebbero definire la vita quando si va oltre i confini delle giurisdizioni tradizionali. Il tema è fluido, l'ultima volta che è stato affrontato, cinquecento e passa anni fa, erano i giuristi della Corona di Spagna e del Papa che dibattevano sulla natura dei "bipedi parlanti strano" che vagavano in America del Nord e del Sud. Non è finita bene (per i Maya, soprattutto). C'è anche una Earthlight Foundation, la solita non profit fondata da miliardari, che si prepara a rendere autonome le colonie. Se non gli danno retta, Zeon potrebbe far cadere un Side sull'Australia, ma questo è nella One Year War e ancora non ci siamo arrivati. Manca poco però.

Sedici piccoli reattori nucleari: cosa può andare storto?
Nel Regno Unito la Rolls Royce (quella dei motori aerei, non quella delle automobili) ha pianificato di costruire sedici mini reattori nucleari. Il progetto verrà eseguito nei prossimi cinque anni e incasserà 200 milioni di sterline di finanziamenti pubblici. Deve risolvere alcuni problemi, come il fatto che sette dei reattori nucleari tradizionali andranno offline nel 2035, ma soprattutto deve aiutare il Paese ad arrivare a quota zero emissioni nel 2050. I piccoli reattori modulari possono essere usati da soli o assemblati per creare impianti più grandi, abbattendo il costo di produzione delle centrali nucleari tradizionali. Forniscono elettricità a basso costo e possono diventare, secondo i promotori dell'idea, una fonte di export, vendendo il surplus all'Irlanda e alla Francia, ad esempio.

Auto che volano: quante e perché
In questo chilometrico articolo (opens new window) potrete grattare una curiosità forse apparentemente sopita ma alquanto antica: la passione dell'umanità, dal futurismo negli anni Venti del Novecento fino a stamani mattina, per le auto che volano. Ce ne sono in realtà molte e di genere vario: quelle che possono trasformarsi, quelle usate per lavoro ma anche quelle personali, per il tempo libero, per giocare. Questo articolo (opens new window) mette in ordine l'argomento presentando più progetti di quanto non avessi voglia di sapere. Prima che il settore decolli (eheh) occorre però che vengano fatte numerose leggi, che i produttori accettino standard di sicurezza ancora troppo poco specificati e che tutti siamo d'accordo che non bisogna andare a svolazzare attorno agli aeroporti. Io comunque non ho neanche l'auto normale: figuriamoci quella che vola.


Audiologica

Giovanni Monteforte - Italian Jazz Guitarist (opens new window) è un jazzista attivo da anni. Non è mai stato particolarmente noto al di fuori della cerchia degli appassionati, nonostante sia un autore e interprete straordinario. Ha dalla sua un'attività didattica e di pubblicistica notevole, incluso un Manuale di chitarra Jazz molto noto. E articoli affascinanti come questo Il jazz come metafora epistemologica (opens new window). Da leggere e da ascoltare.

La nostra tesi è quindi che il modello empirico del processo jazz, tumultuoso e relativamente breve, si spieghi con la fenomenologia sopra descritta e quindi come questo genere musicale si configuri come una "metafora epistemologica" (Umberto Eco). Questo spiegherebbe come il processo evolutivo del jazz abbia visto, nonostante i salti tra uno stile e l’altro, la conservazione della qualità essenziale!

Norah Jones 11.12.20 (opens new window) perché potrei praticamente trasformare audiologica in una rubrica che segua questa traiettoria pandemica da lockdown musicale unplugged di Norah Jones e andrebbe benissimo: giorno dopo giorno strepitosa.


Ludologica

Appena avevo visto che faceva capolino ho comprato il Game&Watch di Nintendo, la micro-console che riecheggia quelle ai cristalli liquidi degli anni Ottanta. Ci sono voluti due mesi ma, nonostante la pandemia, Amazon ha consegnato puntuale. Il divertimento per grandi e per piccini è con Super Mario Bros 1 (opens new window) e 2 (opens new window).

Se volete giocare con la musica e anzi, lavorare sulle idee della musica e le cose che le danno sapore, nell'infinito mondo dei pipparoli su youtube c'è questo What Is The "Tweed" Sound? (opens new window) di Rhett Shull che intervista Joe Bonamassa (noto chitarrista e collezionista, figlio di commerciante di chitarre) che cerca di spiegare il suono di una serie di amplificatori della Fender più famosi, i "Fender Tweed", che in realtà sono un genere. Si tratta dei vecchi amplificatori coperti di tweed che coprono un arco che va dal 1946 al 1960 con una dozzina di modelli diversi e che hanno ipotecato il suono di fondo (e parte della filosofia) della musica rock & roll, folk, country e old style blues. Tanta roba.


Tsundoku-logica

Qualche lettura sparsa

J(uan) Rodolfo Wilcock, iconoclasta solitario, sembra un personaggio partorito dalla fantasia di qualcun altro. E invece è stato un autore fenomenale, ripubblicato in tempi molto da Adelphi, che ha lasciato un segno indelebile sulla Roma delle Arti e delle Belle Lettere a cavallo del mezzo secolo. Doppiozero racconta la sua storia, o meglio la sua traiettoria romanzesca, in questo articolo di tre anni fa (opens new window),

Robert Capa è un fotografo che ha fatto la storia del reportage e di un certo modo di intendere l'immagine d'azione e il suo colore (anzi i non-colori: bianco e nero), assieme all'amico e socio Henri Cartier-Bresson e agli altri personaggi che si sono raccolti attorno al primo focolare dell'agenzia Magnum. Capa è anche un eroe giovane: morto in Indocina, mentre scattava foto (a colori!), a causa di una mina. È la fine di un gigante del fotogiornalismo, di un personaggio carismatico in costante evoluzione che ci avrebbe sorpreso ancora di più perché si sarebbe trasformato altre mille volte. Ed è la musealizzazione di uno stile fotografico, quello del reportage in bianco e nero, che forse non era tale. C'è una mostra a Torino, nelle sale Chiablese (ora purtroppo chiuse) dei Musei Reali. E ci sono una raccolta di immagini a cura del fratello Cornell Capa, anche lui fotografo, e Richard Whelan in un libro mastodontico: Robert Capa (opens new window) (Phaidon 2001 e in Italia Contrasto DUE) e il catalogo della mostra Robert Capa colore (opens new window) (catalogo Electa). La mostra proviene dall’International Center of Photography di New York e le immagini sono state scelte da Cynthia Young, che firma anche la prefazione al catalogo. Ma come dice Marco Belpoliti, sempre su Doppiozero, "Ora con queste immagini, alcune delle quali veramente molto belle, il canone di Capa in bianco e nero è senza dubbio da rivedere, anche contro quelli che lo rifiutano in questa veste, come è capitato a Gianni Berengo Gardin in una sua visita all’esposizione di Torino: no il vero Capa è in bianco e nero!". La morte improvvisa, quando si è giovani, crea un fraintendimento profondo perché riconduce a un'età della vita negli occhi dello spettatore che è forse scomparsa da tempo ma certamente rimpianta. E alla fine fa pensare che fosse più giusto quello che invece con il tempo sarebbe stato cancellato o comunque trasformato. Il bianco e nero a favore del colore, ad esempio.

Già che ci siamo: anni fa lessi il memoir romanzato, Slightly Out of Focus (opens new window), scritto da Robert Capa durante la guerra, e devo dire che mi piacque molto. Mi colpì anche a livello personale: arrivare a "Mostly" come modo per definire la mia identità e la mia estetica, è stato un percorso che è iniziato più o meno con la lettura del titolo del libro di Capa, con quell'intrigante "Slightly". Se vi capita, è una buona e a tratti anche sorprendente lettura. Rigorosamente da comprare su qualche bancarella, per dargli ancora più gusto.

L'intervista della Paris Review a Kurt Vonnegut (opens new window) è composta da quattro interviste in persona fatte nell'arco di un decennio, sottoposte tutte a feroce editing da parte dell'autore e, alla fine, diventata sostanzialmente un'intervista fatta da Kurt Vonnegut a se stesso. Non ho più tempo e fiato per leggermi tutto un numero (anche) della Paris Review , però quando emergono queste vecchissime chicche dalla rete (Issue 69, Spring 1977), come trattenersi? Ah, leggetevi per certo Mattatoio n. 5 (opens new window).


Algoritmologica

Una volta Google era tutto bianco
Vorreste tornare a quando Google era un motore di ricerca che forniva dei risultati sensati e non affogati da altre informazioni, inutile e pubblicitarie, come accadeva ad esempio nel 2010? Ecco a voi Simple Search (opens new window), estensione per Chrome e Firefox che rimuove tutti i widget di Google e lo teletrasporta indietro di dieci anni almeno. Niente infobox, niente anticipazioni, niente cose che galleggiano. Solo i fottuti risultati, ordinati per importanza dall'algoritmo dei due tizi. Era così difficile?

Git User Switch
Usate git ma avete un sacco di progetti. Siete magari dei freelance, e avete da gestire vere e proprie identità separate sulla stessa macchina. Ecco a voi Git User Switch (opens new window), che permette di cambiare utente, email e chiave con facilità. C'è anche una comoda demo fatta con la solita gif animata per far vedere come funziona.


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Coffee break

Mostly Weekly è una newsletter libera e gratuita per tutti. Se volete supportare il tempo che passo a raccogliere e scrivere le notizie, potete farlo magari offrendomi un caffè con PayPal (opens new window) modo Parenti e amici (che detto così sembra quasi un "in alto le mani, questa è una rapina", però vabbè ci siamo capiti).


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many_requests
Ok, avete fatto quello che farò io: vi siete convertiti al radicalismo digitale, avete messo il vostro sito web dentro il Raspberry Pi, lo avete attaccato al router di casa reindirizzandoci sopra un IP statico, e adesso servite le vostre pagine web statiche artigianali e hipster ("bit fatti a mano", come dice un amico Amish) a quei due o tre che vi seguono. Poi uno vi cita su Twitter, parte la valanga e in un attimo il RPi va in Ddos autoinflitto. A meno che non usiate many_request (opens new window), interfaccia per eseguire più richieste HTTP in modo asincrono. In pratica gestisce automaticamente gli errori, esegue le riconnessioni, fornisce tutto quel che serve comprese le routine per il parallel async, ed è molto leggero.

one-liners
Perché usare degli one-liners in Perl? Perché sono una figata e risolvono un sacco di problemi. A sapere il Perl. Questo libro lean spiega tutto (opens new window).

awk
Dentro Unix (e Linux) ci sono cose che la mente umana può capire e apprezzare solo se si applica un po'. Ad esempio, prendete awk. Conoscete il linguaggio implementato con awk? No? Ci vogliono due ore per impararlo (opens new window) ma dopo, se fate data file manipulation, siete a cavallo.


Pandemiologica

Coronavirus e razzismo
Evidentemente in Italia abbiamo altri problemi, legati a vari tipi di ritardi. Per questo da noi il discorso dei media è diverso, a parte che abbia completamente rimosso i migranti e tratti gli altri Paesi sostanzialmente con sufficienza. Tuttavia, negli Usa c'è riflessione sulla carica razzista della rappresentazione del coronavirus (opens new window). L'Africa? Un puzzle, perché è inconcepibile che ci sia medicina, scienza e attenzione e cura. La capacità di fare cose è attribuita ai bianchi della Nuova Zelanda o della Germania, mentre i neri piombano nell'abisso. Asiatici e mediorientali un po' meno, ma solo se sono nazioni ricche. "Le persone sono o bianche o ricche, altrimenti non esistono".

A Tale Of Two Pandemics
La strategia della Svezia contro il coronavirus non sta funzionando (opens new window). Ma si può fare una riflessione più articolata che non invocare semplicemente la follia di un popolo. Perché quest'epoca ci dovrebbe consentire di capire di più, anche se il discorso sociale si è sempre più semplificato sino a diventare quasi una macchietta. Ecco, per fortuna c'è Fabrizio Tassinari che scandaglia i Paesi del Nord Europa. Con questo A Tale Of Two Pandemics (opens new window) costruisce un paragone tra Svezia e Danimarca, due Paesi simili ma che hanno fatto scelte profondamente diverse, polari, nella gestione della pandemia. Con risultati opposti. Una lettura intelligente.

Il disastro prossimo venturo
La pandemia è un po' la goccia che fa traboccare il vaso, anzi l'evento che rende maistream una nicchia altrimenti per appassionati. Il genere del disaster prepping (opens new window), che poi è una cosa (per ora) molto americana, è iniziato ben prima della prima botta di pandemia a marzo. Negli Usa il governo è sempre meno presente. Il welfare è la parte emergente, la gestione dello straordinario è il vero tema profondo. E sono decenni che singoli cittadini si preparano a qualcosa per il quale il contratto sociale non provvede più. La cosa genera un bisogno a cui la scuola non risponde: si è generata quindi una opportunità di mercato. Questo è il motivo per cui è nato un intero settore industriale che prepara bunker, fornisce istruzioni, pubblica libri, produce armamenti e rifornimenti pensati per l'apocalisse prossima ventura. Come difendersi dagli zombi e dagli sciacalli, passando per lupi e orsi bruni. Il disaster prepping adesso è ufficialmente una cosa, negli Usa. Arriverà anche da noi?

Riti di passaggio
Riti di passaggio – Foto © Antonio Dini

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L'ultima bustina (di Minerva)

Progettare la tecnologia
Immaginiamo un approccio (opens new window) in cui la progettazione delle tecnologie sia concentrata sulla capacità di fare un empowerment di chi le usa, sulla resilienza, sull'empatia, anziché sull'idea di nascondere la complessità. Ne ho già parlato ma lo ripropongo, perché mi è capitato di rileggerlo ieri: questo articolo è veramente bello (opens new window).

I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.


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“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”

– G.K. Chesterton


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