[Mostly Weekly ~83]
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A cura di Antonio Dini
Numero 83 ~ 4 ottobre 2020
A friend of mine in a compiler writing class produced a compiler with one error message “you lied to me when you told me this was a program”
— Pete Fenelon
Pistolotto iniziale: viviamo dentro schemi e dogmi pensati da altri prima di noi. Sarebbe il caso che cominciassimo, con grande umiltà e determinazione, a pensare con la nostra testa. Niente di rivoluzionario: il mio è solo un augurio innanzitutto a me stesso e poi, se volete, anche a voi.
Intanto, buona lettura
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APERTURA
Sulla produttività
Un po' di giorni fa ho fatto una chiacchierata con un amico, e siamo finiti a parlare del concetto di produttività. Niente di eccezionale: come tutti gli amici abbiamo idee diverse ma queste non sono necessariamente un elemento di divisione e quindi non mettono a rischio il nostro rapporto di amicizia. Tuttavia, il tema di quella chiacchiera è lo spunto per quello che sto scrivendo adesso, perché mi ha fatto riflettere sul concetto, ahimè molto diffuso nella nostra società, di produttività: cosa vuol dire, cosa significa. E bisogna aggiungere che ragionare su questo tema è parecchio interessante, soprattutto nella nostra epoca di "produttivismo estremo", con annessi libri, corsi, conferenze e software per aumentare la nostra suddetta produttività.
Così, mi sono chiesto cosa sia la produttività. E non mi è venuto niente di interessante da dire. Allora, ho provato a girare il problema, e capire cosa non sia. E qui le cose si sono fatte più interessanti. Voglio provare a raccontarla anche a voi così, al contrario. Vediamo cioè cosa non è la produttività.
Per me la produttività non è una corsa o una competizione per fare di più. La produttività non è un'opportunità per guadagnare punti e vantarmi del quantitativo di lavoro che faccio o della quantità di tempo che lavoro ogni giorno e ogni settimana. Infine, la produttività decisamente non è una continua valanga di lavoro e di cose da fare e di attività in parallelo e in serie. Non è neanche multitasking. No, proprio no.
Queste le definirei più “produttività da catena di montaggio”. Il mettersi cioè alla catena di montaggio a stringere un bullone dopo l'altro di una infinita sfilza di attività strutturate che ti passano davanti per me non è né un buon modo di lavorare né un buon modo di vivere. Anzi, secondo me non è neanche "lavorare" e tantomeno "vivere".
C'è un problema più profondo dietro a questo tipo di prospettiva sulla produttività. Vivere una vita a mille non è sostenibile. Si arriva a un punto in cui tutto diventa troppo. Un punto in cui la nostra energia e il nostro tempo sono stati sfruttati, tirati, allungati troppo, su un fronte troppo lungo. Un punto in cui la nostra energia e la nostra motivazione svaniscono. Non a caso, per evitare questo, si fanno iniezioni di "engagement" e "gamification" e "incentivi economici" e "corsi di auto aiuto". L'importante è non fermarsi mai. Tuttavia, semplicemente non è sostenibile vivere in questo modo.
Quelli che ci suggeriscono e addirittura ci spingono a legarci alla catena di montaggio della produttività non sembrano capire che le nostre menti e i nostri corpi hanno bisogno di riposo. Non una pausa sigaretta+caffè da dieci minuti ogni tanto, oppure una pausa pranzo un po’ più lunga, addirittura una mezz'ora per un pisolino dopo mangiato: cose così. No. Invece, le nostre menti e i nostri corpi hanno bisogno di un tempo più lungo, sufficiente a farci rallentare sino a fermarci e rigenerarci. Avete presente il periodo di tempo in cui si ferma la coltivazione in un campo? Si dice che quel campo è stato messo a maggese, cioè che sta lì, fermo per un po'. Ecco, serve anche a noi. Senza quel momento di pausa, quell'essere a maggese, tutto quel che facciamo diventa una specie di massa amorfa e sfocata, un pastone di attività una uguale all'altra. Il tempo scompare, sembra evaporato, le stagioni diventano quadratini sul calendario. Si finisce a lavorare perché bisogna lavorare, e si finisce senza avere più una vita personale o professionale.
E quindi, dopo la pars destruens, cos'è allora la produttività? Ridotta all'osso, la produttività è fare quel che bisogna fare nel modo più efficiente ed efficace possibile. Il che potrebbe voler dire anche compiere una sola attività. Oppure compierne diverse. Non importa quanto uno fa. Quel che conta è la qualità. Impegnarsi a raggiungere la qualità in quel che si fa vuol dire automaticamente essere un passo avanti alla maggior parte delle persone, non importa quanto produttive siano o quanto produttive pensino di essere.
Essere produttivi vuole dire anche fare quel che si deve e si vuol fare. E farlo a un più alto livello. Un livello che ci permette di fare il nostro lavoro migliore, il lavoro di cui essere orgogliosi. Non una moltitudine di piccole attività. Un lavoro che ha significato. Un lavoro che ci aiuta a raggiungere i nostri obiettivi.
So che sembra scontato e forse anche banale, ma nessuno sembra pensarci più e quindi mi pare il caso che lo dica io: la produttività non è mai fine a se stessa. La produttività è un mezzo per raggiungere un altro fine. Il fine, cioè lo scopo, è quello di essere in grado di vivere la nostra vita al di fuori del lavoro. Essere in grado di perseguire gli interessi e le passioni che attirano la nostra attenzione. Essere produttivi deve darci il tempo e lo spazio necessari per godere della compagnia della nostra famiglia e dei nostri amici. Essere produttivi ci permette di rilassarci. Tutto questo senza che ci sia una specie di gigantesco orologio contaminuti che grava sopra le nostre teste (e le nostre spalle).
Mi rendo conto che quello che sto scrivendo va esattamente nella direzione opposta a quello che gli esperti della produttività mainstream, la catena di montaggio, sostengono da tempo nei loro libri, nei loro siti web, nelle loro conferenze e nei loro seminari per le aziende. Mi rendo conto che sto dicendo cose che vanno contro la nostra cultura del lavoro costante, dello sforzo costante, dell'attenzione e della presenza costante. Che negli ultimi vent'anni ha preso il sopravvento nel mondo del lavoro e non solo.
Mi rendo anche perfettamente conto che dobbiamo lavorare per vivere. E che è più che legittimo portare avanti anche delle ambizioni di crescita lavorativa e professionale. Di eccellenza, persino. Ma c'è vita oltre il lavoro. C'è vita al di là delle giornate passate a mille, lavorando come se non ci fosse neanche un domani, figuriamoci tutto il resto. E non sto parlando solo di quelli che vivono nell’ingranaggio schiacciasassi di Milano. C'è vita oltre alle "cose da fare" a tutti i costi, a prescindere da quanto siano piccole e insignificanti e di dove siate. A prescindere che quel qualcosa ci aiuti o no a raggiungere i nostri obiettivi. Tutto questo invece accade perché non dobbiamo pensare neanche per un momento che stiamo rallentando, che stiamo rimanendo indietro (la grande paura del decennio!) o che le nostre mani siano ferme, senza far nulla. O che, dio non voglia, uno si stia annoiando e quindi, per definizione (sbagliata, stia buttando via il suo tempo.
Quando penso alle persone che si tuffano volontariamente in questa vita, che si legano da sole alla catena di montaggio della produttività, mi viene in mente una cosa che ho letto parecchi anni fa e che diceva più o meno: "Quando vedi una persona straordinariamente produttiva e ti chiedi come faccia, spesso la risposta è che si tratta di un maniaco del lavoro che non ha una vita".
Ecco, penso che questa semplice idea valga ancora oggi: non siamo noi che non siamo bravi; sono loro che stanno male, e non lo sanno. Get a life!
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Yamatologica
Profondo!
La parola di oggi nel nostro corso tematico di giapponese è Yūgen (幽玄) che è un concetto molto importante dell'estetica tradizionale giapponese e si traduce in realtà a seconda del contesto. Viene dalla filosofia cinese dove voleva dire "profondo" e "misterioso". Ma la critica letteraria giapponese l'ha utilizzato per la poesia waka intendendo un concetto di sottile profondità delle cose che è solo suggerito indirettamente dal poema. È stato poi uno dei dieci stili ortodossi della poesia giapponese indicati nei suoi trattati da Fujiwara no Teika, e oggi è una allusione a qualcosa che va al di là di quel che si può dire: non ultraterreno perché ha a che fare con le nostre esperienze, ma in modo sfumato, coperto, indicibile. Nell'arte occidentale il Simbolismo sarebbe una cosa Yūgen. Parolina facile questa settimana, eh?
Importantologica
Rekka Bellum and Devine Lu Linvega, Hundred Rabbits - XOXO Festival (2019)
In mezzo a un mare di informazioni pressoché inutili o comunque di interesse molto relativo e settoriale, paradossalmente la storia di questi due giovani artisti digitali canadesi che hanno deciso di vivere in mare su una barca – nei precedenti numeri di Mostly Weekly ne avete trovato alcune tracce – è importante e fonte di ispirazione. Sono molto più giovani di me, eppure le lezioni che ho imparato ascoltandoli per mezz'ora nel loro intervento dell'ottobre 2019 all'XOXO Festival (opens new window) sono memorabili e uniche: è difficile sentirsi inadeguati da adulti, ma quando succede vuol dire che si è usciti dalla propria zona di comfort e si stanno imparando cose nuove. Il che, poi, vuol dire essere vivi. (E, sì: è arrivato il momento di mettere un PiHole sul mio router). Intanto: ecco il canale Youtube di Hundred Rabbits (opens new window) e soprattutto la loro home (opens new window).
La storia di Signal
Signal è un sistema di messaggeria criptata end-to-end che è di proprietà e gestito da una fondazione non profit. La sua storia è particolare (opens new window). È nato per avere una serie di cautele e attenzioni sulla sicurezza molto grandi, motivo per il quale è utilizzato da chi deve comunicare in modo sicuro: Edward Snowden lo usa tutti i giorni, per intendersi. Man mano che la fiducia nelle autorità sta declinando, sempre più persone lo usano. Durante le proteste negli Usa e a Hong Kong, “l'app to go“ era Signal. Le funzionalità di privacy della app includono strumenti per offuscare la faccia delle persone nelle foto, server che non salvano le informazioni, chiamate criptate e altro. L'app ovviamente non è molto amata dalle autorità, che non sono state in grado di ottenere le informazioni di cui vogliono entrare in possesso dalla fondazione, perché il servizio non trattiene alcuna informazione sulla rete e non è in grado di intercettarle (end-to-end ricordate?). L'articolo di Time (opens new window) racconta per bene la storia di Signal spiegando perché è stata fatta e perché la privacy è così importante e perché continua a resistere alle pressioni governative (negli Usa). Una nota: il co-fondatore di tutto è Matthew Rosenfeld, conosciuto come Moxie Marlinspike, ed è l'autore del Signal Protocol per la crittografia usato da Signal ma anche da WhatsApp, Facebook Messenger, Skype e Allo, cioè dalla quasi totalità degli utenti di sistemi di messaggeria personale.
L'India vuol mandare al gas il Google PlayStore
A parte il tentativo di lapidare Apple e la guerra Usa-Cina, c'è anche altro che riguarda gli store di app sui dispositivi mobili. Mi riferisco all'India: sessanta dirigenti di aziende indiane hanno fatto una riunione importante (opens new window) e deciso di creare un nuovo store indiano alternativo al PlayStore di Google (quello stesso che Huawei è costretta a sostituire perché è stato vietato da Trump sui suoi telefoni) e questo succede perché, a partire dall'anno prossimo dovranno pagare il 30% di commissione a Google anche per i pagamenti in-app. Intanto, Google ha rimosso una app indiana con un sistema di pagamento perché nel PlayStore si può usare solo il sistema di pagamento di Google. Questo ha creato un bel dibattito su quanto sia lecito il controllo da parte di Google sull'internet indiana. Il 99% dei telefoni smart venduti in India sono Android, Apple praticamente non esiste e quindi non ci sono alternative per gli sviluppatori che vogliano fare app non approvate da Google. Antitrust, dove sei?
Turismo virtuale di Amazon
Mentre tutti parlavano del lettore di mani per fare i pagamenti (opens new window), in realtà Amazon ha aperto anche un nuovo mercato. È quello del turismo virtuale, basato su tecnologie e piattaforme inedite. In pratica, Amazon Explore offre (opens new window) l'accesso a un sistema per poter vivere esperienze virtuali provenienti da tutto il mondo senza dover uscire di casa. Ideale durante le pandemie, anche se l'idea era nata anni prima che ci fossero le attuali restrizioni sui viaggi. Il servizio beta sta per essere presentato ma solo negli Usa. Il prezzo della piattaforma sarà compreso tra i dieci e i duecento dollari a sessione, che dura circa da 35 minuti fino a un'ora. Amazon usa la sua piattaforma cloud Aws per far funzionare tutto: si sente e si vede ma soprattutto i clienti possono salvare immagini delle immagini per scaricarle in seguito, a mo' di souvenir del viaggio virtuale. Quello che l'azienda sta costruendo è anche una rete di relazioni con guide in carne ed ossa in tutto il mondo e, quando si ricomincerà a viaggiare sul serio, Amazon pare abbia voglia di entrare nel settore del "turismo in persona", per così dire. Quindi, Prime diventerà un modo per fare anche le vacanze?
Dream-shaping
Il mese scorso era il chip nel cranio dei maiali che legge gli impulsi elettrici dei loro cervelli. Questa settimana è la tecnologia che manipola i sogni delle persone (opens new window). Si chiama "Dormio" ma a me piace di più l'espressione "dream shaping" e l'hanno fatta gli instancabili scienziati del Mit di Boston, che devono essere tantissimi, fare la qualunque e soprattutto avere un ufficio stampa con le contropalle, se mi scusate il francesismo. In pratica, con Dormio gli scienziati hanno creato un sistema composto da una app e da un apparecchio per il tracciamento del sonno. Usando la tecnica "Targeted dream incubation" (TDI) i ricercatori si sono attivati nella prima fase del sonno, lo stato ipnagogico, per indurre uno stato paragonabile a quello (raro) del "sogno lucido" (si dice proprio così). Con il TDI i ricercatori iniettano delle informazioni che il dormiente incorpora e trasforma nel contenuto del sogno. I meccanismi per controllare il sonno e i sogni non sono per niente chiari, e non si sa neanche quali vantaggi possa portare una tecnologia di questo tipo. Se però state pensando a un film (opens new window) avete ragione.
Mind-reading
Altro giro, altro cervello, altra tecnologia. Questa volta sono scienziati di Helsinki (evviva!) che lavorano sulla fase diurna dell'attività celebrale. In pratica, usando l'intelligenza artificiale per riuscire a fare tutte le elaborazioni e correlazioni che non sono deterministiche, sono riusciti a trovare un sistema (opens new window) per trasformare gli impulsi elettrici - cioè i segnali – del cervello in immagini che rappresentano quello che la persona sta pensando. E quello che la persona sta pensando deve essere una immagine, però. Il machine learning rende il sistema più adattabile e flessibile. La rete neurale è del tipo generative adversarial network ed è stata addestrata usando gli impulsi di persone che stavano esplicitamente visualizzando differenti aree di alcune immagini e poi validando il risultato del computer. I risultati sono molto buoni e mostrano che la tecnica è molto efficace. Stanno leggendo la fottuta mente dei loro pazienti!
Tremate, gli alchimisti son tornati
Per secoli gli alchimisti hanno studiato come modificare le proprietà della materia, trasformando una cosa in un'altra, senza alcun metodo scientifico ma ricorrendo a pensiero sapienziale ed esoterico. Adesso, utilizzando impulsi laser ben mirati, gli scienziati riescono a rimodellare intere molecole e le nuvole degli elettroni negli atomi (opens new window), dando loro specifiche proprietà. Questa tecnica riesce praticamente a fare sì che qualsiasi cosa possa sembrare o comportarsi come un'altra cosa. Si possono trasformare materiali normali in semiconduttori, per esempio. Inducendo altri tipi di trasformazione, questa tecnica ha il potenziale di creare nuovi computer basati, anziché sui soliti semiconduttori, su conduttori ottici e renderli quindi super potenti. Permette anche di studiare materiali isolandoli meglio ad esempio rendendo gli altri materiali attorno temporaneamente invisibili. Il limite di questa tecnica è la capacità di controllo nell'interazione tra luce e materia, altrimenti le possibilità sono pressoché infinite.
In Corea del Sud si lavora al 6G
Ma se il 5G era l'arma di fine mondo, la tecnologia perfetta, sulla quale spendere tutti i nostri soldi per trasformare industria, sanità, vita, politica e tutto il resto, perché in Corea stanno lavorando a tutta birra (opens new window) alla realizzazione del 6G? Forse perché ogni dieci anni viene fuori una generazione nuova di trasmissione dati senza fili? Forse...
Variologica ed eventualogica
Il ThinkPad che si piega
Nelle mie peregrinazioni professionali sono stato un po' di volte negli Usa e in Giappone a incontrare gli autori della serie ThinkPad originale di Ibm, che poi è stata venduta a Lenovo nel 2005 ed è continuata a crescere sommandosi alla line-up di computer portatili dell'azienda cinese. Lenovo ha mantenuto la struttura precedente, entro certi limiti, e c'è una vera continuità fra i vecchi e i nuovi ThinkPad (anche se i puristi a questo punto si alzano e se ne vanno urlando "No!!"). Per questo osservo sempre con attenzione cosa succede in quel mondo a parte, una specie di sottoinsieme molto compatto tra i portatili Pc. L'ammiraglia della serie è il ThinkPad X1 che adesso diventa Fold (opens new window). Lenovo ha creato un modello con schermo Oled da 13 pollici che costa 2.499 dollari prima delle tasse e ha la tastiera staccabile che permette di assumere varie posizioni. Processore di undicesima generazione, Intel Lakefield, due porte Usb-C, 5G opzionale, 8 GB di Ram e 1 Tb di SSD, batteria da 50 Wh. Pesa circa un chilogrammo ed è piuttosto strano. Il video (opens new window) fa capire che il concept di questo apparecchio è un gusto acquisito: deve interessare (e bisogna toccarlo con mano). Invece, Lenovo ha presentato anche altri ThinkBook (le versioni low cost) incluso un nuovo Yoga (diventa un tablet) e soprattutto il ThinkBook X1 Nano, che è un ultraleggero molto interessante anche perché avrà come opzione Ubuntu a bordo. E contrastare quello che Apple sta per presentare (vedi sotto Microsoft). Da provare.
Microsoft Para Bellum
Microsoft non vuole la pace, vuole dominare il mondo. Sembrava in ginocchio, poi ha trovato la strada del cloud e adesso sta vincendo tantissime battaglie con la prospettiva di essere di nuovo rilevante in un ambiente che invece le doveva essere totalmente alieno. Bravi! I Borg dopotutto integrano la tecnologia e la cultura delle civiltà che assimilano. Adesso l'azienda si prepara a incassare il "colpo" dei Mac con Apple Silicon secondo me tra le altre con due mosse: la prima è l'annuncio che Windows 10 su Arm (opens new window) avrà (entro l'anno) il supporto per l'emulazione dell'architettura x64, sostanzialmente dicendo che gli utenti potranno usare le app 64 bit per Intel. La seconda è il Surface dei poveri, il Surface Laptop Go (opens new window), schermo da 12,4 pollici, lettore impronte digitali (Windows Hello non ci funziona), 4 GB Ram e 64 GB SSD, il tutto a 549 dollari prima delle tasse. L'ho chiamato dei poveri per i 64 Gb di archiviazione, ma l'obiettivo è semplice: resistere al prossimo MacBook con Apple Silicon che probabilmente avrà la scocca del MacBook Retina 12 pollici (su cui stamattina sto scrivendo). Inoltre, Microsoft ha sempre in canna il nuovo Surface Pro X con Microsoft SQ2 (opens new window), cioè la sua variazione del processore Adreno dello Snapdragon 8cx Gen 2 di Qualcomm e la velleità di dire che i processori "se li fa da sola anche lei" (come Apple). Cioè, in termini di marketing «Like the SQ1, the SQ2 is a custom processor developed in coordination with Qualcomm Technologies and is typically clocked higher and is more performant than the standard Snapdragon 8cx». A me interessa parlare una volta di come mai Microsoft è riuscita a tornare e perché sta vincendo di brutto in alcuni settori strategici: mi prendo un appunto.
Justin Sun
Vince il titolo di personaggio controverso dell'anno Justin Sun (opens new window), e di concorrenza ne ha avuta parecchio. È un milionario cinese diventato tale grazie alle criptovalute e si è comprato BitTorrent, iniziando a combattere una guerra commerciale tutta da solo (perché il personaggio è famoso per il suo stile di leadership diciamo "non convenzionale" e per le sue trovate roboanti per fare marketing). BitTorrent è l'azienda dietro al protocollo utilizzato tutt'ora per lo scambio di film, telefilm, musica e software. L'azienda però fornisce la tecnologia p2p ma sostiene di non avere alcuna colpa. Sun ha un'azienda che si chiama Tron e fa da porto sicuro per varie criptovalute: lui è stato accusato di aver copiato altri progetti e di avere un modo di fare business alquanto discutibile e sopra le righe. Cosa se ne farà di BitTorrent? Tutti si aspettano che faccia scintille, magari appiccando anche qualche incendio.
Martin Baker Club
Una vita fa un amico "dentro" le cose militari e dell'aviazione mi aveva parlato del verbo "to martinbaker" e del club a cui appartenevano i piloti che riuscivano a lanciarsi da un aereo in caduta. È un club doloroso perché lo "scoppio" che tira fuori dall'aereo è sempre traumatico e può non andare benissimo e riempire di lesioni. Ma la Martin Baker ha trovato la soluzione giusta a un problema che ai vecchi tempi degli F104 vedeva morire per problemi di manovra o incidenti meccanici molti più piloti di quanto oggi non sarebbe immaginabile e tollerabile. L'altro giorno la Marin Baker ha salvato il pilota numero 7.633 (opens new window): un F35B Joint Strike Fighter dei Marines americani è entrato in collisione con un aereo cisterna per il rifornimento in volo, un KC-130J Hercules. Il tanker ha fatto il suo bravo atterraggio di emergenza, mentre l'F35B è andato giù veloce come un aeroplanino di carta e si è schiantato in una palla di fuoco ripresa da dei tizi a terra. Il pilota si è salvato. E il video ricorda anche che gli aerei non "cadono", perché vanno veloce, piuttosto perdono l'assetto e vengono giù appunto come aeroplanini di carta, oppure si rompono e scendono come uno sciame di meteoriti infuocato. Brrr.
Fughe di petrolio
Quando si rompe una petroliera, o sciacqua illegalmente le sue cisterne (e succede molto spesso ancora oggi) il problema vero e togliere il petrolio dal mare. E non è facile. Nuove tecniche stanno emergendo (opens new window): spugne con una superficie fatta di nanostrutture al carbonio che possono attrarre e legare le molecole del petrolio e assorbirne fino a trenta volte il loro stesso peso. Oppure "sapone magnetico", che è composto da sali ricchi di ferro e che poisi dissolvono. Questi saponi rispondono ai campi magnetici e possono essere utilizzati per le procedure industriali di pulizia ambientalmente sana. Infine robot autonomi che vanno a giro navigando in autonomia e raccolgono il petrolio con queste e altre tecniche, in contesti che sono pericolosi o estremamente scomodi per gli operatori umani.
Il tatuaggio che mancava
Negli anni passati sono stati sviluppati dei tatuaggi basati su nanotecnologie. Questi tatuaggi (opens new window) possono segnalare i cambiamenti nella biochimica delle persone e avvertire ad esempio chi li porta che è esposto a un livello pericoloso di radiazioni, o segnalare la presenza eccessiva di raggi UV. Quest'ultimo sistema utilizza delle nanocapsule di plastica che si attivano con i raggi UV (la nanocapsula serve a preservare il materiale che si attiva con i raggi UV quando uno si lava). I tatuaggi di questo tipo, una volta applicati, sono invisibili: diventano visibili con i raggi UV (colore: blu). I ricercatori stanno lavorando anche ad altri tatuaggi sensibili alla temperatura per fare dei "termometri da pelle". Poi ci sono i tatuaggi con un po' di elettronica sopra, che servono per registrare segnali elettrici del nostro corpo (sensori per chi si ammala) o per controllare apparecchi esterni (telecomandi). Non sono tatuaggi permanenti, tutt'altro, e possono usare delle batterie. Gli inchiostri dei tatuaggi tradizionali non sono regolati, e quindi non si conoscono gli effetti di lungo periodo su tutti i tipi di persona. Per quanto riguarda gli effetti di questo tipo di impianti sulla pelle, gli effetti di lungo termine sono ancora tutti da scoprire.
Transistor al carbonio
Una alternativa ai computer di oggi, senza cambiare la "logica", è quella di passare dal silicio al carbonio (opens new window). Le performance in teoria potrebbero aumentare radicalmente. Finora era difficile lavorare a circuiti di carbonio a causa dei limiti della tecnologia, ma nella università della California stanno creando fili fatti interamente in carbonio. Questo tipo di nanoribbon ("nanonastro") di grafene è progettato per condurre gli elettroni tra nanoribbon semiconduttori all'interno di transistor fatti completamente di carbonio. I nanoribbon da un punto di vista chimico permettono di accedere a una serie di strutture che sono impossibili con i nanotubi. Comparando le proprietà dei materiali, i computer basati sulle tecnologie al carbonio utilizzano molta meno energia dei computer con tecnologia di silicio e sono molto più potenti.
Il chip che si suicida
Una molecola stirata in una sottilissima pellicola (opens new window) che copre i semiconduttori di un chip. Se viene illuminata con la luce ultravioletta (un flash di luce blu) cancella tutti le informazioni che contiene. Inoltre, dopo una settimana cancella tutto in ogni caso. Una volta cancellata, la memoria può registrare di nuovo altri dati. Ideale per il trattamento e la cancellazione sicura dei dati.
Audiologica
The Blues (opens new window) di William Shatner (aka il capitano Kirk della Enterprise, per intenderci). L'arzillo ottantenne è una presenza tuonante su Twitter (opens new window). Ha inciso un altro disco. The Blues (opens new window). Lo fa da tempo. E tutte le volte sanguinano le orecchie di chi l'ascolta. Però li vende. Straordinario. Ma non lo ascoltate. Perché sanguinano le orecchie.
Greatest Hits (opens new window) di Buddy Holly ci serve per tornare ai fondamentali. Charles Hardin Holley, che poi i discografici "semplificarono" in Buddy Holly (cambiando in maniera surreale il cognome), ha piantato uno dei primi e importanti paletti nella musica "rock and roll", antesignana del rock e quindi di tutto quello che è venuto dopo. Soprattutto, non so perché ma ancora oggi è piacevolissimo da ascoltare, prodotto alla grande e potente dal punto di vista sonoro.
Ludologica
Genshin Impact
A voi è mai capitato di giocare a qualcosa per l'ambientazione, cioè per guardare il panorama? A me si, varie volte. Con il primo e il secondo Tomb Raider, con Sonic Nights e Panzer Dragoon, con Soulcalibur, con vari Call of Duty e i tre BioShock, con un Colin McRae Rally, decisamente con Super Mario 64 e, man mano che ci penso, mi rendo conto che forse più della metà dei giochi "immersivi" che ho fatto li ho fatti soprattutto per potermi guardare intorno. Tra questi ce ne sono alcuni che hanno segnato un'epoca, come The Legend of Zelda: Breath of the Wild per Nintendo Switch. È un gioco spettacolare, immersivo, nel quale ci si può perdere e quasi non tornare più. Sulla falsariga di questo Zelda c'è un altro gioco made in China che cita e ammicca in maniera visibile al campione di Nintendo, ed è Genshin Impact, disponibile tra le altre cose per iOS/iPad (opens new window). È gratuito con acquisti in-app per andare avanti, e la meccanica di gioco alla fine non mi interessa. Quel che è spettacolare è la vista.
Panta rei (sort of)
Una trovata che mi lascia perplesso (dovete vedere il video) per rispondere a un problema reale. La realtà virtuale (cioè quella con gli occhialoni che non ti fanno vedere più niente dell'esterno ma solo il mondo virtuale dove temporaneamente "vivi") pone problemi di deambulazione importante. O ti sposti senza muoverti, e allora ti viene la nausea, oppure prendi un cavo lungo e vai a sbattere contro tutti i mobili di casa. Esiste una soluzione, che non è avere una casa più grande o andare a giocare in un ambiente che mappa 1:1 i livelli di Half-Life Alyx (nella demo all'interno dell'articolo linkato qui sotto). Ed è usare gli stivali creati da Ekto VR, cioè gli Ecto One (opens new window). Gli stivali sono una cosa alquanto complicata anche meccanicamente e permettono di camminare senza però muoversi realmente, perché le ruote ti riportano indietro. Sono fatti di fibra di carbonio, quindi leggeri (dice Ekto) e si muovono in varie direzioni. Hanno anche i freni per impedire che scorrano quando l'utilizzatore rimane fermo in piedi. La demo nell'articolo fa capire molto bene come funzionano: pensate se li avesse avuti Michael Jackson per fare il suo passo strisciato all'indietro (che ha sicuramente un nome, ma ahimè lo ignoro).
Tsundoku-logica
Franco "Bifo" Berardi
Futurabilità (opens new window) è un libro duro, ma giusto. «Un lungo periodo di violenza, guerra e demenza ci aspetta», dice l'autore. Ogni giorno ne abbiamo la conferma: da una parte, il razzismo istituzionalizzato della politica mainstream; dall'altra, le shitstorm (letteralmente «tempeste di merda») che hanno trasformato la cultura online in una rabbiosa successione di risentimenti; sullo sfondo, la precarietà economica ed esistenziale di varie generazioni condannate a saltare da un lavoretto all'altro, mentre intanto dilagano l'ansia, la depressione e il consumo di psicofarmaci. E però, «se vogliamo trovare una via d'uscita, dobbiamo guardare la bestia negli occhi». Ed è quello che tenta Bifo nel suo saggio più impietoso: una possibilità ancora esiste. Per attivarla però è necessario che la generazione iperconnessa della Silicon Valley Globale prenda coscienza che, senza solidarietà e coscienza condivisa, nessun futuro è possibile. E alla fine, sembra quasi di intuire un antico invito: «neuroproletari di tutto il mondo, unitevi!». Altro che Massimo Mantellini: un po' di sostanza, infine.
Ruby one-liners cookbook
Quando sono fatti bene adoro questo tipo di libri, anche se virtuali. Sul mio scaffale ho sempre un vecchissimo Wicked Cool Shell Scripts (opens new window). Questo Ruby one-liners (opens new window) fa parte della stessa categoria: alle volte la riga di comando è molto più produttiva ed espressiva dell'interfaccia grafica e non serve usare un software o programmarne uno per fare quel che si vuole fare. L'idea qui è che Ruby sia uno strumento per rimpiazzare i vari grep, find eccetera, oppure che si possa integrare per fare cose specifiche. Non conosco Ruby ma il presupposto è che sia più facile da imparare della sintassi di vari comandi della riga di comando e che abbia il valore aggiunto di un motore per la gestione delle espressioni regolari particolarmente ricco e potente, una libreria standard e un buon numero di librerie di terze parti intelligenti e consolidate.
Algoritmologica
Contribuire all'open source da esordienti
Bello il software open: gratuito, libero, fatto sempre meglio. Richiederebbe che tutti contribuiscano, ma molte persone non sono in grado e altre invece vorrebbero ma non hanno le competenze di processo anziché tecniche. Questo articolo spiega (opens new window) come si possono fare dei contributi a progetti open partendo dal fork del repository, clonare il progetto, committare i cambiamenti e aprendo delle richieste di pull. È importante leggere il codice di condotta e le linee guida per i contributi prima di iniziare a contribuire al progetto. Ho amici che sono macchine da guerra della programmazione, professori universitari, ma che hanno visto i loro contributi (sicuramente di alto livello tecnico) respinti perché non seguivano le linee guida. Dura lex sed lex.
Automatizzare
Quando ho letto questa notizia (opens new window), cioè che GitHub ha reso disponibile il suo strumento per la scansione del codice dei repository prima del deployment per trovare vulnerabilità e cose del genere, ho pensato che fosse una cosa da dire al volo. Hanno fatto comunicati stampa e tutta la fanfara che l'appartenenza a Microsoft consente, ma in realtà il concetto di fondo è più ampio e traguarda un mutamento profondo del codice e del software. Mi prendo un appunto e ne riparliamo (ogni volta che lo dico mi prendo un appunto: la lista sta diventando lunga, lo so, ma ne riparliamo, fidatevi).
Diagrams
Questo strumento open source (opens new window) era stato pensato per prototipare nuove architetture di sistema senza utilizzare strumenti di progettazione. Gli sviluppatori possono disegnare l'architettura di un nuovo sistema cloud o descrivere e visualizzare una architettura esistente. Tutto in Python. Diagrams (opens new window) supporta Aws, Azure, Alibaba Cloud e vari altri fornitori. Supporta anche la presenza di nodi on-premises, SaaS e i principali framework per la programmazione e i principali linguaggi.
Live Server
Un rinfrescante, vecchio trucco. Mjpeg è lo standard (opens new window) per inviare uno stream di frame jpg come se fosse un video ed è utilizzato da molte webcam, videocamere di sicurezza e da molti Raspberry Pi per fare video a distanza. Può essere trasformato in un servizio che aspetta per sempre dei frame da inviare nello stream. Anche se non è il modo migliore o più pulito per fare le cose, è un hack che funziona molto bene su tutti i tipi di browser. C'è anche la possibilità che sia utile per altri tipo di applicazione, ad esempio per tracciare i dati quando i frame smettono di essere inviati oppure per mandare la pubblicità senza usare Javascript.
The Hitchhiker’s Guide to Compression
Solo per il titolo merita: la guida alla compressione per autostoppisti (opens new window) è un doc su GitHub che serve per imparare gli algoritmi di compressione. È un modo per rendere la rete più veloce senza bisogno di creare una infrastruttura nuova: l'arte della compressione sta diventando un'arte perduta, perché non c'è più scarsità di banda, ma è uno sbaglio. Ci sono pochissimi progetti attivi e sicuramente la compressione non è più un tema mainstream. I benefici tuttavia sono enormi, oltre a quello della velocità.
Coffee break
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La coda lunga
I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.
“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”
– G.K. Chesterton
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