[Mostly Weekly ~140]
The Music Issue
A cura di Antonio Dini
Numero 140 ~ 7 novembre 2021
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Intanto, buona lettura.
One good thing about music: when it hits you, you feel no pain
–– Bob Marley
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Editoriale
L'era del CD
Alla faccia che l’era del CD è finita; le orchestre sinfoniche (Berlino, Bavarian) hanno creato le loro etichette e rilasciano cofanetti come ai tempi belli. Anche cofanetti monstre come questo (opens new window) di 68 CD dedicato all’ottimo Mariss Jansons. Più che morto il CD è diventato una cosa di nicchia ma tendenzialmente durevole, almeno finché la classica dura e pura regge. A me pare buono, perché in fin dei conti è infinitamente meglio del vinile e come abbiamo detto tante volte non riesco a capire il feticismo per una cosa che al decimo ascolto si mette a friggere. Fine dell'editoriale.
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Audiofilia
L'impianto dell'audiofilo
Chris Frost è un ragazzo della mia età ("ragazzo" è un simpatico eufemismo) che vive a Middlewich, nel Cheshire (come il gatto). Si occupa di audio da parecchio tempo. E ha un'idea molto chiara sul perché un impianto audio da "audiofilo" non debba necessariamente costare tanto.
Mi scrive:
Innanzitutto, definiamo audiofilo. Troppo spesso sento questa parola usata quando le persone pensano agli audio-snob. Invece, essere un audiofilo significa semplicemente porsi la domanda "È questo il miglior suono che posso ottenere con i miei soldi?" Questo è tutto. La quantità di denaro non è il fattore chiave. Ti faccio un esempio personale.
A metà degli anni '90 ho iniziato frequentare un ragazzo di nome Phil. Possedeva un sistema giapponese, uno di quegli impianti modulari dell'epoca, stack, da mille sterline. Una torre nera a sei piani di Pioneer o Kenwood, credo.
Quella era la sua idea del top che si può avere in casa come apparecchiatura stereo di alta qualità. Ne era veramente orgoglioso: la prima volta che ci siamo visti dopo che l'aveva comprato gli ha fatto un sacco di piacere mostrarmelo. Ho fatto tutti gli ooh e gli aah obbligatori del caso e ho annuito più volte in segno di assenso. «Usi molto il giradischi?», gli ho chiesto. Mi ha risposto: "Ho alcuni LP ma preferisco il CD".
Il mio stereo non assomigliava per niente a quello di Phil. Erano uno stereo da separatisti britannici: ogni pezzo una marca nazionale diversa. Un giradischi da 300 sterline, un lettore CD da 100 sterline, un amplificatore da 150 sterline e gli altoparlanti, anche quelli da 150 sterline. In totale, 300 sterline in meno rispetto al sistema di Phil e un mix di marchi: Linn (l'Axis, non l'LP12) per il piatto, Cyrus Audio come amplificatore, Kenwood per il CD player, Tannoy come altoparlanti. Non c'erano due cose della stessa marca, non c'era nessun equalizzatore grafico scintillante, nessun registratore a cassette con inversione automatica doppia e nemmeno le centinaia di watt del suo sistema. Il mio aveva solo 40W in tutto.
Alcuni mesi dopo io e la mia ragazza abbiamo fatto una festa a casa mia. Sono venuti anche Phil e signora. Dopo che la maggior parte degli ospiti se n'è andata, eravamo rimasti più o meno in sei o sette seduti a rilassarci chiacchierando con un po' di musica sotto. Il mio impianto era a una certa distanza da dove eravamo seduti, quindi quando ho deciso di passare dal CD al vinile nessuno mi ha visto metterlo su. Un po' di Sade si adattava bene all'atmosfera. Sono tornato dai miei ospiti e abbiamo continuato a chiacchierare e bere.
Circa 20 minuti dopo ho detto «Scusatemi, devo andare a girare il disco». Phil mi ha guardato scioccato e ha detto «È un LP?!»
Il mio sistema costava meno del suo e suonava meglio, solo perché lo avevo costruito ponendomi la domanda dell'audiofilo «È il meglio che posso ottenere con questi soldi?»
Gli altoparlanti per audiofili non sono necessariamente costosi in modo astronomico. Possono esserlo, in particolare quando il processo di produzione è complicato, o richiede tempo, o coinvolge materiali e processi al limite del possibile. Ma i buoni altoparlanti non devono essere oscenamente costosi per superare le aspettative della persona media.
Phil si è seduto per ascoltare per bene il mio stereo e ha chiesto «Perché i miei CD non suonano così?" Ho spiegato che il suo sistema faceva molte cose che il mio non faceva: più sorgenti audio, più funzionalità, la duplicazione da nastro a nastro ad alta velocità, l'equalizzazione, il telecomando, ecc.
Il mio invece faceva una cosa sola: ottenere il massimo da qualsiasi cosa venisse suonata. Non avevo controlli di tono o preset di equalizzazione. Diavolo, non c'era nemmeno un controllo del bilanciamento sull'amplificatore. La differenza principale era che ogni pezzo del mio stereo era stato selezionato da una rosa dei due o tre prodotti migliori della categoria e scelto ascoltandolo per come si fondeva con il resto del mio sistema. Ho comprato un sistema da audiofilo, ed era più economico del suo impianto hi-fi.
Multimedia
È il numero musicale, no? Quindi un po' di musica: un'oretta di Dark Blues (opens new window) e un'oretta di Chill Blues (opens new window). Potete ringraziarmi; prego.
Sto iniziando a giocare con la musica binaurale, che è un tipo di registrazione stereofonica fatto con due microfoni distanziati a simulare la posizione delle nostre orecchie nello spazio per avere un effetto spaziale realistico. Mettetevi le vostre cuffiette preferite e poi ascoltate questo Glass Mountain (opens new window) e il MMA Trio che suona un po' di jazz (opens new window) oppure una cosa da maniaca: una ragazza strana (opens new window) che sussurra e sfrega le dita e le unghie.
Let's love (opens new window) del dj francese David Guetta e di Sia è una canzone dei tempi antichi e moderni. Antichi perché è la storia di Romeo e Giulietta, Montecchi e Capuleti. Moderni perché è anche la storia di un metaverso.
Ho visto il nuovo film di Wes Anderson: The French Dispatch (opens new window). È un gran film, ve lo consiglio. Qui, intanto, raccontano un po' di cose (opens new window) su cosa caratterizza i film di Anderson.
In questo episodio del podcast (opens new window) della famosa giornalista Kara Swisher torna il suo mentore e già capo della tecnologia del Wall Street Journal, Walt Mossberg, per parlare dei "peccati di Facebook". Si chiedono se questo nuovo scandalo sia davvero il momento "Big Tobacco" per l'azienda e perché Sheryl Sandberg sia ancora seduta al fianco di Mark Zuckerberg. Si parla anche di storie di leader tecnologici, con nanetti divertenti oltre che sullo stesso Zuckerberg anche su Elon Musk, Bill Gates e Steve Jobs. Un pezzo di storia del tech che non c'è più e forse un altro pezzo che sta per andarsene.
Avevamo già fatto una capatina nella New York Coty del passato, ma vorrei tornare e metterci ancora il naso con documenti video di persone qualunque: piani sequenza con sfocatone (opens new window) girati nel 1988 da un matto. Un giro in treno nel 1987 a Coney Island (opens new window) con protagonisti che sembrano usciti da un racconto di Jay McInerney. Un po' di New York City agli inizi degli anni Ottanta (opens new window) (avete presente il montone?). Il Natale del 1976 girato in Super 8 (opens new window). Uno spettacolare giro nella New York City di metà anni Trenta restaurato, accelerato e pure colorato (opens new window).
Yamato
Shin-hanga (新版画)
La parola di questa settimana per il nostro dizionario tematico di giapponese, che come avrete visto oscilla di qua e di là senza un'apparente direzione, proprio come accade nel flusso verticale delle condivisioni social, è Shin-hanga (新版画) letteralmente "nuove incisioni d'immagini", cioè nuove xilografie. È il nome di un movimento artistico nato all'inizio del Novecento piuttosto interessante, perché in occidente è stato l'ispiratore della ligne claire, la "linea chiara" creata da Hergé, che tutti noi conosciamo per via delle Avventure di Tintin. Il segno di Hergé è un tratto grafico privo di tratteggi e sfumature: una linea chiara e precisa, molto leggibile, di grande pulizia e morbidezza. È frutto certamente del genio dell'autore belga, ma dietro c'è una fonte di ispirazione. Una ispirazione divergente, nel senso che oggi la ligne claire è un segno post-moderno, a volte ironico, comunque molto diffuso e molto apprezzato, segno di un controllo da virtuosi dell'immagine e della sua campitura.
Invece, lo shin-hanga nasce in laboratorio, per così dire, all'inizio del Novecento per interessamento di commercianti d'arte europei che volevano monetizzare il senso di esotismo romantico che era nato ed entrato nel vecchio continente grazie al japonisme. Il movimento del japonisme aveva idealizzato non solo un certo immaginario visivo ma anche le stampe soprattutto dello ukiyo-e, che da noi sono viste come un capolavoro raffinatissimo di arte mentre in Giappone vengono percepite come un prodotto industriale fatto in serie. Per capire cosa intendo, tra noi c'è ancora un sentimento paragonabile se pensiamo a quelle gozzaniane "belle stampe" ottocentesche che sino a un po' di tempo fa si appendevano in casa perché non ci si poteva permettere dei quadri e/o non si capivano stili figurativi astratti.
L'arte shin-hanga nasce durante i periodi Taishō e Shōwa e mirava appunto a questo: riprendere i temi artistici della ukiyo-e dei periodi Edo e Meiji (stiamo parlando dell'arco di tempo che va dal 1600 al 1800) per guadagnarci ancora con le esportazioni. Si rimette in moto una filiera produttiva basata sul sistema hanmoto, che era la divisione dei ruoli e del lavoro usata per la produzione degli ukiyo-e: un artista (hanga-ka), un incisore (hori-shi), uno stampatore (suri-shi) e infine un editore (hanmoto, da cui il nome del sistema). Lo vediamo come arte ma è in sostanza artigianato pre-industriale che mira al massimo a creare una specie di cottage economy. A me, da fiorentino, fa venire in mente gli imprenditori dell'abbigliamento che sono sostanzialmente artigiani ma vengono "rivestiti" da artisti.
L'approccio "artistico" è un altro, che infatti incquesto settore i giapponesi chiamano "stampa creativa" (sōsaku-hanga, 創作版画). Nasce negli stessi anni e prevede una produzione realizzata su tre pilastri, tre principi ineludibili che definiscono l'artista: disegna da sé (jiga), incide da sé (jikoku) e stampa da sé (jizuri). L'idea insomma è che se una persona intende esprimere se stesso, deve essere il solo creatore della sua arte. Richiama il concetto di auteur nato grazie alla critica cinematografica degli anni Cinquanta grazie tra gli altri anche a François Truffaut, e che serviva a definire la dimensione artistica del prodotto film (la Nouvelle Vague) contrapposto all'approccio industriale dello Studio system di Hollywood.
Tra parentesi, l'idea di autorialità è un concetto fantastico per molti motivi, ma qui rileva di più perché lo viviamo come fortemente naturale mentre è in realtà un gigantesco costrutto culturale, qualcosa di totalmente inventato e anche piuttosto recentemente (l'idea stessa di autore in Europa nasce nel Settecento) che viene costantemente alimentato per motivi squisitamente economici (l'industria culturale). Il "piccolo" business dello shin-hanga è durato solo una stagione o due: già subito prima della guerra era stato ridimensionato dalla politica giapponese perché la sua estetica e il suo obiettivo economico per l'esportazione cozzavano con l'estetica dello Shintō imperiale e con la politica estera del Giappone imperialista. Oggi lo shin-hanga è praticamente scomparso, nonostante qualche tentativo di ritorno negli anni Sessanta e Settanta del novecento.
Invece, è vivo e lotta insieme a noi lo sōsaku-hanga perché, mentre prima della guerra era considerato un'eccentricità priva di valore, dopo il secondo conflitto mondiale questo stile ha guadagnato visibilità e profondità. Infatti, il valore della prova artistica "assoluta" del suo unico auteur si è sempre più allineato alla sensibilità sia giapponese che occidentale del nostro momento storico. Certo, se guardate le opere di questi artisti (che spesso nascevano come illustratori e artisti ad esempio per libri o cose simili) e il fumetto o altri tipi di illustrazioni "industriali" la somiglianza è notevole. Ma non dobbiamo dimenticarci che, a partire dagli anni Sessanta, sia in Occidente che nel resto del mondo (e quindi anche in Giappone) con la Pop art e l'Arte concettuale, il confine tra belle arti e mass-media è diventato sempre più indefinito. C'è spazio anche per gli auteur nipponici che riprendono degli stilemi consolidati per esprimere un nostalgico e ideale japonisme. Invece, il meccanismo produttivo dietro allo Shin-hanga, cioè il buon vecchio hanmoto, ritorna per produzioni culturali "artigianali" che esaltano il valore delle cose fatte a mano da vecchi artigiani e giovani apprendisti. Esattamente la stessa retorica che si trova anche da noi quando andiamo a caccia di cose "genuine" o "fatte come si facevano una volta". Nondimeno, cose commerciali.
Eventuali
Diritto alla riparazione
Vi siete mai chiesti perché anziché ripariamo i pezzi delle cose che si rompono, li sostituiamo? L'elettronica e il diritto alla riparazione è solo un aspetto della cosa, quello più visibile. Ma dietro, soprattutto per il settore automotive e l'elettronica di consumo a casa, c'è anche un altro problema, più importante. Prendiamo un meccanico specializzato in riparazioni in un garage, per esempio. Se la sua tariffa è di 120 euro all'ora e gli ci vuole un'ora per diagnosticare il danno a un alternatore (per esempio), rimuoverlo, metterne uno nuovo e verificarlo, e l'alternatore costa 100 euro, il totale (numeri inventati ma realistici) è di 220 euro. Se invece si vuole riparare l'alternatore, ci vuole un kit che mettiamo costi (prezzo inventato ma realistico) 50 euro, più una seconda ora di lavoro, per un totale di 290 euro da pagare per la stessa riparazione. Non ha senso che un cliente spenda più del doppio quando tutto può essere fatto per meno e la nuova parte viene fornita con una garanzia annuale anziché quella limitata della riparazione. Come nasce però il kit per ricostruire il pezzo rotto? Semplice, dagli scarti delle precedenti sostituzioni: ci sono fabbriche in altre parti del mondo che assumono bambini o poco più pagandoli alcuni centesimi al giorno per ricostruire le parti rotte che poi rivendono a centinaia di euro. Il diritto alla riparazione apre la porta a scenari inquietanti.
Un mondo di chitarre tutte uguali
Una chitarra elettrica è solo una chitarra elettrica, no? Non ci sono particolari esigenze sonore come quelle che caratterizzano le chitarre acustiche, sostanzialmente uguali tra loro a parte le dimensioni. Perché non dovrebbero esserci chitarre elettriche di tutte le fogge e forme possibili? La risposta è una interessante prospettiva di come funzionano i mercati e cosa privilegiano (suggerimento: il profitto).
C'è una buona ragione se la maggior parte delle chitarre elettriche hanno tutte lo stesso stile o la stessa forma (più o meno). Ed è che ci sono solo pochi stili che vendono. Quando dico "vendere" intendo in grandi quantità. Non è che non si riescono a trovare chitarre che sembrano drasticamente diverse da una Stratocaster o una Les Paul. Certo che si può. Tuttavia, c'è un mercato abbastanza limitato per questo tipo di chitarre. Il fatto è che fare chitarre è un'attività imprenditoriale come un'altra. L'obiettivo è fare soldi. Al di fuori dei relativamente pochi design popolari, non è possibile trovare un altro design dall'aspetto sostanzialmente diverso che venda quasi quanto i big.
Ci hanno provato, non fraintendetemi. Hanno davvero cercato di realizzare chitarre che fornissero un'alternativa significativa ai modelli più popolari. Ci sono anche riusciti. Le "nuove" chitarre avevano un aspetto decisamente diverso. E hanno anche venduto in modo diverso. Hanno venduto molto, molto meno.
Non è che mancano modelli differenti di chitarra. Invece, manca un mercato per un numero infinito di differenti modelli di chitarra. I produttori hanno scoperto cosa piace alla gente ed è quello che fanno e continuano a fare. È così che rimangono in attività. A volte lanciano un nuovo modello che alla gente non piace, e ancora una volta si ritrovano a tornare a fare quello che funziona. Tornano cioè a fare quello che vende. È semplice, molto semplice. L'aspetto "cool" delle chitarre elettriche è legato alla storia di alcuni modelli, ai periodi storici, ai musicisti che le hanno suonate, alle emozioni che ci legano a quella musica e quindi a loro. Jimi Hendrix non ha mai suonato una chitarra elettrica headless come la Steinberger. Brad Pitt non ha esordito in Thelma e Louise allontanandosi di spalle con un paio di bermuda a fiorellini. È molto semplice.
Meth
Damien, 36 anni, è il rampollo di una potente dinastia immobiliare di Hong Kong che ora lavora nell'industria musicale. I suoi capelli sono raccolti in una crocchia da uomo, e ha occhi scuri e penetranti e una struttura dinoccolata e muscolosa, forse spiegata dai suoi hobby: cacciare alci con arco e frecce, surfare onde giganti a Tahiti e gareggiare in gare di ultramaratona. Brandee, 41 anni, agile, con caldi e invitanti occhi marroni. Non sono hippy pieni di patchouli. Sono articolati, attraenti e tatuati ad arte. E si fanno un sacco di droghe. Ecco (opens new window) la prima coppia non ufficiale della scena psichedelica della California meridionale.
Tsundoku
Ammirate e fate girare tra amici e colleghi con prole. Un crowdfunding per una nuova collana di libri splendidamente illustrati per bambini e adolescenti (di tutte le età). Ottima idea regalo. Tra l’altro “L’arte di allacciarsi le scarpe” è un poema illustrato in versi su Fukushima quindi è per adolescenti fino a 100 anni! A chi sta a Fukushima credo piacerebbe. L’autore ha già scritto un libro bellissimo con un poema sull’Ilva. Insomma, gli piacciono le aree industriali. Da vedere.
A dodici anni dall'uscita, la casa editrice Dario Flaccovio ripubblica un romanzo di Loriano Machiavelli intitolato Sarti Antonio e il malato immaginario. È un romanzo italiano, uno di quelli che chiamo "i gialli del campanile" perché il protagonista seriale è il solito investigatore "localizzato" in una particolare città. In questo caso Bologna. La cosa interessante però è che questa particolare riedizione ha quindici illustrazioni del grandissimo Magnus. Se ne parla su Fumettologica (opens new window).
Coffee break
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Al-Khwarizmi
Meet me at the clock
Una delle cose più difficili che mi capiti di fare è fissare a distanza il giorno e l'ora per una riunione alla quale partecipano più di quattro persone. Ci sono vari strumenti online per farlo, per fortuna: oltre al classico Doodle (opens new window), c'è anche Crab Fit (opens new window) e l'ottimo When2meet (opens new window).
Hardware is cheap
Sono usciti i nuovi MacBook Pro 14 e 16 di Apple (opens new window). Sono strumenti costosi e potenti (opens new window), pensati per attività professionali fatte ad alto livello: musica, video, fotografia (opens new window), video. E programmazione. Se ne parla poco, ma ritengo che il numero di programmatori che hanno bisogno di computer portatili potenti (opens new window) sia nettamente superiore a quello delle altre categorie combinate. Questa è la mia premessa per osservare che poi, ogni volta che Apple presenta nuovi prodotti, viene fuori un po' di polemica sul prezzo, giudicato troppo elevato. La realtà? Il vero costo sono le persone, non i computer. Sono i programmatori che costano cari (opens new window), anche perché in teoria (opens new window) ne servono pochi ma molto buoni, perché devono fare cose notevoli. Il ruolo dell'hardware è semplificare le cose, renderle più semplici e veloci: esattamente quello che questi nuovi computer stanno facendo (opens new window).
VS Code in da claud
Premetto che non sto usando VS Code (opens new window) da un po': sia perché ho scaricato VS Codium (opens new window), la versione open source de-microsoftizzata dell'editor di codice fatto da Microsoft, sia perché in questo periodo mi trovo a usare sempre più spesso Nova di Panic (opens new window) (only Mac, sorry) o BBEdit di BareBones (opens new window) (ibidem). Per le cose che devo fare (front-end web, alla fine) bastano e avanzano. Però è comunque notabile il lavoro che è stato fatto da Microsoft per trasformare VS Code: la versione "cloud" (opens new window) è un passo in avanti notevole, cementifica (opens new window) il punto di forza dell'azienda che già con l'acquisizione di GitHub e l'inserimento di pezzi del kernel di Linux dentro Windows 10 ha seriamente ipotecato una parte del mercato dei programmatori. Vscode.dev è veramente una piccola rivoluzione (opens new window). Ah, questo tipo di articoli finiscono sempre con un po' di cose forse utili: dieci estensioni di VS Code (opens new window) da acchiappare subito e le altre estensioni (opens new window) che Jack Major considera "strettamente necessarie".
Imparare Vim per l'ultima volta
In piena par condicio, perché non vi concedete un'ultimo tentativo per provare a imparare Vim, l'editor degli editor? La storia di Vim è poesia (l'avevo scritta qui) così come è leggendaria la ripidità della sua curva di apprendimento. Ma fear not: ecco il corso dei corsi (opens new window) che gratuitamente e brevemente vi insegna quel che dovete sapere e forse vi farà finalmente imparare a usare Vim, una volta per tutte. Forse.
Una modesta proposta
La musica strutturata
Ho un problema con la musica contemporanea. Non che non mi piaccia (cioè: alcune cose sì, altre no), ma è il modo con il quale si ascolta. Il fatto è che a me non piacciono le playlist. Cioè, da ragazzo mi piacevano le "cassettine", i mix-tape che si facevano alle medie: la cassetta che mi regalò Alberto con Fleetwood Mac e Simon & Garfunkel, oppure quella di Marilena che aveva un mondo tutto suo e molto femminile, oppure quella di Simone (che adesso si fa chiamare Simon senza la "e" perché ora vive in Svizzera e là "Simone" è un nome femminile) che mi ha fatto scoprire Michael Jackson, Hall & Oates e Billy Joel, o quella di David Bowie giratami da Roberto R. Corsi (yes, il poeta non-più-residente prima della sua svolta "classica").
Tuttavia, da buon completista, ho sempre preferito una "customer journey" dell'ascoltatore (cioè io) diversa. L'idea che mi piace è quella ben delimitata dell'album. Invece, la playlist infinita, le millemila canzoni appiccicate una dopo l'altra tritate e fatte sgorgare da Napster-Gnutella e adesso dalle infinite rogge di Spotify, non mi piacciono. E le playlist sono solo metà del problema: l'altro è legato alle edizioni, ammesso che questa parola abbia ancora una parvenza di significato per chi produce musica. Amazon, Apple e Spotify rivendicano milioni di canzoni, ma hanno solo una piccola parte di quello che era disponibile su CD e che a sua volta era ancora meno rispetto a quello che c'era sui dischi di vinile. E oltretutto sono tutte extended, remixed, remastered e via dicendo. Se uno volesse ascoltare l'album uscito per esempio nel 1973, non c'è versi.
Sto diventando vecchio, mi lamento, lo so. Però sono contento se un po' sta tornando il CD. Io continuo a comprarli (raramente, ma capita) e secondo me sono ancora uno dei modi più sensati per ascoltare la musica. Invece, se aprite una app tipo Amazon Music e scegliete la sezione “classica”, trovate una schermata di Bocelli, Il volo, Einaudi e Allevi. Per trovare un Beethoven dovete surfare per qualche minuto. È l'impalcatura tradizionale che sta cedendo di brutto al crossover. Ormai son tutte canzonette. Peraltro la “romanza” tipo quella di Tosti la scrivevano anche i compositori eccelsi, e passava a repertorio dei grandi tenori quando con l’età calavano di forza. Però, ripeto, ora direi che siamo al crossover col pop. Questa romanza (opens new window) per esempio è di Donizetti ed è famosa perché la cantava anche Giuni Russo. Vabbé. Fine del rantolo finale.
I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.
“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”
– G.K. Chesterton
END
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