[Mostly Weekly ~139]

The Halloween Issue


A cura di Antonio Dini
Numero 139 ~ 31 ottobre 2021

Benvenuti all'Halloween Issue di Mostly Weekly, la newsletter settimanale che esce quando è pronta e questa settimana è quasi pagana (come la festa celtica pagana delle zucche forate). Ricordo che Mostly Weekly è aperta a tutti, senza pubblicità o affiliazioni.

C'è una novità! Da questa settimana le donazioni possono essere effettuate solo con PayPal (opens new window). Se mandate il grano è molto apprezzato, soprattutto se lo fate nella modalità "tra privati" che non viene balzellata da PayPal. E ricordatevi che anche io, come voi, ho questi costosi hobby di mangiare e dormire (al coperto) da mantenere.

Intanto, buona lettura!


When you say “no” to most things, you leave room in your life to throw yourself completely into that rare thing that makes you say “HELL YEAH!
— Derek Siver



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Editoriale

Numero breve perché ho chiuso un paio di progetti e da venerdì sto lavorando a spron battuto su varie altre cose. Tra l'altro, sto provando lo stesso computer che ha testato John Gruber di Daring Fireball (opens new window), cioè il nuovo MacBook Pro 14. Siccome in un giorno e mezzo è impossibile farsi un'idea (tranne che ci sto scrivendo sopra questo numero di Mostly Weekly e la tastiera è comoda e la batteria notevole e lo schermo pazzesco e l'audio favoloso), lascio la parola a lui, pescando dalla sua recensione (opens new window):

I confronti con il Titanium PowerBook G4, che Apple ha prodotto dal 2001 al 2003, sono inevitabili. È strano come questo nuovo MacBook Pro sembri il diretto discendente di quel design classico. È anche sorprendente quanto sia forte l'affetto della gente per quel PowerBook di 20 anni fa, soprattutto perché è stato prodotto solamente per due anni circa: una breve finestra tra l'era della plastica che lo ha preceduto e l'era dell'alluminio unibody in cui siamo ancora. Anodizzando "bene" la tastiera del nuovo MacBook Pro in un nero profondo e puro, Apple sembra tentarci a fare questo confronto con il Titanium PowerBook. Che dire: é una macchina molto bella.

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Autunno alle porte
Autunno alle porte ~ Foto © Antonio Dini

Cose serie, mica cianfole

Il social un tempo conosciuto come Facebook
Penso e scrivo da parecchio tempo che Facebook è un'azienda la cui cultura interna e il cui ruolo sociale sono tossici. Un'azienda predatoria composta ai vertici (e non solo) da sociopatici che si comincia a ritenere abbiamo commesso varie illegalità. Ho già scritto che è uno sbaglio essere iscritti, è uno sbaglio partecipare, uno sbaglio investire su quel social e che quelli che fanno cultura o politica là sopra sono sostanzialmente matti. Non intendo insistere ulteriormente: se fate pubblicità su Facebook smettete per boicottarla. Rilancio qui, invece, quanto ha scritto il ceo di Patagonia, azienda della quale non solo non ho interessi diretti o indiretti ma dalla quale non ho mai comprato nessun prodotto. Premesso questo, Ryan Gellert ha ragione al 100% quando scrive:

29 ottobre 2021 - Nel giugno 2020 Patagonia ha interrotto tutte le pubblicità a pagamento sulle piattaforme di Facebook, perché diffondono odio e disinformazione su temi come il cambiamento climatico e la nostra democrazia. Ancora oggi, dopo 16 mesi, continuiamo a sostenere il boicottaggio.

Questa decisione ha colpito duramente il nostro business e le organizzazioni non profit ambientali che sosteniamo, le cui campagne beneficiano della risonanza veicolata dai social media che noi finanziamo e utilizziamo. Ma abbiamo imparato ad adattarci. Siamo più intelligenti e attenti rispetto al modo in cui facciamo crescere la nostra comunità come risultato di questo stop alla pubblicità.

I documenti interni di Facebook rilasciati nelle ultime settimane hanno reso incredibilmente chiaro che i vertici conoscono il danno irreparabile causato ai loro tre miliardi di utenti dalla loro irresponsabilità e gli effetti corrosivi che essa ha sulla società stessa. Sanno quali misure dovrebbero adottare per mitigare tali danni, eppure hanno ripetutamente evitato di cambiare.

Crediamo che Facebook abbia la responsabilità di assicurarsi che i suoi prodotti non provochino danni, e finché non lo faranno, Patagonia continuerà a negare i suoi investimenti pubblicitari. Incoraggiamo altre aziende a unirsi a noi per spingere Facebook a dare priorità alle persone e al pianeta rispetto ai profitti.

Ryan Gellert, CEO, Patagonia

Io mi sono cancellato in tempi non sospetti, come si dice, e ne ho scritto qui. Alla fine di questo numero di Mostly Weekly trovate invece quel che ho scritto per Macity sui metaversi e l'idea di "meta".


Yamato

Shōwa (昭和)
La parola di questa settimana per il nostro dizionario tematico di giapponese è Shōwa (昭和, 1926–1989, "era della pace illuminata"). La distinzione temporale è importante, perché parliamo in questo caso dell'era dell'Imperatore Hirohito (裕仁) e non di quella dell'Imperatore Hanazono (花園天皇, Hanazono-tennō) che è medioevale e si colloca dal 1312 al 1317 (breve ma intensa). Hiroito è stato il 124mo imperatore del Giappone, il più longevo della storia di quel Paese e uno dei più lunghi al mondo. Hiroito ha governato prima un Impero (1926-1947), poi ha firmato un'inconcepibile resa (per i giapponesi) annunciandola per radio e facendo così sentire la sua voce al popolo in quella che è stata chiamata "la trasmissione della voce del gioiello", cioè dell'imperatore, ovvero Gyokuon-hōsō (玉音放送), e quindi ha governato un "semplice" Stato dal 1947 sino alla sua morte nel 1989. Nel 1979 Hirohito era l'unico monarca al mondo che poteva fregiarsi del titolo di "Imperatore". La sua è una storia notevolissima anche per lo standard delle già notevoli storie di molti imperatori giapponesi. E il nome del suo regno, come sappiamo, è quello che dà il nome al periodo storico che governa. Per cui si parla di Era Shōwa per indicare i 63 anni di regno di Hiroito. I giapponesi contano il tempo così e dividono la storia in queste ere. C'è da leggere un manga interessante che racconta proprio questa storia.

Lascio la parola a Giulia Pompili, giornalista del Foglio, per spiegare cos'è:

J-Pop, uno dei principali editori di manga in Italia, ha da poco pubblicato “Showa: una storia del Giappone 1926-1939” di Shigeru Mizuki. E' un'opera molto importante perché Mizuki, uno dei più importanti mangaka del Giappone moderno, era anche uno storico (è morto nel 2015 a 93 anni). L'edizione italiana di "Showa" l'ha tradotta uno degli yamatologi più bravi che abbiamo in Italia, Marco Zappa, che ha scritto anche la postfazione. Sulla sua pagina Facebook dice: "È un’opera importante perché affronta la storia del Giappone del ‘900 da un punto di vista personale integrato ai fatti storici — la guerra soprattutto, anche se quella è protagonista dei volumi successivi — restituendo un quadro affascinante e, per quanto possibile, divertente di un periodo drammatico della storia del paese".


Letture per impallinati

Gallia est omnis divisa in partes tres
Vi siete mai chiesti come mai gli antichi romani erano così bravi a vincere le guerre di conquista o di controllo all'epoca di Giulio Cesare? In una sorta di SuperQuark dei poveri ci pensa questo articolo di Medium (opens new window) a spiegare tutto.

All you need to know
La vita gira male? Siete escluse o esclusi dai contesti dove invece vorrete essere le reginette o i reginetti? Il vostro narcisismo non vi sovviene più come un tempo e invece appare uno spleen da collina degli stivali? Ecco a voi l'articolo di Medium (opens new window) che vi spiega tutto su come fare: è perché prendi le cose troppo sul personale, baby.

‌All the goodies
Ve lo giuro, volevo prendere in giro anche questo articolo di Medium (opens new window) su come configurare la vostra shell con Oh My Zsh! ma sono finito a leggerlo sul serio e a mettermi a smanettarci e insomma, alla fine è scritto anche lui con questo tono da spot della Coca-Cola (o della Pepsi) ma almeno ci sono cose utili, per quanto totalmente inutili, se mi perdonate il paradosso.

Fichissimi!
Cinque libri da leggere e rileggere che l'autore di questo fa-vo-lo-so articolo (opens new window) su Medium non può fare a meno di consigliare a tutti. Ma proprio a tutti: Anything You Want (opens new window) di Derek Siver, Steal Like An Artist (opens new window) di Austin Kleon, Choose Yourself (opens new window) di James Altucher, Il gabbiano Jonathan Livingston (opens new window) di Richard Bach e l'immancabile Outliers: The Story of Success (opens new window) di Malcolm Gladwell. Capolavori assoluti, mai più senza.


Tsundoku

Kowloon è il nome di una parte della penisola che sovrasta l'isola di Hong Kong. In italiano un tempo la chiamavamo "Caolun" e questo fa capire meglio anche la pronuncia (la trascrizione è più aderente a come "suona" il nome cantonese). Vuol dire "nove draghi", che poi sono gli otto picchi montuosi che guardano la baia. Il nono drago è simbolicamente l'imperatore. Kowloon venne ceduta assieme a Hong Kong e al resto dell'area al Regno Unito con la Convenzione di Pechino del 1860. In affitto dal 1898 per la parte dei Nuovi Territori, Kowloon è stata "restituita" alla Repubblica popolare cinese nel 1997 con tutto il malloppo di Hong Kong e dintorni.

La Città di Kowloon (Kowloon City) ruota attorno a un'anomalia storica e urbana che oggi non esiste più: la Kowloon Walled City, cioè la Città murata di Kowloon. C'è un libro fotografico che ho comprato anni fa (scrivendone su L'Impresa), realizzato da due fotografi che si sono trovati per caso a seguire sostanzialmente lo stesso progetto e hanno deciso di unire le forze: Greg Girard e Ian Lambot. Il libro è meraviglioso, costa un botto (ma ci sono 320 foto) e si intitola City of Darkness - Life in Kowloon Walled City (opens new window). L'altro è un manga, che sta uscendo adesso in Italia (e in Giappone è ancora in corso). Si intitola Kowloon Generic Romance (opens new window) e l'ha realizzato Jun Mayuzuki: tratta la storia di due giovani agenti immobiliari che operano "eroicamente" nella città murata.

Cos'è la città murata? Oggi non esiste più, è stata rasa al suolo e al suo posto esiste un parco. Per un periodo di tempo è stata una anomalia internazionale: sorta sulla "terra di nessuno", né la Cina popolare né il Regno Unito se ne sono voluti occupare. Anziché una baraccopoli è sorto un coacervo di palazzi ad appartamenti mal fatti e buttati uno sopra l'altro, con condizioni igienico-sanitarie assurde, commerci e funzioni non regolate (dentisti senza licenze, prostitute, rapinatori e criminali), un governo di fatto gestito dalle Triadi che hanno imposto la loro pax con la violenza, perdite d'acqua ovunque e l'impossibilità di vedere il sole da questo cavernoso e non regolato luogo, e miriadi di negozi e negozietti dove si poteva trovare di tutto, compresi i migliori noodles di tutta Hong Kong (almeno, così si diceva).

In una superficie pari a poco più di due ettari (meno di tre campi da rugby) vivevano 33mila persone, con meno di due metri quadri a testa (ma le strutture si estendevano ovviamente in verticale). L'avamposto cinese della dinastia Song trasformato in pezzo di terra che avrebbe dovuto essere gestito da Pechino ma che era di fatto circondato dagli inglesi, lo rese il campo per rifugiati migliore di tutta l'Asia. Soprattutto durante gli anni Cinquanta molti cinesi in fuga dalla Repubblica popolare trovarono rifugio qui e intanto il Governatore stabilì la politica "hands off": non interferiva se non c'erano attività politiche. Liberi da entrambi i lati, i rifugiati fecero ricorso al potere organizzativo e informale della loro mafia e iniziarono a strutturarsi.

Oltre ai rifugiati vanno a vivere nella città murata anche i colpevoli di bancarotta per evitare la prigione, e quelli che vogliono fuggire da reati o sfruttare la mancanza di leggi. Nasce la leggenda, molto occidentale, di un posto favoloso, una sorta di isola dei pirati, romantica e pericolosa, metafisica. È un'idea molto occidentale, come ricorda Sharom Lam (opens new window). Da noi molto amata: è uno degli sfondi preferiti da Stephen Gunn, alias Stefano Di Marino, per le avventure del suo Professionista Chance Renard. Come in questo romanzo d'azione Morire a Kowloon stampato da Segretissimo in coppia nella serie Il Professionista Story al n. 5 (opens new window) con Vendetta per vendetta e tutt'ora reperibile in ebook.

Nel 1984 entrambi i governi (cinese e britannico) hanno deciso che il posto era imbarazzante e andava fatto fuori, e nel 1992 sono stati sfrattati e rimborsati tutti i residenti, la città è stata piallata e al suo posto è stato costruito un parco al cui interno, su un piccolo piedistallo, c'è un modello pressofuso della Kowloon Walled City.


Al-Khwarizmi

Replatforming Sono anni che pago per il piano "cicciotto" di Dropbox. Il servizio è stato a lungo notevole: sincronizzava i documenti e le cartelle pescandole dal disco, senza problemi e complessità esposte, mentre altri servizi pensano ai servizi più sofisticati (posta, preferenze, segnalibri, contatti, foto). Poi Dropbox ha cominciato a fare le bizze, ad andare di qua e di là, con una app sempre più entrante e impallante di risorse, con richieste continue di fare anche archiviazione, backup, sincronizzazione delle foto o altro. E intanto ha sistematicamente ridotto le funzionalità dei piani a pagamento proponendone di nuovi più costosi e con le funzioni tolte dagli altri. Ma che volete? Usavo Dropbox per avere una versione di sicurezza di tutti i miei documenti direttamente nel cloud, utile sia nei casi di incidente che se devo saltare rapidamente da una macchina all'altro. Adesso salta fuori (opens new window) che fino a metà 2022 non faranno una app nativa per Apple Silicon: hanno avuto 18 mesi per pensarci e lavorarci. Se non ce li togliamo di torno adesso, quando? A passare a Google Drive non ci penso neanche, quindi benvenuto iCloud Drive: dimostrami che non sei quella ciofeca che tutti dicono tu sia. Forza!

Coffee break
Mostly Weekly è una newsletter libera e gratuita per tutti. Se volete supportare il tempo che passo a raccogliere e scrivere le notizie, potete farlo mandandomi dei soldi direttamente su PayPal (opens new window) (che detto così sembra quasi un "in alto le mani, questa è una rapina", però vabbè ci siamo capiti).


Dini Reloaded

‌Cos’è veramente Meta di Zuckerberg e perché i metaversi falliscono?
(con la benedizione di Macity, ripubblico qui l'articolo che ho scritto ieri (opens new window))

Mark Zuckerberg con un videoclip preregistrato ha presentato due cose: la sua idea di metaverso per il futuro di Facebook e poi il cambio di nome dell’azienda in Meta. Ci sono un po’ di cose che si possono dire al riguardo, partendo dalla scelta fatta per il nome “meta” che è sia l’iniziale di “metaverso” che il prefisso di greco antico – così ha detto Zuckerberg – che indica “beyond”, cioè “oltre”.

“Meta” in Greco Antico
In realtà il significato è più complesso e semplice al tempo stesso. Il significato originale di “μετα” (“meta” in greco classico) è “dopo” e non “oltre”, ma i fraintendimenti sono numerosi e ci sono stati già nell’antichità.

Ai tempi di Aristotele, ad esempio, i libri non avevano titoli come i nostri, chiaramente stabiliti e costruiti per attirare un potenziale lettore-acquirente. All’epoca erano raccolte di scritti indicati con una parola chiave o con intere frasi. Fu il filosofo Andronico di Rodi, che visse quasi tre secoli dopo Aristele, riordinando le opere del maestro a chiamare “Metafisica” il trattato che veniva in ordine “dopo” quello della “Fisica”. Quindi, il significato era quello di “libro dopo il libro sulla fisica” (e infatti è più orientato a questa disciplina che alla non ancora esistente Metafisica).

Invece, una interpretazione sviata, da cattivo studente del liceo classico, ha trasformato questo nel fortunato nome per qualcosa che non esisteva: la "metafisica", qualcosa che va al di là della fisica. Una parola nuova, difficile, intrigante, soggetta a molteplici interpretazione. Una parola nuova per un concetto nuovo. Ed è il significato che lo stesso Zuckerberg vuole. È importante saperlo, come vedremo tra un attimo.

I significati successivi e molto suggestivi di "meta", che esistono sia in italiano che in inglese e nelle altre lingue occidentali moderne, ci ricordano che le lingue sono vive e cambiano. Per questo "meta" comincia a significare “oltre”, “al di là” e questi significati nuovi arrivano infatti per cercare di creare parole composte che esprimono idee nuove che sono state pensate per la prima volta. Alcune volte pensate male.

Essere “meta”
Nel tempo, per traslato un discorso “meta” indica qualcosa che va al di là della cosa stessa e che è quindi autoreferenziale. La meta-matematica, oppure utilizzare dei metalinguaggi (linguaggi che operano a un livello più elevato dei singoli linguaggi reali, descrivendone il funzionamento senza essere linguaggi veri e propri essi stessi) e cose del genere.

Volete sentirlo dire in un modo diverso? Non è soltanto complicato: è volutamente vago e complicato. Meta, infatti, a partire da una serie di fraintendimenti e arricchimenti di significato molto spesso casuali, è una di quelle parola dal significato ondivago, un bersaglio costantemente in movimento, che si presta bene a trasformare e rendere confusa qualsiasi cosa, trasferendo su chi la sente l’idea che è lui che non ha capito, che non ne sa abbastanza, che non è preparato. Proprio quello che vuole Zuckerberg cambiando nome alla sua azienda e investendo nel metaverso.

La bolla del metaverso
Perché adesso siamo entrati in piena “bolla” da metaverso, abilmente orchestrata dalla potenza di fuoco della macchina per le relazioni esterne di Facebook, che è comunque un colosso enorme che sa come usare i social. Nella Silicon Valley è pieno di startup e giovani aspiranti imprenditori o impiegati delle aziende più cool del settore tech che parlano di “meta-questo”, “meta-quello” e soprattutto metaverso. Peccato che siano trent’anni che il termine viene definito e studiato: ci sono dietro libri su libri dei grandi maestri negli studi sulla sociologia della comunicazione che hanno dato gambe e profondità a questo termine.

Il metaverso è tutt’altro che uno sconosciuto. È un fallimento molto ben conosciuto: un’idea letteraria (da Snow Crash a Ready Player One passando per Matrix ma volendo anche ai libri sul cyberspazio di William Gibson, Bruce Sterling, Paul Di Filippo e decine di altri) che sappiamo avere un valore molto particolare e “visivo”, che deve rendere sia nella prosa che sul grande schermo. E che in pratica non funziona. Almeno, non come nel cartone animato che Zuckerberg ha fatto vedere. Perché Zuckerberg ha fatto vedere una animazione preregistrata e doppiata, tipo film Pixar, e non una animazione in tempo reale né tantomeno qualcosa di interattivo per chi era apparentemente coinvolto.

La storia dei metaversi
I metaversi sono qualcosa che si fa vedere con aggettivi allusivi e un periodare fecondo, se si tratta di un romanzo, oppure con immagini spettacolari se si tratta di un film di fantascienza. Nessuna delle due esperienze è però quella adatta a una esperienza immersiva realmente intrigante. Ci sono decine di studi, portati avanti sia guardando le comunità virtuali dei forum e di Second Life che altri soggetti di studio in ambienti controllati e con metodologie scientifiche, che indicano prevalentemente i limiti e le impossibilità della tecnologia.

Anche parlando di magia anziché di tecnologia (come spesso purtroppo la cattiva fantascienza fa, mescolando le carte con il fantasy), la cosa non funziona: il motore della realtà virtuale sono le interfacce sonore e aptiche, non quelle visive. E l’immersione non può essere un modo “fisico” per attraversare mondi e contesti, perché è semplicemente il metodo meno pratico e comodo per farlo che si possa immaginare.

La gente che cammina in ambienti virtuali e gesticola viene bene in film come Minority Report, ma quelle non sono le interfacce adatte al mondo reale non più di quanto sia credibile un inseguimento in auto in un episodio di Fast and Furious. E questo è solo il front-end del metaverso la sua interfaccia.

Il back-end sta sia dal lato dei server che dovrebbero far girare il tutto (connessioni magiche, server magici, anche qui impossibili ma stile Hollywood) sia dal lato del cranio dell’utente, che viene cablato direttamente con la macchina. Ve lo immaginate? In un’epoca in cui soprattutto gli Stati Uniti sono da un lato subissati da tecnologie che sembrano magiche e dall’altra da fake news che parlano di realtà magiche inesistenti, la grande macchina per la persuasione mondiale che costruisce le narrazioni dominanti sta diventando “meta” e si sta arrotolando su se stessa. Altro che occhiali magici, il futuro è l’interfaccia neurale. Che, se anche avventura potesse veramente esistere e funzionare, verrebbe usata per far saltellare degli impallinati travestiti da personaggi di Fortnite per vedere l’opera d’arte tridimensionale (sembra un logo animato in vr di un evento Apple) o giocare a carte travestiti come in un eterno carnevale. Sul serio?

Facebook, cioè Zuckerberg, secondo questo cronista ha solo intravisto un varco e ci si sta lanciando.

Cosa serve a Mark
In questo momento Zuckerberg ha numerosi problemi che spera di solvere cambiando nome e mostrando la computer grafica da film della Pixar per un prodotto che non c’è e che Zuckerberg ammette serenamente ma sottovoce che non esiste. Dice, in sintesi: volevamo solo mostrare quali sono le componenti di qualcosa che solo in piccolissima parte oggi esiste e che forse richiederà molto tempo per diventare realtà. Tradotto: sono come i favolosi keynote (nel senso letterale di favoletta) pieni di vaporware che Bill Gates era solito far vedere al CES di Las Vegas, la grande fiera dell’elettronica di gennaio.

Quando il keynote di Bill era puntato sulle tecnologie attuali, falliva miseramente (e ci sono decine di casi su YouTube (opens new window) in cui lui e poi Steve Ballmer hanno fatto brutte figure) mentre quando parlava di futuro Gates vendeva del vaporware: delle idee da film di fantascienza, con case di cristallo e schermi ripiegabili da 100 metri quadri, telefoni trasparenti, assistenti vocali più intelligenti di un portiere d’albergo di New York City (hint: sono estremamente svegli e attenti, molto più dei loro ospiti).

Lo scopo? Per Bill Gates era spiazzare i concorrenti, appropriarsi concettualmente di interi settori prima ancora di avere la tecnologia per pensarci (avete presente il telefonino di vetro con l’interfaccia “magica” dei film di fantascienza?) e distrarre dai problemi concreti. I grandi lanci di cose inesistenti, di vaporware puro, hanno coinciso con periodi di crisi profonda come gli anni dei lanci di Windows Vista o prima ancora Windows ME. Agli analisti e al pubblico piace e si sorvola sui problemi concreti dei conti economici o dei prodotti del giorno, perché – si diceva – l’azienda e i suoi leader “hanno la visione”. A Zuckerberg serve questo e altro per sfangarla.

I problemi e i nemici di Facebook
Facebook infatti ha parecchi problemi molto concreti e reali, a cominciare da una base di utenti che sta invecchiando mentre i giovani non considerano Facebook minimamente perché trovano altre cose più interessanti su Internet. Poi c’è la dipendenza di Facebook dalle piattaforme Google e Apple (per i sistemi operativi) che impedisce a Facebook di toccare direttamente gli utenti ma deve sempre avere una relazione mediata da altri, che possono ridurre il suo spazio di manovra (vedi le mosse sulla privacy di Apple che taglia fuori Facebook da tantissimi dati sui comportamenti delle persone che la ingolosiscono e che abitualmente preda sui dispositivi Android).

Poi c’è il rischio di essere multati, indagati, frammentati, quasi chiusi. E le cause legali. E poi ci sono i danni per la reputazione che vengono dalla stampa e dal sentiment delle persone (soprattutto fuori da Facebook). Dopotutto, è stato scritto molte volte che Facebook è una azienda tossica per le società moderne, una specie di moderna e digitale produttrice di sigarette, che lo sappiamo che fa male ma cerchiamo di far finta di nulla grazie anche agli sforzi di lobby che l’azienda fa negli Usa. E poi che Facebook serve come piattaforma basata sull’engagement per la politica e il commercio locale, ma che in realtà è dimostrato che è ingegnerizzato per funzionare soprattutto quando il contenuto fa scandalo anziché quando stimola la riflessione e le opinioni ponderate.

Ecco dunque che Facebook è tossica perché è la piattaforma prevalente sulla quale circolano le fake news, hanno spazio i politici demagoghi, avvengono le peggiori manipolazioni degli elettori e dei gruppi sociali. Su Facebook succede di tutto, con la consapevolezza da parte dei suoi dipendenti e dirigenti che ci sono problemi sia sul benessere degli utenti più giovani che le presunte manovre recentemente rivelate di una “combine” con Google per aggirare i blocchi altrui sulla privacy (leggi Apple) e accordarsi sulle aste delle pubblicità (per far pagare di più alle piccole imprese che secondo Facebook invece soffrirebbero per l’attenzione alla privacy di Apple).

Il rischio reputazionale e l’idea di Meta
Tutto questo emerge sempre più spesso sulla stampa e crea un rischio reputazionale enorme per l’azienda. Il nome è “sporcato” e va cambiato. Ecco “Meta” e la promessa di qualcosa di completamente diverso, probabilmente impossibile e se anche possibile comunque condannato al fallimento.

Tutto in nome di un fatturato miliardario e del bisogno di tenere il potere in un ambiente sempre più aggressivo che mette a rischio l’esistenza stessa di Facebook, una sorta di droga che mantiene in uno stato di costante eccitata distrazione tre miliardi di persone per consentire ad altri di avere degli spazi molto più grandi sia di manovra che di controllo.

Facebook, nonostante i miliardi in cassa e il sole della California, è un’azienda in difficoltà. La scelta di Zuckerberg, anziché risanare l’azienda e renderla migliore, è stata quella di metterle il rossetto sulle labbra per “farla bella” o, come dicono gli americani con una fortunata espressione, to put lipstick on a pig. Però, con un’altra fortunata espressione delle nostre nonne, chi semina vento poi sappiamo tutti cosa raccoglierà.


Spazio in città
Spazio in città ~ Foto © Antonio Dini

Una modesta proposta

La magia del computer
In coda al mio articolo di cui sopra pubblicato su Macity (opens new window) ci sono vari commenti e trovo questo di Paolo Russo (opens new window) particolarmente interessante. L'idea che il computer manipoli energia per creare valore semantico e non sia una forma di magia come molti sembrano credere è in realtà un problema di comprensione e competenze. Mi piace. Ecco l'estratto:

La cultura digitale è agli inizi, storicamente parlando, e il problema della concezione “magica” permea ancora un po’ tutto. Io mi occupo molto di patrimonio culturale digitale e sento continuamente dire che è immateriale perché è intangibile o che è una terza categoria a fianco del patrimonio culturale materiale e di quello immateriale. La comprensione del fatto che le tecnologie digitali siano tecnologie di manipolazione dell’energia per creare valore semantico, applicato poi ai più disparati settori non sfiora neanche la mente della maggior parte delle persone. E non sto parlando dell’ iconica vecchina ultra-novantenne vestita di nero e seduta sulla sedia di paglia a fianco della porta di casa. Sono discorsi che capita normalmente di sentire (o leggere) persino a livello di Consiglio Europeo. Il computer produce cose dal nulla. Per magia.

Sarebbe interessante se usassero questo testo come traccia per uno dei temi di italiano della prossima prova dell'esame di maturità (l'esame di Stato). Sarebbe interessante leggere cosa ne potrebbe venire fuori. Sarebbe interessante provare a seminare questa idea che il computer non sia una magia nella testa della gente. Sarebbe interessante.




I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.



“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”

– G.K. Chesterton


END




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