[Mostly Weekly ~129]

Pensa in grande, agisci in piccolo


A cura di Antonio Dini
Numero 129 ~ 22 agosto 2021

Buona domenica! Eccovi al secondo numero "sperimentale" dell'estate 2021 di Mostly Weekly, la newsletter settimanale che esce quando è pronta e a cui voi, bontà vostra, vi siete iscritti.

Sto cercando di rifinire al meglio la nuova versione ma anche di riposarmi un po' leggendo, facendo lunghe camminate e mangiando un po' meglio del solito: sono a Brisighella, in provincia di Ravenna e se avete voglia di farvi un giro da queste parti dovete assolutamente venire all'agriturismo Baccagnano (opens new window): vivamente consigliato, comodo da raggiungere anche in treno sia da Firenze che da Faenza. Non è pubblicità, anche se gli dite che vi mando io mica vi fanno lo sconto (e io non ci guadagno niente, se non qualche karma-point). Però qui si sta bene. E fanno pure il vino!

Ve lo dico anche perché mi sa che mi ci vuole ancora un po' di tempo prima di finire di sistemare la nuova versione di Mostly Weekly. Ma stiamo andando da qualche parte, non vi preoccupate; la mia filosofia per Mostly in generale è semplice: “pensa in grande, agisci in piccolo”. Intanto. grazie a quelli di voi che hanno risposto alla precedente email con commenti e incoraggiamenti; scrivetemi ancora, leggo e rispondo con piacere (anche se non all'istante).

Ora, come da tradizione, vi ricordo Mostly Weekly è aperta a tutti, senza pubblicità o affiliazioni: una donazione su Liberapay (opens new window) o via PayPal (opens new window) è però molto apprezzata. Non c'è una formula di abbonamento (ancora), ma se volete reiterare le donazioni, siete i benvenuti. Il senso del tutto si trova leggendo chi sono i Mostly Friends.

Intanto, buona lettura!

Ah, se vi piacevano le nastrocassette, quelli di tapedeck ne hanno messe virtualmente assieme un po' (opens new window).


You are not your work
–– Anonimo (e cercate di ricordavelo)



~ ~ ~

Mostly Weekly a Baccagnano
Mostly Weekly a Baccagnano ~ Foto © Antonio Dini

#### Apertura

The Blue Marble Overview Effect
Di solito sono abbastanza dubbioso per quanto riguarda gli effetti psicologici tipo "sindrome di Stendhal" e simili. Perché credo dipendano dai tempi che si vivono, dagli archetipi collettivi se vogliamo, più che da evidenze scientifiche. Sono al massimo delle manifestazioni psicosomatiche; dopotutto la sindrome di Stendhal (opens new window), coniata nel 1989 dalla psicanalista freudiana Graziella Magherini, era proprio quello: la gente che sviene davanti alle bellurie dei musei fiorentini (soprattutto gli Uffizi) somatizza il momento storico con le sue ansie, le sue contraddizioni e le sue mancanze.

Magherini nel suo libro (opens new window) contava casi di svenimento ma anche di tachicardia, confusione, persino allucinazioni di fronte a grandi bellezze molto antiche. Quella di Stendhal era la sindrome perfetta per gli anni Ottanta, il decennio della musica rock con la batteria effettata, dei giapponesi che visitavano Firenze in massa e dei giovani e meno giovani accaldati che si stipavano nei musei dopo che avevano studiato la storia dell'arte sull'Argan (opens new window). Senza contare gli ultimi nordeuropei impegnati in quel che restava del suo ideale di Grand Tour che era però anche un po' un Bildungsreisen che faceva emergere sensi di inadeguatezza e sindromi dell'impostore nei poveri (e inadatti) emuli di Stendhal.

La sindrome di Stendhal era lo Zeitgeist, lo spirito di quel tempo? Se è così, allora è corretto che (ri)emerga oggi l'espressione Overview Effect (opens new window), effetto vista d'insieme, che fa riferimento a un altro tipo di sindrome ancora più particolare, perché colpisce pochissime persone: solo quelle che hanno volato nello spazio (e neanche tutte, a dire il vero). La sindrome di Yuri Gagarin, di Michael Collins e Sally Ride, per dirne tre, è stata coniata da Frank White più o meno nello stesso periodo, cioè il 1987, prima in un articolo (pdf (opens new window)) e poi in un libro (opens new window) che cercava di rendere conto scientificamente di un fenomeno strano: chi ha visto la Terra dallo spazio nella sua interezza (da cui il nome overview) spesso ha subito un brusco cambiamento della propria consapevolezza.

La Terra, soprattutto quella che possiamo immaginare guardando la foto più famosa del 1972 intitolata The Blue Marble, ha questo potere. La Terra, percepita come una piccola, gracile sfera che contiene tutta la vita conosciuta e amata, mentre appare sospesa nel vuoto, avvolta in un sottile velo di atmosfera che la protegge e che potrebbe essere lacerato così facilmente.

Proteggere (opens new window) il "pallido punto azzurro" che galleggia nello spazio, per chi l'ha visto così dall'alto, diventa un imperativo. Che era già da tempo importante.

Era stato infatti Al Gore, vicepresidente con Bill Clinton e presidente mancato per qualche colpo di furbizia in Florida (vinse Bush figlio) a spiegare nel suo documentario An Inconvenient Truth (opens new window) come i movimenti ambientalisti siano nati dopo aver visto l'unica foto allora in circolazione del nostro pianeta (opens new window), scattata dagli astronauti della Terra (dimenticando la tradizione tedesca dei "verdi" ma vabbé).

L'importanza simbolica dell'immagine della Terra era intuita e capita: al termine di un pomeriggio passato sul tetto della sua casa a San Francisco a meditare con l'aiuto di qualche acido lo stesso Stewart Brand aveva sfruttato l'idea dell'immagine del pianeta per presentare il suo Whole Earth Catalog (opens new window), nel lontano 1968. Uno strumento editoriale furbamente costruito come volano al quale seguirono varie annate e altre edizioni come i CoEvolution Quarterly, la community online The Whole Earth Lectronic Link (WELL) per arrivare sino agli articoli e ai libri e al passaggio di testimone con Kevin Kelly, che poi fonderà Wired la rivista di tecnologia considerata "la bibbia della controcultura tech".

Questa è un'altra storia solo apparentemente. La nascita del movimento hippie è legata a doppio filo al lavoro di Brand e lui stesso nel 1968 girava per i vialetti di Berkeley (opens new window) con un cartello con su scritto: "NASA: perché non abbiamo ancora visto una foto di tutta la Terra?". L'ambientalismo e la tecnologia digitale, insomma, si intrecciano nella controcultura più di quanto non sia comunemente dato credere. Per questo oggi, secondo me, mentre da un lato l'ambiente va in fibrillazione per via del nostro stile di vita e dall'altro l'economia prende fuoco per via del digitale, la sindrome della vista d'insieme diventa ancora più interessante e attuale.

Chissà che Richard Branson, Jeff Bezos ed Elon Musk non abbiano un "Overview Effect" la prossima volta che metteranno il naso in orbita. Ne avremmo bisogno e, se fosse un modo estremamente costoso per dare una consapevolezza (e un'anima) all'1% dei terrestri, ne sarebbe valsa la pena e anzi bisognerebbe darsi da fare a spedirne quanti più possibile in orbita prima che sia troppo tardi.


Cambiare prospettiva serve

L'ideologia della supremazia umana e lo spirito del capitalismo
Nella storia del nostro pianeta ci sono state cinque estinzioni di massa, causate da cataclismi come eruzioni vulcaniche o impatti di meteoriti. Adesso, come sappiamo fin troppo bene, gli scienziati ci avvertono che invece è l'attività umana che sta causando l'estinzione delle specie terrestri a un ritmo mille volte superiore al normale tasso di estinzione e che, se continuiamo a questo ritmo per qualche altro decennio, avremo innescato definitivamente la sesta estinzione. I maggiori esperti del settore, come il biologo E. O. Wilson (opens new window), prevedono che la metà degli otto milioni di specie che si ritiene esistano nel mondo sarà estinta o sull'orlo dell'estinzione entro la fine di questo secolo, a meno che l'umanità non cambi le sue abitudini.

Dietro a questo ragionamento se ne cela un altro, però, molto più pericoloso. È stato chiamato "l'ideologia della supremazia umana (opens new window)" e funziona più o meno così: il manifesto destino dell'essere umano è stato quello di salire sulla cima della piramide dell'evoluzione e dominare il pianeta (e magari anche altri). È un suo diritto in quanto creatura più evoluta di tutte. Ebbene, non è così, neanche lontanamente, ma nonostante questo ci crediamo più o meno tutti, almeno inconsapevolmente. Vediamo perché.

Partiamo da una illustrazione. Ci viene mostrata fin dalla più tenera età per illustrare il concetto di "marcia del progresso (opens new window)" come inestricabilmente legato al concetto di evoluzione: è la "Strada dell'Homo Sapiens", cioè l'illustrazione del 1965 di Rudolph Zallinger che fa vedere la serie di scimmie che man mano che si antropomorfizzano si alzano su due zampe e diventano persone.

È famosa, la conosciamo tutti. Ed è tutt'altro che neutra. L'idea implicita è che la corsa dell'evoluzione sia arrivata al suo termine naturale e che l'homo sapiens abbia vinto. Il resto delle specie del pianeta sta dietro e "giustamente" si deve adattare o scomparire. Dopotutto, le magnifiche e progressive sorti dell'umanità ci stanno portando direttamente alla prossima frontiera degli esseri umani: lo spazio. Altri pianeti da conquistare, altre sfide da vincere, altre risorse da sfruttare sino all'ultima goccia.

Questa idea si è sostanzialmente fusa con la società occidentale e non solo (vedi la Cina) ma è uno sbaglio. Il mondo dominato dall'ideologia della supremazia umana è un mondo in cui vengono consumate risorse ed ecosistemi a un ritmo impressionante. Viviamo in un mondo ridotto ai minimi termini, al 10% della sua abbondanza iniziale, secondo Jeremy Lent, l'autore dell'articolo (opens new window). La natura, oggi, non è più un tempio, come si pensava in passato, ma un insieme di rovine: belle quanto si vuole ma sempre delle rovine.

Il problema della sesta estinzione, provocata dalla specie che è presente sul pianeta da meno dello 0,01% del tempo rispetto alla nascita della vita, è però un problema ideologico che va capito meglio, se vogliamo superarlo. L'idea (glorificata) che siamo entrati nell'Antropocene (opens new window), nell'era dell'essere umano, e che l'estinzione di altre specie sia necessaria, è semplicemente falsa.

Nonostante quello che pensano un paio di miei amici (che l'essere umano in quanto tale è dannoso e si merita di morire con la Terra), l'ideologia della supremazia umana è culturalmente connotata, non è naturale: è solo la società occidentale che pensa che lo scopo della natura e di tutte le creature che la popolano sia rendersi disponibile per i bisogni dell'essere umano.

Invece, la distruzione della vita sul pianeta non è un comportamento tipico dell'essere umano. Tutt'altro. Lo è solo come risultato di "una specifica ideologia che ha origine nella visione occidentale del mondo che desacralizza la natura, trasformandola in una risorsa da sfruttare".

Quello che chiamiamo "Antropocene" in realtà si chiama più semplicemente "capitalismo". E come tale può essere corretto e (meglio ancora) superato.


Yamato

Nihon Ea Shisutemu (日本エアシステム)
Questa settimana per il nostro dizionario tematico di giapponese la parola che trattiamo è in realtà il nome di un'azienda che oltretutto non c'è più: Nihon Ea Shisutemu (日本エアシステム), ovverosia Japan Air System (in italiano sarebbe "Sistema aereo giapponese", di solito chiamata con la sigla JAS). L'azienda, la terza e più piccola delle tre "grandi" compagnie aeree giapponesi, non esiste più perché è stata acquisita dalla compagnia di bandiera nipponica, la JAL (Japan Airlines, in giapponese 日本航空株式会社, Nihon Kōkū Kabushiki-gaisha). Occhio perché le cose si fanno un attimo complicate, ma poi virano al meglio, fidatevi. E parliamo un attimo della più grande di tutte dell'epoca, cioè JAL.

Dunque, Nikkō (日航, è il nomignolo di JAL), è quello che per noi è Alitalia: nasce nel 1951-1953 (come la nostra AZ) dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, quando il Giappone pesantemente sanzionato dagli americani non ha ancora diritto a una aviazione commerciale indipendente. All'inizio azienda di Stato con l'obiettivo di trasporti sia nel lungo che nel corto raggio, JAL viene privatizzata nel 1987: è la divergenza rispetto ad Alitalia per cui adesso la prima sta bene mentre la nostra prospera. Infatti, mentre AZ rischia la bancarotta, invece JAL nel 2002 inghiotte JAS, diventando così la sesta compagnia aerea al mondo dell'epoca per numero di passeggeri trasportati. Le privatizzazioni fanno bene.

Concorrente di JAL è storicamente ANA, cioè All Nippon Airways. In giapponese si chiama in realtà Zen Nippon Kūyu Kabushiki gaisha, cioè 全日本空輸株式会社 ed è conosciuta anche con la pronuncia nipponica della sua sigla Ana, cioè ē-enu-ē, oppure come Zennikkū (全日空). Anche Ana è nata subito dopo la guerra, nel 1952, e inizialmente si chiamava ufficialmente "Japan Helicopter and Aeroplane Transports Company" ma in giapponese veniva indicata come 日本ヘリコプター輸送, Nippon Herikoputā Yusō (Elitrasporto giapponese).

La piccola e oramai scomparsa JAS, fagocitata dal Japan Airlines, era molto amata in Giappone per due motivi e mezzo. Innanzitutto perché aveva quasi tutte rotte interne, soprattutto tra aeroporti secondari non serviti dalle altre compagnie. In un Paese che è un arcipelago la cosa l'aveva resa molto popolare e benvoluta: turismo, affari ma anche vita privata (i figli che tornavano al paese sulle montagne o nell'isoletta per le vacanze, cose così). Poi perché l'azienda aveva investito moltissimo sulla sua immagine coordinata, trovando livree le più diverse e sempre eleganti e spesso astratte: avevano collaborato personaggi come Akira Kurosawa, Masuo Ikeda, Kenshi Hirokane, Yoshiko Sakurai e Yusuke Kaji.

Ma la livrea più spettacolare, quella che fece il giro del mondo (e che mi guarda da uno scaffale della mia libreria di casa da più di un decennio) è quella del primo Boeing 777 preso nel 1997 dall'azienda. Ed è il mezzo motivo che io preferisco. Infatti, per decidere la livrea celebrativa, che coincideva peraltro con i 25 anni dell'azienda, venne fatto un concorso aperto a tutti e molto pubblicizzato (parteciparono in 30 o 40mila) che fu vinto da un tredicenne, Masatomo Watanabe, che abitava vicino all'aeroporto di Chitose (un aeroporto all'epoca militare nell'Hokkaido) e che si inventò un arcobaleno che avvolgeva come un nastro l'aereo sino a passare sotto la cabina di pilotaggio e il radome, creando una sorta di sorriso elegante ed enigmatico al tempo stesso. È il sorriso che mi guarda di sottecchi dallo scaffale dal mio modello di triple-seven e che a volte mi rallegra e a volte mi guarda ironicamente come se mi dicesse "sei proprio sicuro?" mentre sto per scrivere qualcosa di cui io stesso non sono convinto.

Un'ultima nota: JAS originariamente si chiamava Toa Domestic Airlines (東亜国内航空, Tōa Kokunai Kōkū) (TDA) ed era nata a sua volta dalla fusione di Toa Airways e di Japan Domestic Airlines. Nel nome di TDA c 'è tutto: Toa (東亜), nazionale o domestico (国内) e infine c'è aviazione, che si scrive con i due caratteri 航空 che vogliono dire "navigazione" (航, kō) e "cielo" (空, sora o kū), il cui significato è secondo me delizioso. La "navigazione del cielo" è un concetto più delicato e dolce del nostro "aviazione" che deriva invece dal francese ottocentesco aviation e che fa riferimento al latino avis, cioè uccello. Anche il nostro aeroplano viene dal francese aeroplane, con un termine coniato a metà dell'ottocento per indicare la forma "piana" dell'apparecchio in opposizione a quella sferica dell'aerostato. In giapponese invece aeroplano si dice 飛行機 (hikōki*) e vuol dire più prosaicamente "macchina per volare"


Multimedia

Mi dite sempre che non si parla da tanto tempo di videogiochi: ecco una rassegna di giochi free (nel senso che non si paga) e online: cominciamo con Widelands (opens new window), che è un gioco di strategia in tempo reale con grafica isometrica, per partite da soli o in multiplayer online; è ispirato a Settlers II. Poi c'è Endless Sky (opens new window), un gioco di combattimento e commercio in due dimensioni a sfondo spaziale, simile a Escape Velocity: anche questo gratuito, si scarica per macOS, Windows e (parecchie distribuzioni di) Linux. Se vi piaceva l'idea di Elite, qui c'è il suo pronipotino. Passiamo invece a un gioco di stampo storico, ambientato nel passato: 0 A.D. (opens new window) di cui è uscita la versione Alpha numero 25 che si intitola Yaunā, cioè la parola persiana per indicare gli abitanti della Grecia: c'è anche il trailer (opens new window) e il gioco è fico, se piace il genere delle simulazioni militari (e non solo militari) per gente che ha fatto il liceo classico; comunque, si può conquistare tutto il pianeta, dalla Gallia ai Maya. Infine Warzone 2100 (opens new window) è un gioco di strategia in tempo reale 3D completamente open source e gratuito. Come vedete, c'è solo l'imbarazzo della scelta e la banale considerazione che non abbiamo abbastanza tempo per giocarli tutti.

Questo autunno sta per arrivare un'ondata piuttosto massiccia di fantascienza in video. A parte le cose di Asimov (Fondazione (opens new window) e Herbert (Dune (opens new window)), segnalo anche che arriva la serie The Wheel of Time (opens new window) di Robert Jordan: un classico, anzi "il" classico per quanto riguarda il fantasy moderno. Qui (opens new window), qui (opens new window) e qui (opens new window) ci sono brevissimi teaser, mentre il telefilm sbarcherà a novembre e sarà basato (opens new window) sul personaggio di Moiraine, parte della Aes Sedai, l'organizzazione solo di donne. Secondo me, vista la protagonista (Rosamund Pike), viene da dire che hanno sbagliato il casting e il prodotto è troppo "televisivo". Ma forse mi sbaglio io.


Tsundoku

Tim Wu è tutt'altro che un sovversivo o un radicale. Anzi, a differenza del protagonista di Sono solo canzonette di Edoardo Bennato, Wu (opens new window) ha fatto carriera non solo nel giornale della sera: è opinionista del New York Times (ma ha scritto ovunque), docente alla Columbia University, e ora è funzionario responsabile delle politiche per la tecnologia e la competizione della Casa Bianca di Joe Biden. È l'inventore del termine "network neutrality (opens new window)" e ha scritto libri importanti come The Master Switch (opens new window). L'ultimo si intitola The Curse of Bigness (opens new window), ed è uscito subito prima dell'estate in Italia tradotto come La maledizione dei giganti (opens new window) grazie al Mulino. È un libro importante intanto perché è breve e chiaro da leggere, e poi perché coglie lo spirito del tempo: l'attacco ai monopoli dei grandi del digitale (Amazon, Apple, Facebook, Google e anche Microsoft). Se leggete anche solo l'ultima parte, in cui vengono proposti alcuni dei rimedi secondo il professore perseguibili, si può intuire quale sarà la battaglia dei prossimi mesi e come potrebbe finire.

Designing Virtual Worlds (opens new window), il libro considerato un classico sulla realizzazione di mondi virtuali scritto da Richard Bartle nel 2003, da oggi è disponibile gratuitamente online sul sito (opens new window) dell'autore. Bartle spiega anche (opens new window) quali parti considera ancora attuali e quali datate.

In treno, mentre mi spostavo a cavallo degli Appennini, ho finito di rileggere In the beginnig was the command line (opens new window), il saggio garibaldino di Neal Stephenson scritto a cavallo del nuovo millennio che cerca di spiegare il discorso delle interfacce e dei computer e che è stato forse una delle prime riflessioni mainstream (se vogliamo dire che è mainstream Stephenson) per spiegare cosa c'è in una vita centrata sul computer e l'elaborazione dei dati. Il movimento Cyberpunk è stato non solo un'estetica ma anche una filosofia e un approccio, un punto di vista su quella che oggi chiamiamo "trasformazione digitale" e che all'epoca avevano battezzato "cyber-cultura". Rileggendo oggi quello che scriveva Stephenson più di venti anni fa è impressionante quanto poco sia diventato obsoleto e quanto poco in realtà manchi di quello che c'è oggi.


Coffee break
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Hi-tech

Non ci pensiamo mai
Una piccola mappa animata di San Francisco, una clip da pochi secondi su Twitter (opens new window), mostra gli itinerari di un utente che, spiega, due anni fa ha deciso di camminare: "Questi sono i miei risultati dopo 150 camminate".

Un altro utente chiede: "Whoa! Risultato epico! Quale app/servizio hai usato per fare l’animazione?"

E lui spiega:

Ho esportato un GPX da Strava, l’ho convertito in GeoJSON, ho scritto del codice JavaScript per sistemare il tutto e per animarlo ho usato d3, e poi ho usato un wrapper JS attorno a ffmpeg per tirar fuori un file MP4. E ho parallelizzato l’esportazione a mano 😃

Questa volta a illustrare il post un po’ snob c'è la foto di un MacBook Pro 15 su una staffa, coperchio aperto, secondo monitor, mouse e tastiera esterna, schermate di dati e feeling da officina del codice.

Ci dimentichiamo spesso che sotto una app, che non è una espressione tecnica ma una idea di marketing, c'è un insieme di pezzetti che sono in realtà più complessi e meno "naturali" di quello che pensiamo. L’app è facile, sembra naturale, è quasi scontata. Invece, ogni azione del programmatore è deliberata.

La scelta di non fare una app in questo caso deriva dal fatto che non ce n’è bisogno: il programmatore deve semplicemente arrivare a un obiettivo e per farlo deve risolvere alcuni problemi una volta sola. Non è software, sono programmi e metodi. Il tessuto unificante sono gli algoritmi usati. E il modo di pensare: questo è un approccio basato sul pensiero computazionale. L'app è solo un epifenomeno, una facciata.

(Ovviamente la maggior parte dei commentatori non guarda alle scelte computazionali ma commenta lo spazio di lavoro, le scelte di interfaccia del setup, la tipologia di tastiera usata).


La Madonna fiorentina
La Madonna fiorentina ~ Foto © Antonio Dini

Una modesta proposta

Twitter e Tinder
Sappiamo che c'è un problema di identità e sicurezza in rete: l'hate speech su Facebook, la disinformazione e le fake news che girano su Twitter, i deepfake, le bugie no-vax su Youtube e via dicendo. Un mondo in cui chiunque di noi prima o poi, magari solo per fare una compravendita si eBay, si sorprende a chiedersi: chi è la persona dall'altra parte? È veramente chi dice di essere?

Alla base c'è un problema noto che si chiama "verifica dell'identità" o "identità accertata".

Nel suo esempio più banale, sono i piccoli segni blu che Twitter e Instagram usano per far capire che il profilo che sta condividendo informazioni, immagini, video o quant'altro è proprio quello della persona che dice di essere. Se non fosse che ci sono alcuni problemi.

Intanto, le verifiche vengono concesse neanche fossero caviale Beluga: solo poche, pochissime celebrità, giornalisti, politici e altri soggetti del genere hanno accesso al checkmark (il nome inglese della piccola spunta blu). È un regime di scarsità artificiale non solo controproducente, ma anche dannoso.

Esempio: durante le proteste tra i lavoratori di Amazon e la proprietà, sono cominciati a spuntare un sacco di utenti con commenti pro-Amazon che erano satirici o addirittura (forse) mossi dalle pr di Amazon. La conclusione è che, dopo anni dalla nascita dei social come piano di manifestazione della rappresentanza, non c'è un modo per sapere se la persona che si qualifica come lavoratore dell'azienda X sia veramente tale oppure no.

Oppure, i bot: ovviamente non sono degli utenti legittimi, soprattutto perché pochi bot possono fare il lavoro di migliaia di attivisti (o smontarlo). Eppure Twitter ha recentemente dato il checkmark (opens new window) a una mezza dozzina di macchinette per spargere fake-news. Come mai? Beh, perché non è riuscita a capire che la domanda era stata falsificata, e per questo ha deciso di bloccare di nuovo (opens new window) il suo programma di verifica. È la terza o quarta volta che lo fa.

Il presupposto -sbagliato- è che i profili verificati debbano essere una cosa rara e preziosa, solo per account significativi. Questo non solo produce varie distorsioni ma in realtà riduce anche la fiducia nella rete, anziché aumentarla. Tuttavia, fa anche un altro danno: conferisce ai tecnici della piattaforma una specie di autorità morale (opens new window) su chi sia "meritevole" della spunta blu e chi no.

Questa è una situazione come quella di chi ha dovuto decidere la chiusura a tempo indeterminato dell'account di un Presidente degli Stati Uniti. Donald Trump può stare simpatico o no, può essere giusto o no, ma la domanda da farsi è un'altra: chi dà il diritto a impiegati di un'azienda di prendere decisioni simili? E chi dà loro il diritto di farlo non solo nella nazione dell'azienda, ma anche in altri Paesi nel mondo? Se domani Twitter decidesse, per assurdo, che Mario Draghi è "indegno" di stare sul social e spegnesse il suo account?

Oppure, un'altra considerazione più indiretta: se la politica, la vita civile e la militanza si trasferiscono sui social come strumenti di comunicazione, chi è che gestisce i meccanismi di circolazione delle informazioni e dei contenuti condivisi? Chi può decidere cosa far vedere e cosa no? Chi può decidere chi deve essere sospeso o addirittura cancellato, senza procedura di appello? Risposta: un tizio che sta seduto in un ufficio della Silicon Valley.

Esiste una soluzione almeno al problema della verifica? Forse sì. Tinder, ad esempio, da tempo utilizza un altro approccio. La app per gli appuntamenti ha creato un meccanismo di verifica dell'effettiva identità di chi crea un profilo tramite selfie e altri meccanismi analoghi. La stessa cosa viene fatta da altre app del settore. Lo scopo è limitare al massimo il rischio di catfishing (opens new window), cioè "l'attività ingannevole su un social network che prevede la creazione e l'utilizzo [...] di un account con falsa identità da parte di una persona, allo scopo di raggirare altri utenti".

Il punto qui non è il diritto all'anonimato, ma l'uso di false identità a scopo fraudolento. Chi decide quando uno scopo è fraudolento? Il contesto. Se usi una identità senza spunta blu, poi non ti lamentare se non ti danno un fido in banca quando lo chiedi online. Se invece vuoi fare un dissing su un forum di appassionati di Sinclair QL senza far sapere il tuo vero nome, prego: be my guest.

La regola implicita, almeno per Tinder, è chiara: non è obbligatorio verificare l'identità del profilo, ma l'ambito in cui i profili presenti sono quelli verificati è più "sicuro" di quello in cui non lo sono. E non occorre che l'identità sia un monolite sottoposto a un controllo binario tipo: si-no. Ci possono essere sfumature, verifiche solo di alcuni aspetti dell'identità e livelli di sicurezza diversi adatti a contesti diversi. Magari uno per quando si postano commenti sulla partita (leggeri) e uno per quando si fa una sparata sul Covid e i vaccini (più ampi).

Invece, la direzione dei big è completamente diversa, almeno finora. Ad esempio, YouTube, prima che avvii la procedura di verifica di un account, prevede che quest'ultimo abbia raggiunto almeno i 100mila iscritti sul suo canale. Facebook, Instagram e Twitter hanno regole ancora più cervellotiche. Il criterio è lo stesso: le verifiche sono limitate al massimo, i controlli sono ex-post e assolutamente non sottoposti a revisione trasparente. Poi ci lamentiamo di cosa circola sui social e di che effetto ci faccia (opens new window).




I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.



“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”

– G.K. Chesterton


END




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