[Mostly Weekly ~128]

La nuova versione: uno di ciascuno


A cura di Antonio Dini
Numero 128 ~ 15 agosto 2021

Buona domenica! Bentrovati nella versione sperimentale di Mostly Weekly, la mia newsletter alla quale a quanto pare vi siete iscritti. Approfitto dell'estate per provare il nuovo formato sul quale ho lavorato questa primavera, dopo aver ascoltato e in parte accolto alcuni suggerimenti dei miei Mostly Friends (opens new window). L'idea è scrivere meno cose per ogni tipo: una coppia di foto, un argomento approfondito, una parola giapponese, un paio di libri e un po' di multimedia. E magari finisco anche la serie delle desinenze "-logiche", che un po' mi hanno stufato. Fatemi sapere cosa ne pensate: basta rispondere a questa email.

Un'altra cosa: Mostly Insicura! Frangino mi segnala che alcuni lettori che usano Vodafone quando aprono i link della newsletter ricevono un segnale di "attenzione, sito insicuro". I link che metto li ho ovviamente tutti aperti e veriticati usandoli, e di certo il mio sito Mostly Here (opens new window) è "sicuro", ma non ho Vodafone quindi non so cosa succede. Casomai, se avete visto cose strane o curiose (alert o altro), scrivetemi sempre rispondendo a questa email.

Infine, vi ricordo che l'idea dietro a Mostly Weekly, cioè quella dei Mostly Friends (opens new window), è che la newsletter (opens new window) e il sito (opens new window) e il canale Telegram (opens new window) siano aperti a tutti, senza pubblicità o affiliazioni. Come si fa a sopravvivere? Con una donazione di chi se la sente di fare il mecenate su (Liberapay (opens new window) o (meglio) via PayPal (opens new window)).

Ecco, era questo. Intanto, buona lettura

Ah, se volete vedere la popolazone del pianeta Terra in 3D, questo sito fa per voi (opens new window)!


It is not the mountains ahead to climb that wear you out; it is the pebble in your shoe
—  Muhammad Ali (Cassius Marcellus Clay Jr)



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Il sol dell'avvenire
Il sol dell'avvenire ~ Foto © Antonio Dini

Apertura

Altri modi di lavorare
Dagli Stati Uniti arrivano dei segnali molto strani e a tratti contraddittori per quanto riguarda la trasformazione del mondo del lavoro legata alla pandemia. Prima del 2020 eravamo già in una fase di evoluzione verso forme di lavoro a distanza pensate in maniera finalmente differente rispetto al semplice telelavoro (cioé la postazione di ufficio a casa dove fare esattamente le stesse cose con lo stesso orario) ma sembrava di essere in stallo.

Poi la pandemia ha messo tutti forzosamente fuori dall'ufficio e adesso c'è un desiderio di fuga dall'ufficio che non ho mai incontrato. Eppure, è da tanto tempo che si dice che la tecnologia possa abilitare stili di vita profondamente diversi che cambiano tutto, compresa l'idea stessa di casa oltre che di posto di lavoro.

Nel periodo 1983-1985, ad esempio, Steven K. Roberts cominciò uno strano percorso di lavoro da remoto (opens new window) mentre viaggiava per 22 mila chilometri attraverso gli Usa con una strana bicicletta con pannelli solari da lui stesso progettata e costruita per poter usare il suo computer portatile. Nel settembre 1983, partendo da un piccolo paese di provincia dell'Ohio l'uomo si mise in moto con un computer alimentato a energia solare (un TRS-80 Model 10 (opens new window) comprato da Radio Shack) e un account telefonico CompuServe (si fermava a una cabina telefonica, agganciava la cuffia per il collegamento in fonia e chiamava il numero di CompuServe di zona).

Roberts registrava i suoi pensieri e progetti mentre pedalava su un magnetofono, la sera li trascriveva al computer e li trasmetteva al computer di casa, gestito da una sua amica che faceva da interfaccia con il mondo. Il viaggio, che ha prodotto nunerosi articoli sulle riviste dell'epoca scritti dallo stesso Roberts, più alcuni libri (tra i quali il più importante è sicuramente Digital Nomad (opens new window) di Tsugio Makimoto e David Manner), era stato sponsorizzato da CompuServe.

Il viaggio era più una "prova di fattibilità" e spot pubblicitario che non una reale scelta di vita, ma ha avuto un impatto notevole e duraturo. Tutt'oggi guardiamo a quell'esempio per indicare la nascita dei nomadi digitali (opens new window), che oggi sono diventati quelli che lavorano nel settore tecnologico da località esotiche o comunque fuori dai normali hub cittadini.

Invece, l'idea che stava uscendo fuori dalla pandemia era che anche moltissime persone "normali", senza ambizioni di vite nomadiche o viaggi in località esotiche, potessero portare avanti un normale impiego lavorando da casa, magari scegliendo città diverse da quelle più grandi e costose e quindi case più grandi. Alcuni lavoratori vogliono restare a casa anche quando il rischio pandemia sarà finito, alcune aziende vogliono invece che i lavoratori tornino in ufficio. Le cose sono diventate molto più complicate, effettivamente, creando fasce di impiego in cui a fronte di un orario nominale si è liberato molto tempo.

E arriviamo all'ultima inchiesta del Wall Street Journal, che mette nero su bianco una tendenza intuibile: il secondo lavoro a distanza e segreto (opens new window). L'idea cioè che alcuni impiegati che lavorano nel settore della tecnologia, bancario o assicurativo si siano messi a cercare e a fare altri lavori "di lato", senza dire niente al datore di lavoro full-time. A casa, con due portatili uno accanto all'altro, passano da riunioni a distanza e infinite liste di email su uno a infinite liste di email e riunioni a distanza sull'altro.

Il primo esempio che fa il WSJ è un ingegnere del software di 29 anni che lavora contemporaneamente per una media company e per una assicurazione dallo scorso giugno. Ha stimato che il suo lavoro reale settimanale si aggiri fra le tre e le dieci ore, mentre il resto è solo fumo: “Partecipo a riunioni o faccio finta di essere occupato".

C'è anche un sito, Overemployed (opens new window), la cui logica è che bisogna approfittarsene e avere più lavori perché gli stipendi sono bassi da dieci anni e il rischio di licenziamenti in massa è altissimo e imprevedibile. Meglio quindi tutelarsi.

La struttura del lavoro in Italia è diversa, anche da un punto di vista normativo, e ci sono limiti e barriere per tenere due posti di lavoro a tempo indeterminato contemporaneamente, ma in un mondo di partite Iva è tutt'altro che impossibile (anzi, è quasi consigliato).

Dietro però c'è uno scontro culturale e idelogico più profondo, che ha una terza sponda nel reddito di cittadinanza. Ed è legato al malessere che la nostra società sta passando per via della trasformazione digitale, legato al senso dei lavori in situazioni di alta automazione, alla ridistribuzione della ricchezza in maniera più equa, alla riorganizzazione della nostra società. Il futuro passa attraverso questo nodo, oltre a quello dell'ambiente, e volendo i due sono anche legati assieme ma è facile confondersi e fare di tutto un unico pastone ideologico.

L'articolo del WSJ è una fenomenale guida a questo mondo in cui si vive come se si fosse bigami: a fronte di due stipendi che arrivano anche a portare in casa 300mila dollari all'anno bisogna tenere un profilo molto basso, avere dei capi che hanno aspettative molto limitate, muoversi con grazia attraverso i social evitando di postare qualsiasi cosa che sia anche solo lontanamente sospetta. Bisogna vivere una doppia vita, come gli agenti segreti tripli di una volta, che tradivano entrambi i propri committenti per il solo proprio interesse.

Per sopravvivere allo stress la filosofia è una sola: "Non cerchiamo di essere impiegati a cinque stelle. No, cerchiamo di fare quel minimo di lavoro che basta per non essere licenziati".

È vita o è una ingegnosa difesa e una forma di adattamento verso un mondo che si sta trasformando tanto rapidamente da non offrire più direzioni chiare per nessuno. Lavorare a distanza sta cambiando anche il rapporto psicologico con il proprio singolo datore di lavoro e la conclusione è che se alcuni tolgono il piede dall'acceleratore della carriera, altri trovano ingegnosi metodi per sfruttare questa situazione di apparente lentezza. E ci sarà chi, tra i datori di lavoro, sfrutterà questa idea del doppio lavoro a distanza per chiudere per sempre le porte allo stile di vita del nomade digitale e magari anche all'idea del reddito di cittadinanza.

Viviamo tempi interessanti ma difficili. Sono probabilmente finite per sempre le basi etiche delle relazioni di lavoro, come dice un dirigente che ha scoperto di avere un collaboratore che faceva il doppio lavoro ma non ha potuto fare niente per non rischiare di rovinare la sua stessa posizione: "Quale incentivo c'è per le persone ad essere deliberatamente oneste? La lealtà tra datore di lavoro e dipendente oggi è completamente assente".


Yamato

‌Konnichiwa (こんにちは)
La parola di questa settimana per il nostro dizionario tematico di giapponese (la mia personale esplorazione culturale di quel popolo attraverso la lingua) è semplice: konnichiwa (si pronuncia "konnici-uà") scritto in hiragana こんにちは, che si può anche scrivere con i kanji come 今日は. Notate l'ultimo carattere alla fine di entrambi: は, tra un attimo ne parliamo.

Konnichiwa è un modo educato per salutare, soprattutto dall'ora di pranzo al tardo pomeriggio o prima serata, e vuol dire più in generale "ciao". È una parola con il trucco per quanto riguarda la sua translitterazione perché si pronuncia con il "wa" finale anche se il carattere hiragana は viene trascritto e pronunciato "ha". Tuttavia, "ha" si usa solo quando ha funzione di sillaba, invece quando ha funzione di particella grammaticale per la marcatura del tema si pronuncia "wa", come si deve correttamente fare con konnichi-wa.

Il giapponese ha un sacco di particelle ma i marcatori del tema sono una particella particolarmente strana, sconosciuta in italiano ma che esiste (ovviamente con suoni diversi) in giapponese, in coreano, ma anche in lingua hindi, in quechua (quello che parlano sulle Ande, non nei negozi del Decathlon), nelle lingue e dialetti ryukyuan (letteralmente "il dialetto dell'isola" che si parla nelle ultime e più meridionali isole dell'arcipelago giapponese) e nella lingua imonda, parlato nelle isole Sandaun della Papua Nuova Guinea. C'era anche nel cinese classico ma oggi è scomparso da quella lingua.

Il marcatore del tema è difficile da capire per noi che non ce l'abbiamo perché corrisponde a una struttura linguistica che non ha una corrispondenza equivalente fissa: in parte si sovrappone (ma non sempre) con il soggetto della frase. La differenza rispetto al soggetto della frase (che è la parte del discorso a cui è riferito il predicato, cioè che esprime un'azione, un modo di essere, una condizione o una qualità) sta nel fatto che il marcatore del tema invece mette più enfasi sull'oggetto della frase e può essere usato anche in altri ruoli. È complicato, lo so, ma un esempio aiuta.

Pensiamo alla locuzione preposizionale (in analisi logica sarebbe un complemento di limitazione) "quanto a..." come possibile traduzione di alcuni casi in cui si usa il marcatore del tema (anche se alle volte suona invece innaturale), cioè quelli in cui wa marca argomenti mutevoli. Se una persona parla riferendosi a qualcun altro e poi passa a parlare di se stesso, può dire: watashi wa (私は, "quanto a me...") e successivamente non è più necessario che ricordi che adesso sta parlando di se stessa. Forte, no?

La cosa bella delle particelle in giapponese è che devono assolvere funzioni molto diverse e costituiscono una tastiera particolarmente vasta. Si chiamano joshi (助詞) o tenioha (てにをは), possono essere suffissi o brevi parole che seguono il sostantivo, il verbo, l'aggettivo o la frase che modificano. Come detto, hanno una vasta gamma di funzioni grammaticali, inclusi accenni a una domanda, un'esclamazione, lo stato di chi parla o altri sentimenti. Molte possono essere tradotte utilizzando delle preposizioni, ricordandosi però che ci sono delle differenze sia con l'italiano che con altre lingue europee: mancano alcune corrispondenze e inoltre il giapponese usa alcune di queste particelle assieme a dei verbi o dei sostantivi per modificare un'altra parola che invece in italiano sarebbe semplicemente preceduta da una preposizione. Per dire ad esempio: "Quella persona sa tutto delle chitarre" si dice あの人は、ギターについて何でもわかる。 Ano hito-wa, gitā-ni tsuite nandemo wakaru.

È facile: Ano hito-wa indica che "quella persona" è il tema della frase (wa), mentre ‌gitā-ni indica la chitarra, ‌tsuite è un'espressione verbale fissa che indica "riguardo a" e infine ‌nandemo vuol dire "qualsiasi cosa, tutto" e ‌wakaru vuol dire "sa, conosce". Ovvero: quella persona sa tutto delle chitarre (l'ordine in giapponese è "quella persona - chitarre - riguardo a - tutto - sa"). Facile, no?

No, in realtà per un parlante italiano è un casino, lo so. Ci sono libri intitolati "Come capire la differenza tra le particelle del giapponese" che vi lascio immaginare quanto aiutino chi ha bisogno di imparare la lingua per comunicare con facilità. Questo spiega anche perché i tentativi di costruire delle traduzioni "a braccio" basate su equivalenze dirette di sostantivi e verbi (la tecnica che si usano quando si incontra uno straniero e si mimano le azioni indicando le cose o le persone) non funziona con il giapponese perché la mappa strutturale di quella lingua è differente dalla nostra. Che fare? Chissà.

Konnichi-wa.


Multimedia

L’anno scorso Il Padrino parte III è tornato in una nuova versione rimontata da Francis Ford Coppola (due anni fa Coppola aveva rimesso mano anche ad Apocalipse Now). I cambiamenti sono pochi, anzi pochissimi, ma in realtà è stata l’occasione per una rivalutazione di un film che non era piaciuto. La critica nel 1990 fu molto severa con il terzo capitolo della saga della famiglia Corleone, ma fu anche ingiusta. Adesso c’è il distacco sufficiente per rivedere la chiusa della trilogia, come ha fatto ad esempio il New Yorker (opens new window) al momento del rilascio, valutando che è cambiato il sapore di fondo del film, perché è cambiato l’autore. Quando la parte terza uscì Coppola aveva cinquant’anni, aveva una immagine dellla vecchiaia del padrino remota, ideale. Adesso, a ottant’anni, dopo essere sopravvissuto a se stesso e aver avuto fin troppo tempo per pensare a quel che ha fatto e a quello che non ha fatto, agli sbagli e alle occasioni perdute, Coppola è riuscito a iniettare con relativamente pochi colpi di montaggio un senso profondo di malessere esistenziale dal sapore diverso, da persona anziana, sola e disperata che si confronta con i fantasmi di un passato che ne trent’anni fa non riusciava a capire sino in fondo.

A maggio del 1982 i Duran Duran fecero uscire il loro secondo album, Rio (opens new window), quello con la stupenda copertina disegnata da Patrick Nagel, artista molto popolare negli Stati Uniti durante gli anni Ottanta. Rio è un album importante per la band britannica, perché è la conferma di quello che poteva essere un lavoro occasionale nato nei club di Birmingham e stabilisce invece un genere e uno stile che va oltre il glam. I Duran Duran sono stati una band innovatrice soprattutto negli anni Ottanta: hanno sfruttato per primi l'elettronica per la ritmica, per alcune sonorità e per la capacità di fondere la musica con lo stile di vita tutto lustrini, la presenza scenica, ma anche le prime videoclip apparse su Mtv (e da noi su VideoMusic). Per questo, vista anche l'ispirazione fortissima di David Bowie e dei Roxy Music, i Duran Duran vengono etichettati come band new romantic, new wave e synth pop. In realtà c'è un afflato futurista nelle loro idee prima ancora che nella loro musica, che oggi invece ha il gusto di una specie di retrofuturo. Dopotutto, sono passati quarant'anni dall'esordio della band, che ha saputo parzialmente rinnovarsi cambiando stile nella sua fase più matura e rigenerandosi dopo una lunga parentesi a partire dal 2001. Riascoltandolo oggi Rio rimane un disco molto più gustoso, ricco e più complesso musicalmente e concettualmente di quello che comunemente non si crede (c'è persino un retrogusto prog!). C'era un'anima, insomma, oltre a una gran voglia di mettere in scena il jet-set, con gli yacht, le ragazze, gli abiti à la page e le inquadrature dai divi di alto profilo. Che piaccia o no, questa fu la (nuova) luce in fondo al tunnel del punk.

C'è tutto un movimento legato all'audio binaurale che sta crescendo anche se la maggior parte di noi non se n'è ancora accorta. Certo, per "gustare con le orecchie" queste sonorità diffuse e tridimensionali occorre avere le cuffie, cosa che non sempre succede, anche se nell'era del podcast è sempre più comune un ascolto di questo tipo. L'audio binaurale (ahimé questa è la traduzione italiana di "binaural"), come questo esempio Walking in Thunderstorm (opens new window), con pioggia leggera e suoni della natura, serve per addormentarsi, per studiare o lavorare concentrati, per meditare. Soprattutto, occorrono dei microfoni configurati in maniera particolare per poterlo registrare, ma i risultati sono comunque molto particolari. Sembra di esserci, avrebbe detto mio nonno. Altri esperimenti li trovate ad esempio qui (opens new window): sono l'ideale se usate un visore tipo Oculus per una immersione totale. Da notare che è comunque una variante di registrazione stereo e che la sua scena tridimensionale è comunque sintetica, non reale. Se abbinate però a una sequenza di immagini prese da una città come Tokyo (opens new window), possono essere un diversivo culturale: visita a distanza.

Due artisti che sono anche una coppia nella vita pur facendo cose molto diverse (in due laboratori separati). Letizia Sacchi trasforma le foto dei vostri animali in cartoon: in un'epoca di app e di servizi automatici e basati sull'intelligenza artificiale, PuppyToon (opens new window) è un lavoro da artigiano, fatto a mano, un pet alla volta. Delizioso. Suo marito Pietro Trivelli invece è appassionati dei vecchi tram della Milano di una volta e dei depositi e officine dove vengono ospitati e quando serve riparati: il suo sito Tram Art Milano (opens new window), ma ci sono pitture che rappresentano anche vecchi ambienti di lavoro dismessi. La sua vera cifra, però, è un gusto leggero ma sapiente per la prospettiva. Insieme, con due stili, due strade e due attività differente, Letizia e Pietro costruiscono giorno per giorno la loro officina delle immagini artigianali.


Tsundoku

Ci ha pensato Leo, il mio spirito guida per la fotografia, a farmelo conoscere, perché per me era totalmente ignoto: Ando Gilardi (il nome è una variazione di “Aldo”) è stato un geniale irregolare della fotografia e della cultura fotografica italiana e non solo. Ho letto in questi giorni il suo Meglio ladro che fotografo (opens new window) ed è stata una sorpresa continua. L’ultima parte forse è un po’ più faticosa, con le immagini commentate, ma il succo delle pagine precedenti è molto, molto gustoso. Consigliato.

Poche settimane fa è morto Roberto Calasso, presidente ed editore di Adelphi, che ha legato la sua vita professionale alla casa editrice dove ha lavorato tutta la vita e che ha finito per acquistare e guidare. Adelphi nasce con l’idea di pubblicare sotto il pittogramma cinese “della luna nuova” i libri che piacevano al piccolo gruppo dei suoi creatori, un eterogeneo mix di persone capitanato da Luciano Foà e Roberto Olivetti (loro i fondatori, nel 1962) a cui partecipavano Roberto Bazlen, Giorgio Colli, Sergio Solmi, Claudio Rugafiori, Franco Volpi, Roberto Calasso e Giuseppe Pontiggia. Se il punto di forza economico e culturale della nascente casa editrice è stata la nuova edizione di Friedrich Nietzsche (che era talmente ben curata da far diventare quella in italiano di Adelphi la base per altre edizioni critiche nel resto del mondo), il primo libro della Biblioteca pubblicato nella gabbia grafica dell’illustratore ottocentesco Aubrey Beardsley è stato il solo romanzo di Alfred Kubin, L’altra parte (opens new window), che mi sono portato in montagna questa estate. È una storia onirica figlia di una epocale crisi di identità, di un sogno allucinato che sconfina nell'esaurimento nervoso di un uomo e di una generazione. "Kubin era boemo e il romanzo è impregnato dei chiaroscuri di Praga, luogo d’incontro di una cultura raffinata e stanca di forze brutali: città del Golem e di alchimisti, di anditi oscuri e di pericoli in agguato. È la città di Kafka, il quale conobbe Kubin, l’ammirò e ne subì l’influenza, tanto che nelle sue opere si ritrovano, soprattutto nel Castello, alcuni dei motivi fondamentali di L’altra parte".

La città e la metropoli (opens new window) è il primo romanzo che venne pubblicato di Jack Kerouac. Ci sono molti dei temi che verranno ripresi e ampliati nel suo ben più famoso On the road (opens new window), come il viaggio, che è il moto perpetuo del mondo. Per Kerouac non bisognava mai stare fermi, anzi: meglio girare, fare l’autostop, salire sui treni, sedersi nei posti in fondo dei mitici Greyhound, correre su vecchie automobili. La vita era un istante che fuggiva; per acchiapparla valeva tutto: la musica jazz, le orge, la droga, la libertà. Se James Dean, il simbolo della gioventù bruciata, era morto a 24 anni in Porsche nel 1955 in un incrocio di Salinas, Kerouac fu il secondo tentativo di una generazione e il risultato fu molto diverso. Era finita la bohème americana degli Anni Venti, in fuga verso le corride e i miti chic della Vecchia Europa, così come quella radicale in cerca di una causa degli anni Trenta. Adesso, nel dopoguerra, il momento era diverso, di trasformazione interiore; l’America si passava dalle piccole città di provincia (come quella dove vive la famiglia Martin) alle grandi metropoli come New York, dove ci si perde per sempre in un’anomia suicida. Come accade ai cinque ragazzi Martin, ognuno dei quali incarna un diverso aspetto della personalità di Kerouac. La città e la metropoli è l’inizio del viaggio “on the road” della Beat Generation.

Coffee break
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Workstation estiva
Workstation estiva ~ Foto © Antonio Dini

Easter Egg

I sette livelli dei fotografi
Di cosa parliamo quando parliamo di artisti, di professionisti, di amatori, di pirla? E soprattutto, come distinguerli? È un tema sul quale mi confronto da anni e che cerco di proporre criticamente anche ai miei studenti dell'indirizzo di sceneggiatura (opens new window) della civica scuola di cinema di Milano, che si confronteranno con questo tema a lungo. Una delle migliori risposte che ho trovato è costruita provocatoriamente come una “classifica idealtipica” che riguarda i sette livelli possibili dei fotografi, che in realtà sono otto: gli artisti (livello 7, il più alto), i "prostituti" (livello 6), gli amatori (5), gli snapshooter (4), i professionisti (3), i ricchi appassionati (2), gli autoerotomani dell'attrezzatura (1) e infine gli esperti online (0).

Questa classifica (opens new window) è stata stilata Ken Rockwell, fotografo e personalità online americana piuttosto originale, che ha creato un sito stile vecchie home page facile e veloce, è composto da tantissime pagine statiche legate fra di loro da una rete di link che uniscono idee ad altre idee, concetti ad altri concetti. È stato ispirazione in qualche modo anche per il mio Mostly Here (opens new window), ma questo è un altro discorso e ne parleremo un'altra volta.

Invece, la cosa più interessante di Rockwell è stata la sua capacità di mettere in fila alcuni concetti di base su cosa si intenda quando si parla di estetica e di l'autorialità. Il mondo, lui dice, è diviso in due: i fotografi che fanno foto e quelli che invece parlano di foto, cioè soprattutto di attrezzatura. La fotografia è un'arte apparentemente molto legata alla tecnologia (in realtà non è così, sopra il libro di Ando Gilardi) ma la realtà è più semplice: una volta capito come si fa a scattare una foto, serve solo il talento, la pratica e la creatività. L'eccesso di tecnicismo o la ricerca dell'apparecchio "magico" (il Sacro Graal) non fa altro che allontanare dall'obiettivo. Lo scopo del fotografo è fare foto, quello dell'apparecchio fortografico è di non essere di ostacolo. Il resto non serve.

Avere una idea di estetica di base e collocarla sulle differenti pratiche (o mancanza di pratica) è il primo passo per orientarsi anziché farsi portare via dalla pubblicità consumista della prossima macchina fotografica. Anche perché un artista può usare qualsiasi strumento, non è quello il problema. Eric Clapton "suona" come Eric Clapton anche con una chitarra per bambini, mentre Stephen King scrive anche se gli date la videoscrittura su un Commodore 64.

"Solo perché un qualsiasi appassionato di auto può dirti ogni possibile specifica di una Ferrari non significa che sappia guidare, tanto meno competere, tanto meno in Formula 1 e ancora meno vincere. La maggior parte di queste persone vive in posti dove non hanno mai nemmeno visto una Ferrari, figuriamoci possederla". La capacità di riuscire a comprendere dove stanno le persone che abbiamo di fronte e le loro opere è il primo passo per capire cosa stiamo facendo e dove siamo noi. Il resto è una enorme distrazione che può solo perderci.




I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.



“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”

– G.K. Chesterton


END




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