[Mostly, I Write ~ The Last Beta ~00b]

Quasi ci siamo ~ Nostalgia, utopia e nomadi digitali


by Antonio Dini
Numero 00b ~ 27 febbraio 2019

QUASI CI SIAMO

O miei prodi happy few betanauti della newsletter di Mostly, I Write, quasi ci siamo: con questa seconda beta più o meno ho visto tutto e si conclude la sperimentazione. Dalla prossima, diventiamo ufficiali. Prima però voglio provare un'ultima cosa con un altro formato: un numero monografico (a parte questa intro) e via pedalare.

Alcune informazioni di servizio: tutti voi che vi siete iscritti mandandomi il vostro indirizzo di mail via Telegram – e voi sapete chi siete – non dovete preoccuparvi, perché siete già inseriti dentro il database di TinyLetter (dal quale potete cancellarvi subito, per sempre, in qualunque momento: il collegamento è alla fine della mail). Non c'è comunque bisogno di iscriversi un'altra volta, adesso che finisce la beta. Ditto per chi invece si è iscritto via web con la procedura "normale". Tra le altre cose, il link per la pagina delle iscrizioni di TinyLetter nella prima beta era sbagliato (colpa mia!). Quello giusto è in calce a questo e ai futuri numeri. Comunque, è: https://tinyletter.com MostlyIWrite

Se questo numero della newsletter vi arriva perché un vostro conoscente -nonché abbonato- ve l'ha inoltrata giudicandola di vostro potenziale gradimento (ehi, grazie!), dovete comunque registrarvi per continuare a riceverla.

Un'ultima cosa, happy few: se avete altri commenti, osservazioni, dubbi, riserve, vedete bug o typo e insomma vi va di dire qualcosa - inclusa una paccazza sulla spalla - feel free. Sono anche su Telegram come @antoniodini, oppure posso essere raggiunto rispondendo direttamente a questa email.


Il vecchio ferro da stiro
Il vecchio ferro da stiro. Because we can – Foto dell'autore con la sua Ricoh GR II

NOSTALGIA, UTOPIA e NOMADI DIGITALI

Un tuffo all'indietro. Prendo le mosse da una newsletter storica, TidBITS (opens new window), che questa settimana (nel numero 1454...) ha un lungo articolo (opens new window) del suo fondatore, Adam Engst, dedicato a chi viaggiava con la tecnologia nel 1999. Stiamo parlando dei primi "nomadi digitali", per intenderci. Un argomento sul quale mi sono dilungato in passato (opens new window).

La prima cosa da capire è semplice: i nomadi digitali vogliono reinventare il modo in cui si fanno i lavori "creativi" e da impiegato di concetto. Le loro caratteristiche principali sono due: gli strumenti di lavoro che usano per fare quel che serve, la tastiera del computer e gli altri gadget digitali (tablet, smartphone), e il modo con cui entrano in relazione con il loro lavoro, tramite connessione a internet.

Bene, Engst prende le cose da un altro punto di vista: niente teoria o analisi (come ho fatto io) e invece tanto racconto. In particolare, memorie del tempo che fu. Sono passati vent'anni e qualcosa vuol dire. In due articoli per TidBITS, cioè "Working Off the Beaten Track" parte prima (opens new window) e parte seconda (opens new window) rispettivamente del 6 dicembre 1999 e del 28 febbraio 2000, il prode Gideon Greenspan, imprenditore ancora in circolazione (all'epoca abitava a Londra, oggi a Tel Aviv), ha deciso di gestire la sua software house tramite il suo portatile:

between 18-Oct-99 and 08-Dec-99 I'm roaming the Far East with my company, Sig Software, literally strapped to my back

Il portatile in questione era un PowerBook G3, con un drive Zip e qualche cartuccia per fare backup, software vari intelligentemente (e artigianalmente) intrecciati tra loro su System 8, nonché un modem e un abbonamento che permetteva di connettersi da ovunque nel mondo tramite connessione telefonica. Più o meno.

Costo del setup dell'epoca: 3.500 dollari, cioè circa 5.100 dollari di oggi. Per noi adesso sono 4.460 euro. Questo mi ha fatto tra le altre cose ricordare perché ho comprato il mio primo portatile solo nel 2001: un iBook 500 GHz bianco che ancora mi guarda sospettoso ogni volta che apro l'armadio della cameretta e che all'epoca era costato 1200 euro o giù di lì.

Il nomadismo digitale era un sogno, un desiderio, una aspirazione. Praticarlo non era facile, almeno se si vuole fare un paragone con l'attuale generazione Starbucks: in questo momento ad esempio sono in un bar di Milano che sto scrivendo collegato in WiFi. Fantascienza. All'epoca si viaggiava con una decina di chili sulla schiena, adattatori e trasformatori pesantissimi oltre al computer – che aveva al massimo tre ore di autonomia – mentre il sogno era la leggerezza, che sarebbe arrivata dopo con nuovi smartphone, tablet e ultrabook (nel mio caso: iPhone, iPad mini e MacBook Air 11). E connessione ubiqua: quando penso alla eSim (opens new window) dei nuovi iPhone X/XS e degli ultimi iPad e Pixel 3, mi rendo conto che stiamo per fare (opens new window) finalmente il salto della connettività totale, o almeno spero.

Il personaggio del mio articolo per Link – Idee per la televisione, cioè Steve Roberts, aveva anticipato decisamente i tempi e, in qualche modo, lo aveva fatto sotto gli occhi di tutti, almeno negli Stati Uniti:

"È nei volti degli uomini d'affari che sudano nei loro completi. È nel volto dei giornalisti che si accorgono, dopo pochi minuti che mi stanno intervistando, che io vivo il loro sogno. È nelle facce dei giovani e dei vecchi che si girano per dare un'occhiata mentre io sfreccio sotto le finestre dei loro uffici. È ovunque, perché è un desiderio universale. È il desiderio della libertà".

Ma ricordo che anche in Italia, a cavallo del nuovo millennio, avevamo vissuto con più o meno l'intensità del nomadismo digitale. A Milano c'era il POC (opens new window). PowerBook Owner Club, una associazione che faceva dei portatili di Apple il suo punto di forza (di cui sono stato membro anche io). Mentre alcune famiglie hanno deciso di utilizzare la rete e l'informatica da passeggio come strumento abilitante per vivere in un altro modo: la mia collega Arianna Dagnino (opens new window), ad esempio, che con il marito e figli ha vissuto tra Australia e Canada, scrivendo libri (opens new window) e una abbondanza di saggi (qui bello lungo in PDF (opens new window)) che parlano dei "grandi attraversatori di frontiere" (multimediali, multietniche e multiculturali):

Si sentono a casa a New York come a Bombay, sono "sradicati" ma hanno famiglia, passano dal sushi al chicken tandoori con la stessa facilità con cui passano dal "Washington Post" a "Le Monde". Parlano più di una lingua straniera, utilizzano quotidianamente le tecnologie più avanzate (dalla posta elettronica alle videoconferenze) e sono, generalmente, liberi professionisti. Parliamo di individui che hanno sviluppato una rara abilità transculturale, capaci di nuotare agilmente fra le acque delle differenze etniche, sociali e linguistiche. Per loro instaurare rapporti d'affari a Parigi o a Tokyo, con un tycoon della finanza locale o con un hacker dell'underground informatico non fa alcuna differenza; e questo non perché sono maghi del business ma perché, nella maggior parte dei casi, conoscono e comprendono entrambe le culture (francese e giapponese, istituzionalizzata o alternativa) dall'interno. Veloci e flessibili di pensiero, hanno come unica fede terrena il cosmopolitismo. Grandi esperti in fatto di repentine metamorfosi, sanno calarsi in qualsiasi habitat reale o virtuale mantenendo intatta la loro intrinseca e complessa identità. Di fronte alla più banale delle domande, "Da dove vieni?", ammutoliscono e, dopo un breve silenzio impacciato, rispondono con un'altra domanda, questa volta sconcertante: "In quale anno?". Questo è il profilo sintetico in cui si riconoscono i "nomadi globali", i nuovi cavalieri erranti della civiltà digitale. Rappresentano, per il momento, una fetta esigua e poco appariscente della forza lavoro mondiale ma sono destinati a diventare l'élite, influente quanto indispensabile, di una nuova era.

Utopia, direte voi. In parte è così. Oggi è stata sostituita da tanto precariato e da una serie di relazioni definite "liquide" perché instabili, prive di certezze. Arianna comunque non è stata l'unica. Su Twitter da anni seguo le tracce di una coppia di designer digitali (opens new window) (Rekka (opens new window) - questo è il suo sito (opens new window) – e Devine (opens new window)) molto più giovani di me che hanno deciso di vivere in barca, navigando attraverso il Pacifico – attualmente. Cosa conta la loro nazionalità d'origine? Niente.

Ci sono chiavi di lettura più sofisticate, ovviamente. La prospettiva sui nomadi digitali è solo una tessera del mosaico della società in cui viviamo. La cui complessità è difficile da percepire ma che, come sistema, ovviamente coesiste tutto insieme e interagisce per quanto fenomenologicamente possibile. Voglio dire: lo sguardo tecno-ottimista di chi vuole cogliere le opportunità della rete per disancorarsi dalla coincidenza di luogo di lavoro, di relazione e di vita.


Dynabook
(Disegno originale di Alan Kay)

Concludo ricordando un vecchio libro del 1974 di Stewart Brand, II Cybernetic Frontiers (opens new window), al cui interno c'è un bozzetto di un computer immaginato nel 1972 da Alan Kay (scienziato informatico di notevole spessore e vincitore del premio Turing) chiamato Dynabook.

La sua idea (qui il Pdf) (opens new window) di computer per i bambini, per quanto ancora basata su tastiera e stilo, è di una modernità impressionante. I due bambini che giocano sull'erba, disegnati dallo stesso Kay, sono i ragazzi di oggi con i tablet che siamo riusciti a realizzare dopo quasi quarant'anni. Tecnologie che liberano qualcosa di più che non semplicemente il gusto ottocentesco per l'esotismo (opens new window) da nomadi-borghesi dei paesi ricchi dell'Occidente bianco. È uno spirito diverso, una forma pervasiva di informatica, non più personale in senso tecnico ma nuovamente centralizzata nella nuvola digitale della rete.

Una informatica che pone, come sappiamo, problemi molto più complessi che non trovare casa per le vacanze su AirBnB: pervasività dei social media come strumento primario di relazione, liquefazione dei legami forti ed emergenza dei legami sociali deboli, disintegrazione della privacy, perdita del senso e dei legami tradizionali, rischi di derive demagogiche e di super-controllo automatico. Ma anche, telelavoro, tipi completamente nuovi di alienazione, frantumazione delle forme tradizionali di occupazione. Tuttavia, questi sono argomenti per altre newsletter.


END


Avete ricevuto questa email in non so quanti, perché TinyLetter non ha un contatore automatico da aggiungere in fondo. Pazienza, ce ne faremo una ragione.


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