La setta dei supercomputer
Com'è che una vecchia chiesa sconsacrata è diventata la casa di Marenostrum, uno dei più importanti sistemi europei di calcolo ad alta prestazione
(pubblicato a marzo 2019)
C’è una leggenda che viene raccontata dai vecchi studenti del Politecnico di Barcellona alle matricole di ingegneria. Il vecchio rettore non mangiava i bambini, certo, ma odiava le chiese abbastanza da volerle sconsacrare e riempire tutte di computer. C’è chi dice che addirittura sostenesse che ”quello era il loro unico uso possibile”. Ma è solo una leggenda.
Nel 1975 il Politecnico ha acquistato numerose proprietà nella zona, incluso un collegio femminile oramai fallito, e ne ha sconsacrato la cappella: nella lunga sala goticheggiante costruita negli anni quaranta, dove due generazioni di educande cantavano le novene di Natale, si sono tenute lezioni di meccanica, conferenze internazionali, addirittura concerti, ma solo di musica classica. «Fino a un giorno in cui il governo ci ha detto: avete quattro mesi per allestire un supercomputer che permetta alla Spagna di entrare nella classifica Top500, la più importante e prestigiosa al mondo, la Formula uno dei computer». Sergi Girona, direttore delle operazioni di Marenostrum 4, la quarta versione del supercomputer di proprietà al 60% del governo di Madrid, al 30% dello stato di Catalogna e al 10% del Politecnico di Catalogna, sorride e ruota su se stesso: «Ed ecco qui, il più potente computer della Spagna, il numero 13 al mondo».
Le chiese sconsacrate fanno presto a diventare qualcosa di diverso, ma raramente così diverso: al centro della navata centrale, occupandola praticamente tutta, c’è un gigantesco parallelepipedo di vetro. Se si sale sul matroneo una passerella di metallo permette di camminare sopra al cubo. È un percorso studiato per poter contemplare la macchina da una posizione di vantaggio. All’interno del parallelepipedo, in un ambiente completamente controllato e isolato dall’esterno, ci sono 72 armadi di metallo alti quasi due metri, ognuno con al suo interno 42 unità di calcolo. L’intera struttura consuma 72 kilowatt all’ora e alimenta un supercomputer composto da poco meno di 3.500 processori, i “nodi” della rete, con 400 terabyte di ram e 15 petabyte di memoria di archiviazione.
L’autore del ”Codice Da Vinci“ come avrebbe potuto resistere all’idea di una chiesa che ospita un supercomputer dentro una gigantesca bacheca di vetro?
Si può entrare dentro Marenostrum solo passando attraverso una doppia porta trasparente, come nelle banche. L’ambientazione è talmente scenografica da aver vinto anche il premio per il “più bel supercomputer al mondo”. Due volte. E la produzione di Origin, il prossimo film con Tom Hanks tratto dal libro di Dan Brown, ambienterà qui una delle scene chiave. Dopotutto, l’autore del ”Codice Da Vinci“ come avrebbe potuto resistere all’idea di una chiesa che ospita un supercomputer dentro una gigantesca bacheca di vetro?
L’ironia non sfugge a Girona, il quale però vede più il ritorno di immagine per la sua creatura e si è fatto in quattro per ottenere tutti i permessi del caso. Girona comanda un piccolo esercito di 605 persone (”Con 48 nazionalità diverse”, ci tiene a sottolineare) tra scienziati, personale amministrativo, tecnici. È l’equipaggio dedicato ai mille metri quadri del Marenostrum 4 e a farlo bordeggiare nel mercato della computazione ad alta performance, HPC (high performance computing), cioè quelli che una volta avremmo chiamato supercomputer.
Ogni minuto della vita di Marenostrum 4 è affittato a ricercatori spagnoli e di tutto il resto d’Europa per poter eseguire esperimenti costruiti come dei modelli matematici. Simulazioni che verificano milioni di possibili alternative ad esempio nella ricerca chimica o biomedica, e indicano le vie più promettenti che verranno testate sul campo. «Anche se accademico, è un mercato estremamente competitivo. Serve un perfetto equilibrio tra potenza, costi e listino prezzi, altrimenti la ricerca si sposta su altri supercomputer». E in Europa ce ne sono vari altri, compreso il fiore all’occhiello italiano, cioè il Marconi del Cineca di Bologna, che ha oltretutto una posizione di un posto più alta in classifica: la numero 12.
Entrambi i supercomputer però appartengono alla stessa famiglia, quella degli apparecchi realizzati dalla cinese Lenovo, proseguendo il ramo d’impresa ceduto dall’americana Ibm nel 2014. I supercomputer con architettura sviluppata da Lenovo sono in gara con gli altri due big del settore, le americane Dell e HPE, la parte di Hewlett Packard dedicata al settore dedicato alle grandi imprese. La britannica Cray, la giapponese Fujitsu e la stessa Ibm, che continua a sviluppare un’altra architettura di supercomputer.
L’evoluzione tecnologica dei supercomputer è impressionante: ogni decennio aumentano di un ordine di grandezza la capacità di calcolo, che è il criterio con il quale si misurano le loro performance. L’organizzazione non profit Top500 dagli anni Novanta esegue un test chiamato Linpack che permette di avere il punteggio finale sia nelle attività di picco che in quelle sostenute: nel 1997 è stato superato il muro del teraflop (milione di calcoli al secondo), nel 2008 è stato superato quello dei petaflop (miliardi di calcoli, Marenostrum 4 con i suoi 3.456 nodi arriva a 11,1 petaflop) e per il 2021 è previsto che si passerà il traguardo degli exaflop, miliardi di miliardi di calcoli al secondo.
Nell’era del cloud il supercomputer ha un ruolo molto preciso e tutt’altro che secondario
La classifica Top500 è paragonata alla Formula uno per vari motivi. È il luogo dove si sperimentano le nuove tecnologie che arriveranno più avanti per tutti gli altri. E offre anche uno spaccato geopolitico di chi sta avanti e chi sta indietro nella ricerca applicata ai supercomputer. I primi due supercomputer oggi si chiamano “Summit” e “Sierra”, sono entrambi americani, costruiti da Ibm e sono stati voluti dalle due eccellenze della ricerca americana: Oak Ridge e Lawrence Livermore National Laboratory. Il terzo è cinese e si chiama Sunway TaihuLight, di proprietà del National Supercomputing Center di Wuxi. Dei primi 10 supercomputer, cinque sono americani, due cinesi e uno rispettivamente svizzero, giapponese e tedesco.
Ma la Top500 è anche un gigantesco catalogo per mostrare al resto del mercato cosa possono fare i supercomputer. Un mercato che è tutt’altro che irrilevante. Nell’era del cloud, infatti, il supercomputer ha un ruolo molto preciso e tutt’altro che secondario. Con una sua classifica molto precisa: per fatturato in quest’area guida HPE, seguita da Dell e da Lenovo. I tre si dividono un mercato che 35 miliardi di dollari e che nel 2020 arriverà a valere circa 50 miliardi.
«Il mercato degli HPC è stabile e cresce da lungo tempo», mi spiega Addison Snell, analista che da più di venti anni segue solo questo settore con la sua società Intersect 360.
La forma del mercato è semplice: la ricerca accademica assorbe il 17,7% dei supercomputer in funzione, i sistemi governativi (locali o nazionali, compresi i centri di ricerca nazionale) sono al 25,7% e tutto il resto, cioè il 56,6%, è in mano alle imprese.
«Ci sono due pregiudizi che vanno superati – dice Snell – e cioè che i supercomputer stiano lasciando il posto al cloud e l’altro è che siano utilizzati solo dai centri di ricerca accademici e governativi. Invece, è esattamente l’opposto. Il mercato non è mai stato vitale come oggi e mai così orientato al privato».
La storia della CEP spiega perfettamente a cosa servono i supercomputer oggi e sta tutta in una lettera scritta dal premio Nobel Enrico Fermi al rettore della sua alma mater pisana
Per capire come mai mi devo spostare in Italia, a Pisa. Qui, al Museo degli strumenti per il calcolo dell’università diretto da Fabio Gadducci, è ospitata la CEP, la Calcolatrice Elettronica Pisana. Il primo computer e supercomputer (all’epoca non c’era differenza) progettato e costruito interamente in Italia nel 1961. La storia della CEP spiega perfettamente a cosa servono i supercomputer oggi e sta tutta in una lettera di una paginetta scritta dal premio Nobel Enrico Fermi al rettore della sua alma mater pisana. Due docenti di Pisa lo avevano raggiunto a Varenna nel 1954 dopo che l’università toscana aveva perso la gara indetta da Roma per la costruzione del primo elettrosincrotone italiano (vinta invece da Frascati), per chiedergli quale possibile impiego per i fondi già raccolti. Fermi rispose con lucida semplicità: un computer. «Essa costituirebbe un mezzo di ricerca di cui si avvantaggerebbero in modo, oggi quasi inestimabile, tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca».
Fermi, che conosciamo per la ricerca sulla meccanica quantistica e la fisica nucleare (ha progettato e costruito il primo reattore nucleare a fissione negli Usa), è stato anche uno dei primissimi scienziati a studiare la simulazione numerica. Un ambito inutile, se l’esecuzione dei calcoli è più lenta dell’esperimento scientifico che deve simulare. Cosa succede, però, quando i bit del computer diventano più veloci degli atomi?
Mi sposto a Las Vegas, in uno dei conference center distesi tra le torri dei grattacieli dello Strip, il lungo viale dove accanto agli hotel e ai casinò si trovano alcuni dei più grandi centri convegni del pianeta. Madhu Matta è responsabile per il segmento HPC e AI (intelligenza artificiale) di Lenovo. Attraversa il mondo più di quaranta volte all’anno per incontrare clienti, andare in centri di ricerca, vendere supercomputer. «È il migliore lavoro al mondo: parlo con gli scienziati per capire quali problemi devono risolvere. Abbiamo sequenziato 20mila genomi del Dna, 120 milioni di miliardi di combinazioni. Abbiamo isolato le quattro sequenze mutate. Oppure abbiamo addestrato un sistema di intelligenza artificiale per riconoscere delle malattie della retina altrimenti impossibili. Il mio lavoro è trasformare questa enorme potenzialità in un prodotto articolato e comprensibile per le aziende».
"Gli HPC permettono di razionalizzare la spesa e di avere un budget dedicato per obiettivi ben definiti"
Il mercato delle aziende ama i supercomputer: dai sistemi entry level da 50mila dollari fino ai supercomputer da più di 1,5 milioni, le classi di HPC permettono di razionalizzare gli investimenti e offrono un percorso prevedibile per i contabili e i pianificatori d’azienda. «C’è un’impresa che fa tergicristalli di alta qualità – mi diceva Snell – che ha investito in un sistema midrange da meno di 250mila dollari. È diventato il loro centro di ricerca e sviluppo: simulano milioni di possibili forme dei prodotti prima di testarne anche solo una. Oppure i produttori di saponi per lavapiatti, che creano nuove capsule hi-tech calcolando tutti i possibili impieghi e stress a cui verranno sottoposte. E soprattutto servizi finanziari, che usano più di tutti gli altri settori industriali gli HPC per sviluppare e testare le soluzioni con l’intelligenza artificiale. Avremo prima servizi finanziari su misura che non auto che si guidano da sole o medicina personalizzato».
Un HPC ha prestazioni che i sistemi distribuiti, quello che genericamente chiamiamo “cloud”, neanche si sognano. E poi gli HPC sono un investimento anche fisicamente separato dal resto dei sistemi aziendali. «Permettono di razionalizzare la spesa – dice Madhu Matta – e di avere un budget dedicato per obiettivi ben definiti. Vengono usati da due decenni per fare analisi dei rischi e trading ad alta frequenza».
Torniamo a Barcellona. Girona mi accompagna fuori dalla chiesa che contiene il Marenostrum 4. Il sistema è relativamente nuovo, in un corridoio laterale che conduceva alla sagrestia sono conservati alcuni armadi pieni di server delle tre precedenti iterazioni, una specie di piccolo museo per ricordare a Girona e ai suoi da dove vengono. «La prossima versione – dice quasi a se stesso – utilizzerà un tipo di raffreddamento diverso, chiamato Poseidon. Oggi il 45% dell’energia che Marenostrum consuma serve a raffreddarlo. Presto verrà raffreddato con un liquido neutro, in maniera molto più economica ed ecologica».
Per un momento compare l’immagine fantastica di un parallelepipedo di vetro pieno d’acqua azzurra, al centro della chiesa sconsacrata, con all’interno una batteria di armadi neri screziati dalle luci colorate costantemente lampeggianti.
È un attimo, poi usciamo in una giornata assolata di Madrid.
(pubblicato a marzo 2019)