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La proprietà è un mezzo furto

Doveva studiare il passaggio all’economia di mercato dei socialismi reali. Dopo dieci anni di analisi un autorevole giurista americano è arrivato alla conclusione che non ti aspetti: troppa proprietà privata fa male e i beni pubblici vanno difesi

(pubblicato a dicembre 2009)

Si chiama Michael Heller, è considerato uno dei principali esperti di diritto immobiliare negli Stati Uniti. Le sue lezioni alla Columbia Law School di New York attirano da anni il solito gruppetto di studenti ambiziosi che spera di fare una carriera rapida e danarosa nei grandi uffici legali dell’East Coast, specializzandosi in compravendite e consulenze immobiliari. Ma da quindici anni Heller sta maturando una teoria rivoluzionaria, che mette a soqquadro le certezze consolidate del sogno americano.

Secondo il quarantenne studioso americano, infatti, la proprietà privata quando è troppa fa male all’economia. Invece, al suo posto ci vuole sempre un po’ di sano collettivismo e di gestione centralizzata da parte dello Stato. Perché l’eccesso di proprietà privata, dice Heller, alla fine ci impoverisce tutti quanti.

La tesi è dirompente soprattutto oggi, nel momento storico che stiamo vivendo: abitiamo in modo precario un mondo post-ideologico in cui non si dubita più del libero mercato, della sua “mano invisibile” e soprattutto del concetto centrale di proprietà privata. La guerra delle ideologie del Novecento è stata vinta da questo sistema di pensiero. Oppure no?

Alla faccia di chi credeva che, dopo il comunismo, nessuno si sarebbe più preoccupato di riflettere sul significato e i modi alternativi per gestire il possesso di beni

A sorpresa, infatti, il futuro della proprietà privata è quello di essere rimessa in discussione. Perché non solo sta cambiando l’orientamento delle persone, ma sta mutando radicalmente la stessa natura della proprietà. Alla faccia di chi credeva che, dopo il comunismo, nessuno si sarebbe più preoccupato di riflettere sul significato e i modi alternativi per gestire il possesso di beni.

Heller però non è un opportunista, uno che annusa l’aria, coglie i segnali del cambiamento (peraltro, già presenti in abbondanza) e imbocca la strada più facile per il successo personale. In realtà sono passati più di tre lustri da quando il giovane studioso americano ha cominciato a occuparsi della transizione dei paesi ex comunisti all’economia di mercato.

Quello in Europa è stato il suo primo incarico di ricerca. Una mole di lavoro notevole, che l’ha messo a contatto con le dottrine europee e l’ha fatto muovere verso la parte Est del Vecchio Continente. Portandolo a visitare i paesi che studiava. All’inizio incontrando la gente e cercando di capire come si potesse cambiare un blocco organizzato in modo compatto attorno all’idea che la proprietà fosse un furto e come tale da evitare. E poi cominciando a chiedersi come mai il cambiamento incontrava tante difficoltà.

Non c’era solo il problema della mancanza di abitudine o una supposta “incapacità slava” all’economia di mercato, rifletteva Heller. E sulle riviste giuridiche di Harvard e di Yale già un decennio fa il giurista pubblicava analisi e saggi in cui scendeva nel dettaglio, indicando situazioni in cui in effetti, le alternative all’economia di mercato apparivano lampanti. Però il suo lavoro, all’epoca, non aveva attirato molta attenzione. Il momento storico non era favorevole alla messa in discussione della proprietà privata. Quel che lo studioso aveva imparato in Europa, ai piedi del dissolto gigante comunista, non interessava alla comunità giuridica e politica americana.

La prima osservazione che Heller fece, negli anni Novanta, fu che i grandi magazzini russi, dopo il crollo del comunismo e l’apertura all’economia di mercato, rimanevano vuoti. Però in strada fiorivano i gazebo dei negozi improvvisati

Heller tuttavia non ha smesso il suo lavoro di ricerca. L’idea sulla quale ha sempre lavorato è quella di bene pubblico collettivo. Che nella Russia sovietica copriva praticamente tutto. La prima osservazione che Heller fece, negli anni Novanta, fu che i grandi magazzini russi, dopo il crollo del comunismo e l’apertura all’economia di mercato, rimanevano vuoti. Nessun negoziante li affittava. Però in strada fiorivano i gazebo dei negozi improvvisati. Il motivo non erano solo i prezzi elevati, ma anche la difficoltà eccessiva per ottenere licenze e permessi, che dovevano essere emanate da una pletora di uffici amministrativi all’improvviso privatizzati.

A differenza di molti compatrioti di Heller, che avrebbero risposto con la ricetta del liberismo più radicale, il giurista si cominciò a interrogare sulla natura profonda del problema. E coniò l’espressione “tragedia degli anti-commons”, giocando sulla “tragedia dei commons” (cioè dei beni collettivi) descritta nel 1968 dall’ecologista Garrett Hardin.

L’idea di Hardin è legata all’egoismo delle persone: se tutti hanno un accesso indipendente a una risorsa comune (il common), la sfrutteranno fino a ridurla ai minimi termini. È sotto gli occhi di tutti lo sfruttamento delle risorse del nostro pianeta. L’idea di Heller, invece, è legata a un altro pensiero. Quello secondo cui alcuni beni perdono valore per la società a causa di un eccesso del male opposto: troppa proprietà privata.

Heller ha passato gli ultimi dieci anni a lavorare su questa idea, fino a condensare le sue conclusioni in uno snello volume, mai tradotto in italiano. Il libro si intitola The Gridlock Economy, cioè “L’economia in stallo”, e cerca di mettere a fuoco un concetto semplice: alcuni beni, materiali o immateriali, non possono essere lasciati in mano ai privati (società o persone che siano) perché non è efficiente il modo in cui li usano, creando così problemi alla società.

Secondo la ricostruzione di Heller, la ragnatela di brevetti attualmente in mano alle grandi aziende farmaceutiche ha infatti l’effetto di bloccare interi filoni di ricerca, non più praticabili da terzi perché dovrebbero pagare ai possessori dei brevetti di base delle cifre altissime per sviluppare i nuovi farmaci

Un esempio: i brevetti di molecole o processi industriali farmaceutici. Cinquanta brevetti stanno bloccando la produzione di nuovi farmaci per la cura del cancro. Secondo la ricostruzione di Heller, la ragnatela di brevetti attualmente in mano alle grandi aziende farmaceutiche ha infatti l’effetto di bloccare interi filoni di ricerca, non più praticabili da terzi perché dovrebbero pagare ai possessori dei brevetti di base delle cifre altissime per sviluppare i nuovi farmaci.

Ancora: l’organizzazione degli aeroporti negli Usa, dove il mezzo miliardo di persone che vola ogni anno in quel paese perde in media tre giorni di vita aspettando una coincidenza. Basterebbero solamente 25 nuove piste, costruite in piena sicurezza e nel rispetto delle norme ambientali, per trasformare radicalmente in meglio il traffico aereo nazionale e intercontinentale di quasi metà del pianeta. Invece, bastano alcune centinaia di proprietari di casa particolarmente testardi e organizzati in comitati per bloccare qualsiasi sviluppo.

E poi c’è il problema dell’allocazione razionale delle onde radio, lasciate invece in balìa di una serie di soggetti diversi, che si appropriano dell’etere e lo utilizzano per scopi commerciali diversi, con il risultato di frammentare questa risorsa scarsa, limitando l’accesso soprattutto a soggetti con meno potere economico. Oppure il pasticcio della creazione di fonti di energia rinnovabile eolica in Texas: la vogliono praticamente tutti i cittadini dello Stato americano, uno dei più sensibili alle tematiche ambientali visti i disastri di cui è responsabile, ma la realizzazione dei mulini ultramoderni e adeguati sia al rispetto dell’ecosistema costiero sia all’impatto paesaggistico è bloccata da qualche dozzina di comitati locali di cittadini e piccoli proprietari terrieri.

La proprietà privata, dice Heller quando comincia il suo ragionamento sulla tragedia degli anti-commons, di solito crea ricchezza. Ma troppa proprietà privata, spiega, produce un effetto opposto e paradossale: lo stallo. È uno dei tanti paradossi dei mercati liberi, che si ha quando troppa gente possiede un pezzetto di bene che, se non viene usato in modo cooperativo, perde valore. E tutti di conseguenza si impoveriscono un po’ o, alle volte, molto.

Gli americani fin dalla Grande Depressione hanno usato l’espressione “robber baron” per indicare i capitalisti che si impadroniscono di potere e ricchezza con metodi scorretti e poco trasparenti. L’origine viene dalla casta dei signori medioevali tedeschi, i “magnati” dell’epoca, che avevano costruito i loro castelli lungo il Reno e che esigevano un pedaggio dalle navi che trasportavano merci lungo la via d’acqua

L’esempio storico più semplice da capire, secondo Heller, è quello dei robber barons, i “baroni ladroni”, e il modo in cui hanno ucciso i fiorenti commerci lungo il fiume Reno. Gli americani fin dalla Grande Depressione hanno usato l’espressione “robber baron” per indicare i capitalisti che si impadroniscono di potere e ricchezza con metodi scorretti e poco trasparenti. L’origine viene dalla casta dei signori medioevali tedeschi, i “magnati” dell’epoca, che avevano costruito i loro castelli lungo il Reno e che esigevano un pedaggio dalle navi che trasportavano merci lungo la via d’acqua. In poco meno di un secolo, spiega Heller, lungo le sponde del Reno la densità dei castelli era diventata così fitta che si poteva raggiungere da un castello quello successivo con una corsa a cavallo di pochi minuti. E di conseguenza lungo il fiume, una volta pieno di barche e chiatte stracariche di merci per tutte le piazze e i mercati d’Europa, non passava più nessun mercante. Una risorsa collettiva abbondante e fruttifera era stata ridotta a un desolato deserto d’acqua.

A collocare un’altra tessera del mosaico sulla proprietà privata del futuro e l’economia dello stallo sono i beni digitali. Producibili e infinitamente replicabili a costo zero da tutti, i prodotti dell’ingegno umano hanno scoperto l’epoca di internet dapprima con la “pirateria” della musica e del cinema, e poi con la condivisione del sapere grazie a forme di “copyleft”, gioco di parole con il diritto di copia (copyright) che indica la volontà da parte di chi crea il bene di lasciarlo a disposizione di tutti. La rete si è così dimostrata un luogo aperto, in cui scambiare liberamente. E in cui le grandi multinazionali del diritto d’autore hanno cercato di bloccare qualsiasi forma di diffusione, anche parziale, dei prodotti che distribuiscono, facendo indurire al massimo le norme sul copyright (e le sanzioni annesse).

Anche qui, sul piano immateriale, il diritto di proprietà è quasi riuscito a uccidere la creatività degli artisti e a impedire a moltissimi di godere del genio artistico dei grandi geni di sempre: pittori, scrittori, musicisti.

La rete si ricorda tutto. Foto e commenti messi in rete cinque o dieci anni fa, magari durante gli anni degli studi, ricompaiono oggi in occasione di un colloquio di lavoro o diventano il fattore discriminante per un’assunzione o una promozione. Chi ne è il proprietario?

L’ultima frontiera, però, riguarda un altro tipo di proprietà. Sono le informazioni personali, che circolano in rete anche al di là della volontà del loro titolare. Tra Facebook e siti web, Twitter e MySpace, la rete si ricorda tutto. Foto e commenti messi in rete cinque o dieci anni fa, magari durante gli anni degli studi, ricompaiono oggi in occasione di un colloquio di lavoro o diventano il fattore discriminante per un’assunzione o una promozione. Chi ne è il proprietario? L’eccesso di soggetti titolati a raccogliere e usare i dati personali, crea problemi crescenti.

Alcune vicende, come quella di Stacy Snyder, aspirante insegnante elementare che si è vista respingere la domanda per via di una vecchia foto su MySpace in cui, travestita da pirata a una festa, beveva una birra. «Esempio di condotta pubblica inammissibile per una maestra». Oppure, il sessantenne psicoterapeuta canadese Andrew Feldmar, arrestato dalla polizia di frontiera americana perché su internet si trovava un suo saggio del 2001 in cui l’uomo ricordava di aver assunto Lsd negli anni Sessanta. O, infine, una giovane donna norvegese, madre single di due bambini e come tale titolare di un assegno sociale, fino a che gli ispettori non hanno trovato sue foto con un uomo su Facebook: cassato l’assegno e proposta la condanna della donna a sei mesi di prigione per truffa.

Sono briciole di informazione che sfuggono dal controllo. La frontiera della proprietà privata adesso confina, grazie alle tecnologie digitali, con il diritto alla privacy. E il bisogno di reinventarsi un modo nuovo di possedere l’informazione, dispersa tra mille contenitori, in attesa di essere raccolta e utilizzata da mille soggetti diversi, senza alcuna titolarità. I “robber barons” del futuro.

(pubblicato a dicembre 2009)