Perché nessuno ce la fa contro Gundam
Gundam: storia, influenze, sviluppi e declinazioni dell’anime ideato da Yoshiyuki Tomino insieme al gruppo creativo della Sunrise nel 1979
Era il 1980 quando una televisione privata italiana, Telemontecarlo (TMC), iniziò a trasmettere Mobile Suit Gundam (da noi tradotto come Gundam il guerriero mobile), ovvero l’anime ideato da Yoshiyuki Tomino insieme al gruppo creativo della Sunrise un anno prima.
Tomino aveva previsto che la saga fosse articolata su 52 puntate. Venne però deciso di terminarla alla numero 39, a causa dei bassi ascolti. La produzione riuscì a negoziare altri quattro episodi (per un totale di 43) che diedero un senso comunque compiuto al racconto del robot Gundam e della Base Bianca. I quarantatré episodi della serie vennero trasmessi in Italia solo in parte: saltarono i numero 30, 33, 39 e 40. E poi, a causa di problemi di diritti mai completamente acquisiti, la serie venne ritrasmessa più o meno illegalmente nei successivi venti anni. Sino ad arrivare alla seconda edizione messa in onda da Italia 1 nel 2004 con un nuovo doppiaggio filologicamente corretto (Peter Rei diventa Amuro Ray, come in originale) e soprattutto imposto come condizione da Tomino in persona. Unica concessione dell’autore al folklore italiano: la pronuncia in italiano rimane uguale a come si scrive, cioè “gundam” e non “gandam”, com’è invece nel resto del mondo.
Non è un dettaglio da poco, perché i giapponesi traslitterano in alfabeto fonetico la pronuncia e non la grafia delle parole straniere, tanto che Mobile Suit Gundam sarebbe in realtà tradotto e pronunciato alla giapponese: Kidō senshi Gandamu (機動戦士ガンダム, per chi si diletta con la yamatologia e ha un browser che supporta Unicode).
Veniamo a noi e al motivo per cui si parla di Gundam qui. Sono 37 anni esatti che la serie è andata in onda in Giappone. Fu uno shock là come lo fu da noi. Ci si aspettavano i robottoni alla Go Nagai (Goldrake, Mazinga e Jeeg, per intenderci) e invece venne fuori qualcosa di molto diverso, cupo, ma anche tecnicamente sostenibile. Un futuro drammatico, composto da due elementi tecnologici e due elementi psicologici che si rivelarono rivoluzionari.
Teoria e tecnica gundamiana
Partiamo da quelli psicologici. Con il primo: non c’è solo il bianco e il nero, esiste anche il grigio. Anzi, predomina: buoni e cattivi sono da entrambi i lati della barricata, non solo dalla parte dei nemici. La cifra postmoderna della narrazione di Tomino si sposa anche con il suo accentuato realismo: i robot si rompono, finiscono i colpi, non funzionano, e dopo ogni combattimento ci vuole un sacco di tempo per rimetterli in ordine. L’orrore della guerra assume una dimensione realistica tremenda per una generazione di bambini dai 5 ai 10 anni. Niente mostri dallo spazio, perché i veri mostri siamo noi.
Secondo dato psicologico: il potere della mente. I new type. Perché, come ogni buona serie di fantascienza o fantasy nipponica, c’è una componente più escatologica, che tratta cioè dei destini ultimi dell’uomo e dell’universo. E la prima serie di Gundam presenta questo tema mettendo al centro il prossimo passo dell’evoluzione dell’umanità. La fusione tra l’uomo e la macchina. Il passaggio a una nuova dimensione spirituale dell’essere. Insomma, c’è speranza, ma solo andando al di là della nostra natura umana. Anche qui, il grigio.
E poi ci sono i due elementi tecnologici, che rendono la narrazione fantascientifica ancora più potente e realistica, e che mi interessano di più. Il primo è il cilindro di O’Neill (opens new window). Nei punti di Lagrange attorno alla Terra orbitano centinaia di isole spaziali: giganteschi cilindri chiamati “Side” che sono habitat per consentire di smaltire la sovrappopolazione della Terra. Una sovrappopolazione in realtà destinata a durare poco: allo scoppio dello scontro tra il Principato di Zeon (gli abitanti del Side più lontano, che si erano resi indipendenti e volevano liberarsi dal potere della Federazione Terrestre, per la quale combattono i nostri “buoni”) si comincia facendo cascare un Side sull’Australia. Fu un discreto disastro, che la sigla della serie mostra ogni volta con drammatica puntualità, generando ansia, paura. Un po’ come la Terra in fiamme di Conan il ragazzo del futuro di Miyazaki, ma senza poi la barca con lui e Lana che veleggiano felici. Quest’altra Terra, probabilmente, non si può proprio salvare.
I cilindri di O’Neill però sono una cosa seria, non una goliardata nipponica: li aveva pensati e presentati al pubblico nel 1977, con il suo saggio The High Frontier: Human Colonies in Space (opens new window), uno dei più straordinari (e meno celebrati) scienziati americani di questo secolo. E sono stati usati in tantissimi romanzi fantascientifici, da Rama di Arthur C. Clarke alla Endless Frontier di Jerry Pournelle, passando per Universo di Robert A. Heinlein. Si tratta di giganteschi cilindri ruotanti (per avere gravità sulle pareti interne) che ospitano terreni coltivabili e un ecosistema capace di sostenersi da solo. Colonizzazione, vita nello spazio.
Gerard K. O’Neill invece era un fisico nato nel 1927 e scomparso a causa della leucemia nel 1992, che ai tempi si era candidato a fare l’astronauta per andare sulla Luna, sostenendo che “essere vivo in quest’epoca e non cercare di partecipare al programma Apollo della Nasa mi sembrava terribilmente miope”. Credeva fermamente che il destino dell’uomo fosse nello spazio (dopotutto, siamo tutti figli delle stelle, nel senso che i nostri atomi sono il sottoprodotto di astri oggi scomparsi) e riteneva che la colonizzazione dello spazio fosse la risposta giusta ai problemi non solo di sovrappopolazione e scarsità di risorse del pianeta. Perché era cresciuto con la passione dello spazio, ma anche con il disincanto del Vietnam seguito alla Seconda guerra mondiale. La scienza al servizio della guerra ingiusta, l’impossibilità di essere etici all’interno dei confini della Terra. Se ci pensate, è il motivo per cui i pionieri lasciarono il Vecchio mondo per trasferirsi in America: ricominciare da zero senza tutte le sovrastrutture sclerotiche del passato.
Durante un seminario, O’Neill scoprì assieme ai suoi studenti quella che sarebbe diventata la poetica di fondo del suo pensiero, formulando una semplice domanda: “Pensate davvero che la superficie di un pianeta sia il posto giusto per l’espansione tecnologica della civilizzazione?”. Il lavoro collettivo dei suoi studenti e dello stesso O’Neill lo portò alla convinzione che la risposta fosse “no”: il futuro era nello spazio. Nelle isole dello spazio. In un altro Eden.
La sua visione, che le riviste scientifiche sistematicamente rifiutarono per un decennio, era materia plasmata da buona parte della space opera degli anni Sessanta e Settanta. Il trapasso verso l’era della fantascienza sociologica, meno supereroistica e avventurosa e più centrata sui problemi della società (un vento contaminante che arrivava, a metà degli anni Sessanta, da Berkeley e da Parigi), non era ancora completo, e si poteva pensare in grande.
Per questo le isole dello spazio, gigantesche cattedrali ruotanti abitate da contadini del futuro in cerca di una pacifica Arcadia nella visione dello scienziato, non potevano non essere centrate dal furore negativo di Tomino, che riteneva impossibile fuggire alla parte dannata della psicologia umana. Lotte di potere, gigantesche armi capaci di distruggere più di metà della popolazione terrestre e spaziale nei primi sei mesi di guerra, ambizioni sfrenate e anche grande coraggio, sacrificio, eroismo. Per il giapponese i Side erano il teatro perfetto per mettere in scena un dramma di guerra in cui gli aspetti più crudeli e cruenti della natura umana potessero emergere. Dopotutto, la generazione di Tomino (nato nel 1941) è quella che è stata testimone dell’annichilazione del Giappone, della fine degli Dei (l’Imperatore che si confessa umano e fallibile, peraltro arrendendosi) e del primo e per adesso unico doppio bombardamento atomico della storia. Basta molto meno per travolgere con il pessimismo qualsiasi visione del futuro.
Quel che serviva a Tomino, però, era un eroe. E questo, secondo elemento tecnologico e intuizione fortunata dell’autore, è il Gundam. E gli Zaku. E tutti gli altri robot antropomorfi che poi vedremo moltiplicarsi quasi all’infinito durante le infinite ripartenze della saga di Gundam: sia nel filone originario Universal Century che nelle versioni espanse, nei “gaiden” (le “biografie alternative”, o storie parallele), nei reboot e in chissà cosa d’altro.
Il robot per essere più realistico non nasce come robot (sennò non ci sarebbe bisogno di un pilota) e neanche come veicolo, bensì come vera e propria armatura. Una armatura mobile, per essere precisi, cioè una sorta di esoscheletro meccanico che ha un preciso punto di ispirazione per Tomino e i suoi: questa volta Robert A. Heinlein, uno degli scrittori di fantascienza più singolari della neanche troppo breve storia del genere.
Verso e oltre Fanteria dello spazio
Il punto di ispirazione, dicono i giapponesi, è Fanteria dello spazio (opens new window) (Starship troopers), romanzone in odore di “fascismo” che è una delle opere portanti di Heinlein assieme a Straniero in terra straniera (invece opera utopica e dichiaratamente hippie, una sorta di Hairs della fantascienza). Dentro Fanteria Heinlein costruisce una società militarizzata che combatte contro una specie aliena che ha quasi annientato il pianeta Terra. Visto dalla prospettiva di un fante della divisione meccanizzata dello spazio (nella pubblicazione su rivista era stato serializzato come Starship soldier), segue in presa diretta l’avventura di Juan “Johnnie” Rico negli anni della guerra contro gli aracnoidi che avevano aggredito la Terra.
È un romanzo militare ma è anche un romanzo di formazione, che fa in qualche modo da contraltare a Straniero in terra straniera (opens new window): mentre quest’ultimo è un romanzo-fiume che racconta le vicende di un ragazzo allevato dai marziani che torna sulla Terra con poteri messianici e completamente svincolato dalla morale nostrana, costruendo un culto-religione basato letteralmente sull’amore e sul sesso, Fanteria dello spazio è costruito su una società in cui solo i veri cittadini (quelli che partecipano al Servizio) hanno diritto di prendere decisioni importanti e amministrare la giustizia (tutti gli altri però godono di libertà di ogni genere, da quella di parola a quella sessuale).
Come le due metà della mela, o di un cervello che arrancava tra il 1958 e il 1960 per portare a termine i suoi due romanzi più noti che corrono paralleli sulla scrivania dello scrittore, sia Fanteria che Straniero (del quale dopo la morte dell’autore venne ripubblicata la versione integrale, ancora più bella e coinvolgente oltre che sostanzialmente lunga rispetto a quella, tagliata brutalmente, che è stata conosciuta per più di trent’anni) sono due romanzi anticonvenzionali, ricchi di inventiva, personaggi affascinanti, situazioni ben pensate.
Fanteria dello spazio è stato tradotto in film negli anni Novanta da Paul Verhoeven con un certo successo (ci sono anche due seguiti, praticamente rimasti invisibili), tralasciando però uno degli snodi principali. È quello relativo alle “tute potenziate”, i mobile suit che poi Tomino farà suoi. Per Heinlein (a cui non interessa addentrarsi troppo nella spiegazione tecnica: le astronavi viaggiano alla velocità della luce e sono guidate da donne, più brave a fare i conti, ma non ci sono le barbose pagine piene di bla bla bla pseudotecnologici per spiegare come fanno a filare così rapide nello spazio) le “tute potenziate” sono praticamente degli scafandri robotizzati, con sensori, servomeccanismi che amplificano i movimenti di chi le indossa (per questo sono scafandri e non robot o macchinari) e il casco contiene schermi trasparenti che oggi fanno parte dell’architettura base di qualsiasi Iron Man possiamo vedere al cinema, ma che nel 1958–60 sono stati praticamente inventati da Heinlein.
Questi grandi scafandri servono a risolvere sia il problema dell’atmosfera incompatibile del pianeta degli aracnoidi nel sistema di Cappella, sia quello della disparità fisica. Sono degli habitat personali, più simili a quello che potremo trovare sui campi di battaglia mediorientali tra uno o due decenni che non a robot alti 18 metri. Il Giappone, invece, aveva di fronte un percorso diverso: le armature dei samurai (a loro volta ispirate agli esoscheletri degli insetti e dei coleotteri) si erano evolute sino a diventare quasi senzienti e gigantesche: super-robot che incarnano il meccanismo del deus-ex-machina, capace di risolvere qualsiasi conflitto in modo violento e assoluto. Bene totale contro male totale. In scontri mitici, ritualizzati, in cui il dolore e il sudore sono proiezioni di energia mentale, non fenomeni fisici.
Tomino porta nello spazio occupato dai super-robot i real-robot, cioè macchinari giganteschi, complessi, ancora visivamente paragonabili ad armature da samurai, che contengono sempre il loro pilota ma sono fortemente piantate, conficcate dentro un mondo reale, fatto di sudore, sangue e dolore. In ultima analisi, di materia reale. Rivedere oggi la serie televisiva originale Mobile Suit Gundam (opens new window) (anche l’edizione con il secondo doppiaggio) è contemporaneamente liberatorio e traumatico. Il tratto espressivo, il mecha design studiato ma non ancora divenuto quasi fine a se stesso: i robottoni di Gundam sono creature post-moderne nel senso che si feriscono e si fanno male, come avviene di solito nelle rivisitazioni hollywoodiane contemporanee dei miti antichi. Per trovare il filo rosso che le unisce al resto della letteratura multimediale basta vedere da Stargate (il film del 1994 di Roland Emmerich) sino all’ultimo Gods of Egypt (2016, di Alex Proyas), e si trova un metodo per dare spiegazioni “naturali” ai fenomeni soprannaturali del mito.
Gundam, l’icona e il suo commercio
Poi, Gundam diventa altro. Il successo del merchandising fa capire in Giappone e nel mondo che la serie ha potenziali enormi e, per un caso quasi paradossale, diventa il più grande successo di sempre. Le serie si moltiplicano, la storia fondante dell’universo di Gundam, quella del primo anime, viene raccontata da Tomino in tre brevi libri (orrendi e quasi illeggibili, pubblicati anche in Italia) che poi ripartono in decine di spin-off, rivisitazioni, universi paralleli, e che si trasforma da Universal Century in una nuova Cosmic Era.
Ci lamentiamo se J.J. Abrams ha scritto un nuovo capitolo di Star Wars che ricalca il primo film di Guerre Stellari uscito nelle sale quasi quarant’anni fa, rimescolando i ruoli ma seguendo la struttura fondante? Non avete visto niente: Gundam è una macchina delle citazioni interne, praticamente un sistema coerente dotato di una sua piccola macchina dei generi capace di creare serie su serie, libri, manga, anime, videogiochi, giochi fisici, modelli, giochi da tavolo, accessori vari. Addirittura un bestione di 18 metri, il mock-up in scala 1 a 1 del RX–78–2, parcheggiato nella piazzeta di Odaiba, l’isola davanti alla baia di Tokyo e parco dei divertimenti elettronici della megalopoli giapponese.
Nonostante ci siano decine di “figli di Gundam” per così dire (da Patlabor a tutto Ghost in the Shell, ad esempio), la dimensione e la densità del fenomeno M.S. Gundam è tale che è quasi inutile distaccarsene. Manca probabilmente solo la riproposizione della Guerra di Un Anno in forma di campagna live, con tanto di figuranti, sulla falsariga delle battaglie della Guerra civile americana o della Secessione. Tutto il resto è già stato tentato e, più o meno, fatto. Gundam oggi riassume visioni molteplici e anche molto lontane tra loro. I personaggi cambiano, entra anche la magia, i quattro presupposti psicologici e tecnici che indicavo sopra evaporano, vengono superati, riletti, riscritti.
Se volete provare a entrare anche solo parzialmente nel mondo di Gundam, potete cimentarvi con il modellismo (che se non altro rende tridimensionale l’esperienza del Gundam e dei suoi avversari, facendone apprezzare la prima causa del suo successo e la finezza del design tecnologico dei suoi mobile suit) oppure potete cercare tra le pieghe del fiume delle scanlation l’ansa poderosa di Gundam e delle sue oltre 50 – ho detto bene: cinquanta – serie manga diverse. C’è da leggere sino alla pensione (che, tra le altre cose, per un giovane d’oggi è un obiettivo praticamente irraggiungibile).
Gundam per me supera anche il fenomeno di marketing creativo circolare dei Pokemon: questi, nati come videogioco, sono poi diventati gioco di carte, poi anime, poi manga e poi di nuovo videogioco e poi di nuovo gioco di carte, portando a ogni nuova iterazione elementi nati nel passaggio precedente. Un fenomeno di crescita tramite interscambio orizzontale che è un caso abbastanza unico. Ma che, posto accanto a Gundam, più che un fenomeno circolare pare un anellino da mettere forse al naso del colosso creato da Tomino. Che, come tutti i grandi artisti, ha preso creativamente a prestito idee altrui, per generare uno dei più spettacolari e complessi fenomeni degli ultimi cinquant’anni.
(Pubblicato il 7 Aprile 2016)