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Tra Milano e Miami


Storia di un viaggio ancora da cominciare, ma che parte assai da lontano


Alitalia

Si avvicina il momento di imbarcarmi di nuovo. Destinazione: Miami. Il volo è di Alitalia, con un A330, lo snello bimotore che traversa l’Oceano grazie alle norme ETOPS che stabiliscono quali sono i margini di sicurezza, cioè la distanza massima in minuti di volo dalla prima pista disponibile in caso di atterraggio di emergenza.

Ripasso un po’ di geografia: le rotte degli aerei sono sempre sorprendenti se le guardiamo su una cartina, perché sembrano prendere la strada più lunga. Non procedono lungo linee rette, come dovrebbero, ma descrivono lunghi archi, deviazioni all’apparenza incomprensibili. In realtà, seguono una logica che si capirebbe meglio utilizzando un mappamondo: la terra è una sfera (più o meno) e le rotte sono archi che cercano di seguire sia il percorso più breve (non sempre comprensibile a colpo d’occhio su una cartina, che utilizza una proiezione della sfera sul piano), sia quello più favorevole in termini di correnti d’alta quota – il cosiddetto jet-stream, che può aiutare oppure ostacolare in modo sostanziale il volo – sia infine quello più conveniente in termini di costi commerciali e geopolitici. Sì, perché gli stati posseggono, oltre al suolo e al sottosuolo, anche l’aria che poggia sopra il loro territorio (fino a una certa altezza, decisamente inferiore all’orbita dei satelliti ma superiore a quella dei velivoli civili per il trasporto aereo), ed impongono tasse di sorvolo, possibili blocchi politici, chiudono porzioni del cielo al traffico per motivi militari (esercitando nel pieno il loro diritto di sovranità aerea) e addirittura si fanno pagare per i servizi di “aiuto alla navigazione” forniti dal controllore del traffico aereo che è un monopolista naturale, anche nel caso in cui l’aereo non tocchi il suolo, cioè non atterri e quindi non debba pagare i comprensibili diritti aeroportuali.

È un mondo complesso, fatto di regolamentazioni e necessità tecniche, oltre che politiche, che a me fa venire il mal di testa solo a pensarci. Mi consolo pensando all’epoca dei pionieri del volo commerciale, quando uomini come Juan Trippe (il gran capo della Pan Am, ricordate?) facevano avanti e indietro sull’Oceano Atlantico per tracciare personalmente le rotte grazie alle quali ancora oggi si sviluppa la maggior parte del traffico intercontinentale. Per una singolare combinazione, l’aeroporto di Miami nasce come “Pan American Field” nel 1928, e da lì operava la compagnia di Trippe.

Mi metto così a sfogliare un po’ di appunti per “ripassare” le quasi dieci ore di volo che mi aspettano e prepararmi come si deve. C’è un sito molto utile (anche se graficamente molto spartano) che permette di farsi un’idea delle rotte e delle distanze. Si chiama Great Circle Mapper, tenetelo a mente perché ci servirà più avanti.

Il volo per Miami da Milano è diretto senza scali: Malpensa-Miami International Airport e ritorno. Gli aeroporti vengono indicati con delle sigle: i piloti usano la nomenclatura ICAO (l’Organizzazione internazionale dell’Aviazione Civile), che produce sigle di quattro lettere, utilizzate per identificare in modo univoco gli aeroporti di tutto il mondo. Si usa per fare le rotte, le rilevazioni del meteo e per le comunicazioni del traffico aereo. Sempre l’ICAO ha anche una serie di codici a tre lettere per identificare le compagnie aeree, anche queste sempre in modo univoco.

Invece la IATA, che è tutta un’altra parrocchia (è una organizzazione di settore delle compagnie aeree – Associazione internazionale del trasporto aereo – e ne raggruppa la maggioranza in tutto il mondo) ha sviluppato tutta un’altra serie di codici. Tre lettere per gli aeroporti e due lettere per le compagnie aeree. Siccome la IATA gestisce i servizi per le compagnie aeree socie (lo scopo è il risparmio di soldi e l’ottimizzazione delle procedure), i codici IATA degli aeroporti e delle compagnie aeree sono più noti al pubblico perché sono quelli che si vedono stampati sul biglietto e sull’etichetta dei bagagli. Per convenzione, si usano sempre quelli. Ma così facendo si crea una cerca confusione, tanto che in un futuro non troppo remoto lo standard IATA dovrà essere assorbito da quello dell’ICAO.

Come funziona? È presto detto. Per indicare il mio aeroporto di partenza, cioè Malpensa-Città di Milano (anche se a voler essere pignoli la struttura è tutta nel territorio del comune di Busto Arsizio), secondo la IATA dovrei scrivere MXP, secondo l’ICAO invece LIMC. L’aeroporto di destinazione, cioè Miami International Airport, per la IATA è MIA, per l’ICAO invece è KMIA. A complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che la FAA (l’ente federale americano per la regolamentazione del traffico aereo) ha un suo ulteriore sistema di nomenclatura degli aeroporti. Solitamente coincide con quello della IATA (nel caso di Miami entrambi chiamano l’aeroporto “MIA”), ma non sempre. Ci sono aeroporti che hanno sigle diverse. È davvero un bel problema, che per fortuna viene gestito in maniera automatica e comunque è su due piani diversi: un controllore del volo e un pilota tra di loro non faranno mai riferimento a Malpensa come MXP, ma sempre come LIMC.

Lo stesso problema c’è anche per le compagnie aeree: il mio volo è Alitalia, che si chiama AZ secondo la IATA e AZA secondo l’ICAO. A rendere le cose più complicate nel nostro caso c’è anche il fatto che questa è la “Nuova Alitalia”, quindi a un certo punto ha cambiato legalmente nome (ma non sigla, grazie al cielo). Vi ricordate il perché? Dopo tanti anni di cattivi bilanci e di crisi, Alitalia fece definitivamente fallimento nel 2009, venne divisa in due, una metà è rimasta sul groppone dei contribuenti ed era quella piena di debiti in amministrazione controllata, l’altra metà era la “new company” guidata da Colaninno & C. che dal 2013 in poi potrebbe passere ad Air France-KLM (che già possiede il 25% delle azioni). La “vecchia” Alitalia si chiamava “Alitalia – Linee Aeree Italiane”, quella nuova si chiama “Alitalia – Compagnia Aerea Italiana”. Son cose.

Le tre compagnie erano state fondate in realtà con la benedizione di USA e Gran Bretagna, che erano i partner occulti richiesti dagli accordi di pace per sbloccare le limitazioni al volo (quello stesso tipo di limitazioni che hanno anche fortemente limitato la nostra capacità militare per decenni)

Anni fa ho trovato un gustoso libretto sulle bancarelle dei libri usati (intitolato “1945-1960, I trasporti aerei in Italia dalla guerra all’era del getto”, del bravo Paolo Gianvanni, edito da ED.A.L. di Firenze nel 1979) che racconta le storie dei precursori della nostra Alitalia. La nostra compagnia di bandiera nacque quindi dopo la guerra, con dei vincoli straordinari imposti dai trattati di pace (non ultimo, quello di non potersi muovere lungo rotte internazionali) e a dirla tutta, non era neanche una sola compagnia aerea. In principio ce n’era davvero molte, una quarantina, ma solo sulla carta. A essere davvero rilevanti ce n’erano meno, “solo” tre: “AII – Aerolinee Italiane Internazionali”, “LATI – Linee Aeree Transcontinentali Italiane” (che si fusero nell’immediato dopoguerra, nel 1950, quattro anni dopo la loro nascita) e la terza, “LAI – Linee Aeree Italiane”, che venne fatta confluire dentro AII con un atto d’imperio nel 1957. Erano gli anni in cui il carrozzone statale aveva dimensioni paurose e, tramite un paio di società come l’IMI e l’IRI, cercava di guidare la rinascita del Paese. Ma c’è in realtà di più, a ben leggere la storia di quel periodo.

La prima cosa, la più divertente, è che le tre compagnie erano state fondate in realtà con la benedizione di USA e Gran Bretagna, che erano i partner occulti richiesti dagli accordi di pace per sbloccare le limitazioni al volo (quello stesso tipo di limitazioni che hanno anche fortemente limitato la nostra capacità militare per decenni). A rompere il muro di divieti cominciarono gli americani che, dopo che i nostri Corrieri Aerei Militari avevano cercato di tamponare l’esigenza di un minimo di trasporto aereo per il Paese (posta, VIP, qualche emergenza medica), mandarono avanti la TWA. La compagnia americana firmò l’11 febbraio 1946 un accordo con il governo di Roma che fece nascere la LAI, con capitale così ripartito: 40% TWA, 40% IRI e 20% ai privati italiani.

Gli inglesi, colti alla sprovvista dalla mossa dei “cugini” americani, si inferocirono e cominciarono a premere affinché venisse fatto un altro accordo costituente una seconda compagnia italiana: nacque così la IIA (poi Alitalia, non dimentichiamolo) con capitale di 900 milioni di lire dell’epoca ripartito fra la British European Airways Division – società parte della BOAC) al 40%; l’IRI al 40% e i soliti privati (letteralmente i soliti: industriali e banche, come FIAT ad esempio) al 20%. Le due società furono fondate con una convenzione rispettivamente di 15 anni con la TWA e di 10 anni con la BOAC, con clausole che consegnavano di fatto il controllo delle compagnie italiane ai soci stranieri.

Scoppiarono polemiche, ci furono interpellanze parlamentari (ci si chiedeva come mai il governo avesse addirittura emanato una legge per consentire all’IRI di finanziare in maniera così cospicua aziende di fatto sotto il controllo di società estere) e soprattutto ci si chiese perché gli altri eventuali imprenditori del settore avrebbero dovuto soffrire la concorrenza di Stato, che aveva all’epoca un portafoglio stracolmo di soldi e ben poca voglia di lasciar spazio all’imprenditoria privata. Ci fu anche l’asta delle licenze (vi ricorda niente?) e un gran polverone, con pretendenti che non avevano né aerei né piloti, e tutto questo alla fine portò a conseguenze prevedibili: sopravvisse solo Alitalia e poco altro. La più antica compagnia aerea italiana in quel momento sarebbe stata in realtà la vecchia LATI – Linee Aeree Transcontinentali Italiane, che negli anni Trenta e fino alla guerra gestiva il traffico postale con l’America del Sud per conto della casa madre, quell’Ala Littoria di fascistissima memoria che gli Alleati d’intesa con il nuovo governo italiano si erano sbrigati a far scomparire dalla scena.

Anche quel geniaccio di Italo Balbo che, sì, fu sicuramente fascista oltre che aviatore – e persino ministro dell’Aeronautica e governatore della Libia – ma che morì anche presto, nel 1940, dopo le epiche trasvolate che fecero di lui un mito d’Oltreoceano, e che non è detto che avrebbe seguito per molto ancora le orme di Mussolini

Da un certo punto di vista è stato un peccato che venisse “cassata” l’Ala Littoria (anche se ammetto che il nome era davvero impresentabile nell’Italia post-fascista), perché la storia del volo nostrano, seppure sovrapposta a quella del fascismo, si era tutt’altro che “compromessa” con quest’ultimo. Dietro al pionieristico volo italiano c’era, più che l’ideologia fascista, il mito della velocità del Futurismo, e poi tanta imprenditoria italiana (davvero cose incredibili, quasi mai raccontate) e anche quel geniaccio di Italo Balbo che, sì, fu sicuramente fascista oltre che aviatore – e persino ministro dell’Aeronautica e governatore della Libia – ma che morì anche presto, nel 1940, dopo le epiche trasvolate che fecero di lui un mito d’Oltreoceano, e che non è detto che avrebbe seguito per molto ancora le orme di Mussolini. Addirittura, ci furono già dei segnali: Balbo si era opposto a quei primi decreti che sarebbero poi diventati, dopo il ’40 (cioè dopo la sua morte), la base per quell’insieme infame di provvedimenti legislativi e amministrativi chiamati sbrigativamente ma in modo efficace “leggi razziali fasciste”.

Su Balbo, e sul suo possibile futuro che non c’è stato, è fiorita anzi tutta una teoria del complotto all’italiana (tanto per cambiare) alimentata dal fatto che l’aereo in cui morì il trasvolatore atlantico venne abbattuto a quanto pare dal fuoco amico di un pezzo dell’incrociatore corazzato italiano San Giorgio, ancorato nella rada di Tobruk, e che su quell’aereo (un trimotore Savoia-Marchetti S.M.79, un aereo costruito in tela, legno e tubi d’acciaio di straordinarie qualità, che viene considerato ancora oggi uno dei più riusciti aerei italiani di sempre) volava più o meno tutto il suo staff, compreso Nello Quilici, direttore del Corriere Padano e oppositore dialettico ma fermo del fascismo, oltre che padre di Folco Quilici. In un colpo solo, morì Balbo e con lui quasi tutto il “balbismo”.

Fu un evento davvero sfortunato, perché l’altro aereo che stava arrivando a Tobruk in formazione con quello di Balbo, invece, scampò agilmente al fuoco amico e atterrò incolume in un altro aeroporto. La morte di Balbo e dei suoi, si diceva, non sarebbe stata casuale poiché avrebbe invece fatto molto comodo a Roma. Il motivo? È presto detto: la morte di Balbo avrebbe fatto comodo perché l’uomo era considerato molto pericoloso per il regime fascista. Era un eroe della prima guerra mondiale, adorato dalle folle americane e britanniche, molto stimato nelle Cancellerie di tutta Europa. Un alleato che poteva trasformarsi in qualsiasi momento in un temibile avversario.

Come indice della popolarità dell’aviatore che compì le epiche trasvolate atlantiche si può notare un fatto di costume, piccolo ma significativo. All’epoca, prima della guerra, nelle Americhe la barba acconciata a mo’ di pizzetto lungo venne battezzata “pizzetto alla Balbo”, per indicare quello che noi diciamo oggi essere il “pizzetto alla D’Annunzio”. E una formazione d’aerei numerosa veniva chiamata formazione “Balbo”.

L’aviatore italiano aveva colto nel segno, marcando un pezzo importante dell’immaginario di un’epoca a cavallo tra le due guerre. La trasvolata del ’33 venne fatta da 25 idrovolanti Savoia-Marchetti S.55 che, partiti da Orbetello, arrivarono a Chicago tra ali di folla entusiasta dell’impresa. E fu solo una delle numerose gesta di quel manipolo di temerari: nel ’30 Balbo, con 12 idrovolanti di prima generazione Savoia-Marchetti S.55A, era andato sempre da Orbetello addirittura fino a Rio de Janeiro. E ancora prima, negli anni Venti, Balbo e i suoi avevano valicato più volte il Mediterraneo con storiche crociere in formazione, presenti decine di apparecchi con i migliori piloti, meccanici e marconisti d’Italia. Una vera élite, fedelissima al trasvolatore di Ferrara. Molto pericolosa per il regime fascista, perché ne faceva parte ma non ne era controllata.

La logica nella ricostruzione sostenuta dai complottisti dell’incidente di Italo Balbo, che portò a considerarlo un assassinio di stato per togliere di mezzo un pericoloso avversario di Benito Mussolini, era ferrea. In caso di impicci politici, economici e sociali oltreché militari, magari causati dai problemi che l’Italia aveva in quella guerra mal digerita e combattuta controvoglia assieme ai nazisti (e i guai nel 1940 erano già ben presenti, grazie anche alle conseguenze delle sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni e della sbilenca Autarchia nostrana che cercava di supplire alla mancanza delle materie prime), anche in certi salotti d Roma si cominciava a pensare che Balbo avrebbe potuto essere il cavallo moderato e autorevole da usare per un rapido colpo di mano interno, mirato alla destituzione di Mussolini. Un’ipotesi per niente fantasiosa, perché, dissero i complottisti, simile al colpo di mano che poi avrebbe messo Badoglio a capo del governo, pochi anni dopo, in condizioni ben più tragiche per il Paese.

Nella storiaccia della fine di Balbo ci fu, oltre alla congiura, anche il velo di un possibile secondo killer. Si disse per Balbo, insomma, un po’ come si diceva per i due fucili che uccisero Kennedy a Dallas, che a sparare non fu uno solo, come sostennero i rapporti militari dell’epoca. E i complottisti amano sempre questi particolari dissonanti, perché fanno da leva per poter scardinare le tesi convenzionali.

Ci fu infatti la segnalazione, quel giorno, della presenza misteriosa di un sommergibile italiano nella rada di Tobruk, il Marcantonio Bragadin, che sarebbe stato inviato nottetempo proprio per abbattere Balbo e poi pronto a rientrare alla chetichella nel porto di Napoli dopo aver “colpito alle spalle” l’eroe.

In realtà il Bragadin di mestiere doveva fare quello che fece quel giorno: la spola tra Napoli e Tobruk, dato che era stato incaricato di portare rifornimenti in Africa alle nostre truppe. Quella a Tobruk era la missione d’esordio di un equipaggio alle prime armi e assai spaventato dall’attacco aereo inglese che si era concluso poco prima dell’arrivo dell’aereo di Balbo. Un equipaggio nervoso, timoroso di poter essere colpito, con i nervi tesi e pronto a sparare al primo, rinnovato segnale di pericolo. Un segnale come quello di un aeroplano non identificato che si avvicinava basso: magari voleva atterrare, magari voleva sganciare un siluro nella fiancata del sommergibile italiano. E così, anche il mitragliere del Bragadin tirò con il suo pezzo dalla coperta del sommergibile. Ma poi, chi può dirlo cosa successe realmente? Fatto sta che Balbo morì con i suoi e Mussolini rimase ancora per un po’ là dov’era.

Inglobò per volere del dittatore fascista nostrano le “vecchie” e storiche compagnie aeree italiane: la “SAM – Società Aerea Mediterranea” nata nel 1928 a Roma, la “SANA – Società Anonima Navigazione Aerea” di Genova e la “SISA – Società Italiana Servizi Aerei” nata nel 1922 a Trieste

Invece, l’Ala Littoria venne costituita nel dodicesimo anniversario della Marcia su Roma (oggi nessuno sa più quale sia la data, ma una generazione di studenti ha dovuto imparare a memoria che il 28 ottobre 1922, verso sera, Mussolini prese la carrozza e da Milano andò a Roma, mettendoci peraltro due giorni), crebbe e inglobò per volere del dittatore fascista nostrano le “vecchie” e storiche compagnie aeree italiane: la “SAM – Società Aerea Mediterranea” nata nel 1928 a Roma, la “SANA – Società Anonima Navigazione Aerea” di Genova e la “SISA – Società Italiana Servizi Aerei” nata nel 1922 a Trieste.

Quest’ultima era la più vecchia compagnia aerea d’Italia, creata dai fratelli Cosulich che intendevano espandersi nel nascente business dell’aviazione civile dopo aver dominato quello della costruzione e gestione di navi passeggeri. I Cosulich erano infatti i proprietari della Società Triestina di Navigazione e del Cantiere Navale Triestino, in seguito entrambi inglobati dallo Stato italiano. È un pezzo davvero grosso della storia patria di cui oggi nessuno parla più (se non a Trieste, ma mai con gli stranieri). Negli Usa con molto meno sono nati colossi del trasporto aereo o navale contemporaneo. Da noi, ne sono derivati espropri statali, spesso accompagnati da sgambetti delle solite banche.

Torniamo però al mio volo per Miami. Dicevamo della grande confusione di codici tra l’ICAO e la IATA. Quello sì che è un fatto increscioso. Anche perché l’ICAO mantiene anche il registro degli aerei (il loro numero di targa, o per meglio dire, il “numero di coda”) e il call-sign delle compagnie aeree. Del numero di coda parleremo un’altra volta, vale la pena soffermarsi. Circa il nome in codice utilizzato per le operazioni di comunicazione: Japan Airlines, per dire, si chiama “JAL” per l’ICAO e ha come nome in codice “Japan Air”, la vecchia Pan Am (il nome completo della compagnia aerea in realtà era Pan American World Airways) si chiamava PA per la IATA, PAA per l’ICAO, con call-sign “Clipper”, che incidentalmente è anche il “cognome” con cui l’azienda amava riferirsi ai suoi aerei: Clipper America, Clipper Hawaii, Clipper Atlantic.

Avete una bella confusione in testa? Non sapete più cosa corrisponde a chi? Bene, perché se aveste capito tutto al primo colpo ci sarei rimasto male, visto che a me ci sono voluti letteralmente anni di viaggi per farmi un’idea dei diversi gerghi. A dire il vero, il vero motivo è che non me l’aveva spiegato nessuno come funziona, e ho dovuto mettere assieme i pezzettini di informazione un po’ alla volta, come un topolino. Un topolino mica tanto intelligente, però. Perché, mentre io seguivo questo frustrante passatempo durante i miei viaggi di lavoro, in realtà c’è chi aveva spiegato tutto molto chiaramente nei vari siti della IATA, dell’ICAO e compagnia danzante. Un’altra volta se ne parlerà più diffusamente, non temete. Il punto è che io quelle cose mica le andavo a leggere. Così come penso non lo facciate voi: è per questo infatti che ve le sto raccontando. La tradizione orale dà più soddisfazione.

Per adesso, torniamo al mio volo per Miami che, dunque, va da MXP a MIA, cioè da LIMC a KMIA (dall’aeroporto di Malpensa a quello di Miami). Torniamo al sito che dicevo sopra, il Great Circle Mapper: se si impostano questi due aeroporti come valori (si può usare il codice a tre lettere della IATA), viene fuori la rotta, che inizia andando da Malpensa verso ovest con una direzione iniziale di 288,1 gradi, e che percorre un arco lungo 4.930 miglia, pari a 7.920 chilometri: per darvi un’idea, fare avanti e indietro tra Milano e Miami corrisponde a percorrere un quarto della circonferenza della Terra. Non male.

Quello disegnato dal Great Circle Mapper è un arco bello teso, che esce dall’Europa all’altezza di Brest, in Francia, disegna un lungo semicerchio ben più a sud di Islanda e Groenlandia, e costeggia prima il Canada e poi gli Stati Uniti fino ad arrivare alla punta della Florida, terra di paludi e devastanti cicloni stagionali. Questa è la rotta teorica più breve (quella peraltro su cui vengono calcolate le miglia per l’attribuzione dei punti nei programmi di fedeltà delle compagnie aeree), ma in realtà le cose non funzionano esattamente così. Non farò quella strada. Per far funzionare il traffico aereo attraverso l’Atlantico, che è ben congestionato come la tangenziale di una grande città, ci sono orari e soprattutto percorsi predefiniti, che consentono di instradare e incolonnare gli aerei senza rischio che le rotte si intreccino a casaccio, senza controllo. Perché nel mestiere di chi si occupa di gestire il traffico aereo vigono solo due regole: far arrivare a destinazione gli aerei nel minor tempo possibile ma soprattutto farli viaggiare sempre in condizioni di sicurezza, vale a dire con l’appropriata separazione verticale e orizzontale dagli altri velivoli. Non si vola a casaccio e neanche a vista, ma si pianifica e si seguono regole predefinite.

Gli aerei seguono cioè delle “autostrade dell’aria” (perdonatemi l’orrida espressione degna del peggior giornalismo d’accatto, proviamo a chiamarli “corridoi aerei”, forse è meglio) che hanno sia altitudine che posizione ben predefinite, e sono studiate sia per stare dentro i parametri di sicurezza che per massimizzare i venti di coda (quelli buoni che spingono l’aereo facendo per di più risparmiare carburante, oltre che tempo) e minimizzare i venti contrari (che fanno aumentare consumi e tempi di percorrenza).

Nonostante questo, la mia percorrenza dei due tragitti di lunghezza pressoché identica tra Milano e Miami avrà una durata sensibilmente diversa: all’andata ci si metterò circa 11 ore e mezza, al ritorno circa 9 ore e mezza, grazie al fatto che in questo periodo dell’anno c’è una forte prevalenza di correnti d’aria in alta quota da ovest verso est. Quindi, verso l’America il vento del jet-stream ci ostacolerà, verso l’Europa ci sospingerà: un po’ come pedalare in salita o in discesa.

Ma come funzionerà il mio volo? A differenza di quanto accade a terra, dove la navigazione degli aerei di linea è monitorata tramite radar e organizzata utilizzando i radiofari come punto di riferimento, sull’Oceano le cose funzionano in maniera diversa. Non ci sono boe che galleggiano in mezzo all’Oceano con attaccato sopra un radiofaro (oltre che tecnicamente impossibili sarebbero anche pericolose, perché si potrebbero spostare facendo commettere errori sulla posizione potenzialmente drammatici per i voli di linea) e il radar funziona solo in linea retta, cioè non va oltre la curvatura dell’orizzonte. E quindi, dato che da Shannon anche a sporgersi in punta di piedi non si riesce a vedere Halifax, il radar non riesce a coprire l’Oceano Atlantico. Come si fa allora? Si usano la radio e l’orologio, come si faceva una volta: la rotta è prestabilita, la quota anche (tra i 28.500 e i 42.000 piedi, pari a 8.600/12.800 metri) gli aerei partono a distanza uno dall’altro, e devono comunicare quando incrociano determinate latitudini e longitudini. Viaggiano come un treno in aperta campagna.

Oggi a fare queste rilevazioni non ci sono problemi, e infatti gli equipaggi in cabina di pilotaggio degli aerei sono abbastanza tranquilli perché a bordo hanno il GPS, il sistema di rilevamento che dice, grazie alla posizione di tre o più satelliti, dove si trova il velivolo e a che velocità sta procedendo. Il sistema è utile e in futuro il traffico aereo potrebbe essere riorganizzato sulla base della posizione soggettiva degli aerei (rilevata cioè a bordo dei velivoli) e aiutata con l’orchestrazione in tempo reale delle rotte fatta da un computer centrale che ha la responsabilità di gestire tutto il traffico aereo mondiale.

Questo permetterebbe di avere rotte davvero “minime” (sempre nel rispetto dei parametri di sicurezza come quelli ETOPS, però) con grandi risparmi di carburante e di tempo. Si potrebbe tagliare per la campagna, prendere delle scorciatoie a seconda delle destinazioni, anziché seguire le direttrici prestabilite dai corridoi aerei. Per adesso però mi devo accontentare di traversare l’Oceano con una rotta che in realtà è un segmento precalcolato che non punta direttamente a Miami ma va invece verso uno snodo, uno svincolo a nord degli USA. Da là poi ci penseranno loro, gli americani, a instradarmi nel loro sistema locale di gestione del traffico aereo, facendomi passare sulla rotta locale che mi porterà in direzione di Miami, anzi MIA.

Ci sono due centri di controllo “oceanico” che hanno la responsabilità di rimbalzarsi il traffico che passa da una sponda all’altra di questo settore nord dell’Oceano: quello di Gander (nome in codice: CZQX, è in Canada) e quello di Shanwick (EGGX, è in Irlanda). Gli aerei (che hanno depositato e visto approvato il piano di volo) vengono portati fino al settore di responsabilità del centro di Shanwick dai vari centri di controllo del traffico aereo locali (è parecchio complicato, ne parleremo un’altra volta). Shanwick li immette nel corridoio aereo sopra l’Atlantico, con una quota, una direzione, una velocità da tenere e l’ordine di risentirsi via radio per dire quanto si sarà superato un dato punto di riferimento.

È un viaggio davvero solitario, sospesi sopra l’Oceano mentre si corre lungo un segmento di azzurro, davanti e accanto ad altri missili d’alluminio che sfrecciano nel cielo. Due turni di piloti si alternano sul ponte di comando, i passeggeri mangiano e guardano il film, poi vengono abbassate le palpebre dei finestrini, le luci si attutiscono e tutti cercano di dormire, qualcuno roso dall’ansia del volo o dall’insonnia, solo a dieci chilometri di quota con i suoi demoni personali

È un viaggio davvero solitario, sospesi sopra l’Oceano mentre si corre lungo un segmento di azzurro, davanti e accanto ad altri missili d’alluminio che sfrecciano nel cielo. Due turni di piloti si alternano sul ponte di comando, i passeggeri mangiano e guardano il film, poi vengono abbassate le palpebre dei finestrini, le luci si attutiscono e tutti cercano di dormire, qualcuno roso dall’ansia del volo o dall’insonnia, solo a dieci chilometri di quota con i suoi demoni personali. C’è chi legge, chi cerca di lavorare, chi passeggia lungo i corridoi della cabina. Il personale di volo del primo turno smonta, si infila nei suoi spazi di risulta per dormire o fare un po’ di gossip mentre un paio di steward e di hostess si prendono cura dei segmenti della cabina passeggeri. Il fascio di rotte che va verso gli Usa è etichettato con le prime lettere dell’alfabeto (A, B, C, D, E), al ritorno si usano le altre lettere, prese però dal fondo dell’alfabeto (più numerose: S, T, U, V, W, X, Y).

Il Concorde no, lui non seguiva questa strada, riservata agli aerei a getto per comuni mortali. No, mannaggia (e ribadisco: mannaggia, perché non l’ho mai preso). Lui, il Concorde, non solo ci metteva meno di sei ore, ma volava "sopra" tutti gli altri, seguendo due corsie riservate ai voli supersonici a una quota compresa tra i 45mila e i 60mila piedi. Stiamo parlando di un’altezza che sta tra poco meno di 14mila e poco più di 18mila metri sopra il livello del mare. Sono quasi venti chilometri al di sopra della superficie del pianeta. È il doppio della quota minima dei jet commerciali. Da lassù si comincia a vedere la curvatura terrestre, il nero dello spazio, le stelle anche di giorno. E io, fino a lassù, non ci sono mai andato; non ho mai volato sulla Sierra Mike, sulla Sierra Oscar o sulla Sierra November. Non ho mai volato, cioè, lungo le tre corsie riservate per andare avanti e indietro tra l’Europa e gli Usa. Mannaggia.

Le tre corsie le ho scritte non come si dovrebbe scrivere la sigla (SM, SO e SN) ma come la si pronuncia seguendo l’alfabeto fonetico NATO, usato dall’ICAO per far dire alla radio ai piloti e agli operatori del traffico aereo correttamente e in modo comprensibile anche a persone con nazionalità diverse (e quindi con accenti e modalità di sillabazione differenti) tutte le parole che servono quando si vola. Malpensa in questa maniera diventa, da MXP che era, un piacevole Mike-Xray-Papa, mentre MIA diventa Mike-India-Alfa. Il mio volo Alitalia ha il call-sign identico (Alitalia) e il numero 636 all’andata e 637 al ritorno.

La chiacchierata è stata lunga e ancora non abbiamo toccato l’essenza del mio volo per Miami, solo le circostanze. Per esempio, ci sarebbe molto da dire sul fatto che sia un A330 di Airbus, un velivolo gagliardo e recente (primo volo il 2 novembre del 1992, entrerà in servizio il 17 gennaio 1994 con Air Inter, compagnia francese poi inglobata da Air France assieme a UTA) che, a seconda delle varianti, può raggiungere un’autonomia di 7.200 miglia nautiche, pari a circa 13.400 chilometri, cioè il doppio della distanza che mi serve per arrivare a Miami. Ci sono quasi mille A330 in circolazione (828 per la precisione) e la sagoma di quest’aereo a fusoliera larga (cioè wide-body con doppio corridoio in cabina) risulta graziosamente impreziosita dall’ampio impennaggio di coda.

È il grande timone, sbarazzino e divertente contrappeso visivo alla fusoliera, lunga ma abbastanza bassa, che serve in realtà a compensare l’aerodinamica del mezzo causata dalle grandi ali identiche a quelle del ben più corposo quadrimotore A340 (in totale sono 60 metri d’apertura alare) e dalla derivazione della fusoliera dal progetto del vecchio A300-600. Insomma, l’A330 ha una sua caratteristica “grande coda” per compensare le grandi spalle, cioè le grandi ali, e tenere il tutto insieme. Da notare poi che lo stabilizzatore verticale e il timone sono, inoltre, tutti in materiale composito, con lo scopo di rendere più leggera e resistente la struttura. Un lavoro di ingegneria aeronautica di prima classe. Alitalia con gli A330 intende rimpiazzare la sua vecchia (e per me storica) flotta di Boeing B-767-300ER, che andrà definitivamente in pensione entro la fine del 2013. E pensare che il B-767 di Alitalia è quello con cui ho fatto il mio primo viaggio negli Usa sulla tratta MXP-ATL, bloccato per ore in economy (come questa volta) in un posto nel mezzo della fila centrale, scomodissimo, da allora sempre evitato.

Ecco, di tutto questo e di molto altro parleremo più avanti. Intanto, devo andare.

(pubblicato venerdì 20 gennaio 2012)