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L'innovazione parla cinese

L’ascesa economica della Cina è stata accompagnata da un aumento delle sue capacità scientifiche e non solo. C'è anche un nuovo sogno, profondamente diverso da quello americano ma altrettanto potente

La Chinatown di Milano
Chinatown a Milano

Un ragazzo attraversa la strada in via Paolo Sarpi, a Milano, epicentro della storica Chinatown italiana nata con l’expo del 1906. Tra ingrossi, facchini con la bicicletta carica di pacchi e negozi che vendono Dim Sum, cibo da strada cantonese, i cinesi benestanti manifestano il loro successo indossando costosi abiti firmati, dagli abiti Moschino alle giacche Armani, dalle borse Louis Vuitton alle magliette Supreme. Tutto deve essere rigorosamente originale e costare caro, per far vedere che si può spendere. Il ragazzo però ha una giacca impermeabile nera, aperta davanti, jeans neri e una maglietta marrone scuro. La marca è Semir.

Se non l’avete mai sentita, non è un caso: Semir è un marchio per giovani e una delle più grandi catene di abbigliamento, ma vende solo in Cina ai cinesi. L’ha creata nel 1996 Qiu Guanghe (classe 1951) con il nome di "Zhejiang Semir Garment nella sua città natale di Wenzhou. Settemilacinquecento negozi (finora) e un’altra linea, Balabala, che è uno dei più importanti marchi di abbigliamento per bambini, sempre e solo in Cina.

Scrive la Harvard Business Review: “Con la rapida crescita dell'economia cinese e la crescente integrazione della Cina nell'economia globale negli ultimi vent'anni, le imprese cinesi di abbigliamento e abbigliamento per il tempo libero hanno registrato una rapida ascesa e sono diventate un'importante forza competitiva confrontandosi con i marchi stranieri nel mercato cinese”.

Semir è diventata la Gap cinese, e ha tutta l’intenzione di non cedere il passo, né di fare l’errore di aprire fuori dal continente asiatico prima del tempo. Non c’è fretta, però, perché in realtà è la Cina che cresce attorno a lui. Secondo McKinsey nel 2022 il 76% della popolazione urbana cinese potrà essere considerata “classe media”. Cioè con un reddito per famiglia tra i 9mila e i 34mila dollari all’anni. Nel 2000 era il 4%. E siamo solo all’inizio, perché dalla povertà alla “mass middle class” il passaggio è stato più lungo di quello che sarà necessario per andare dalla “mass middle” alla “upper middle” (e anche i ricchi cresceranno: dal 3% nel 2012 al 9% nel 2022).

L'errore è restare prigionieri dello stereotipo che abbiamo costruito negli ultimi cento anni

Attenzione, come per il ragazzo che attraversa Paolo Sarpi, l’errore è restare prigionieri dello stereotipo che abbiamo costruito negli ultimi cento anni: Semir non è un’azienda a basso costo che copia il design occidentale e produce con scarsa qualità. Per l’anonimo ragazzo è un marchio streetwear casual di qualità e i suoi prodotti creerebbero non pochi problemi in Europa o negli Stati Uniti. È una fortuna per l’abbigliamento che non sia (ancora) così. Ma le cose in altri settori sono cambiate completamente.

Shenzhen è la capitale dell’elettronica cinese. Di fronte ad Hong Kong, con un parco tecnologico da 12 chilometri quadrati e fabbriche conto terzi come quella della taiwanese Foxconn, che mobilitano un milione di operai, la immaginiamo come il luogo della copia o al limite dell’assemblaggio dei prodotti progettati nella Silicon Valley. Dopotutto Apple scrive sulle scatole “Designed in Cupertino, Made in China”. Ma non è più così. ”Created in Shenzhen“ sta diventando un marchio di qualità e soprattutto di innovazione.

Ma c’è anche il mondo della copia, certamente. E una capacità produttiva strabordante. Alcuni mesi fa uno youtuber americano ha pubblicato un video: partendo senza conoscenze si è recato a Huaqiangbei, il quartiere dell’elettronica di Shenzhen, e ha comparato una componente dopo l’altra, facendola assemblare sul posto, per ricreare da zero un iPhone 7. Attenzione, parti originali, componentistica di qualità, venduta in baracchini e negozietti che sembrano usciti fuori dal set di Blade Runner o di ”Johnny ripara tutto“, uno dei più popolari “marchi” di bottega cinesi per riparare gli schermi dei telefonini nel nostro Paese. Solo che in quel caso l’operazione era molto più sofisticata.

Da Huaqiangbei escono fuori letteralmente centinaia di migliaia di startup. Sono fatte da giovani ingegneri brillanti, da appassionati imprenditori, da ragazzi intraprendenti che sono già stati anni all’estero, a visitare le famiglie a Parigi, a Prato, a San Francisco. Hanno lavorato in negozi di import export dall’altra parte dell’oceano, fatto esperienza lavorando nei ristoranti di famiglia e uscendo la notte nei locali alla moda solo per cinesi che sono presenti in tutte le città del mondo. È il fenomeno degli expat temporanei, dei bildungreisen di una gioventù cinese che dalle nostre posizioni culturalmente appiattite sul modello americano non intercettiamo neanche, figuriamoci capirla e partecipare.

Vediamo solo la punta dell’iceberg, cioè la diaspora con i ristoranti e i bar che spuntano nelle nostre città

Eppure, è dove l’innovazione si sta sempre più velocemente spostando. Come è naturale che sia: il peso delle università, le grandi aziende multinazionali dell’elettronica di Stato o finanziate da Pechino, il leggendario spirito imprenditoriale della cultura popolare cinese, che da tre millenni commercia ininterrottamente con il resto del mondo, del quale vediamo solo la punta dell’iceberg, cioè la diaspora con i ristoranti e i bar che spuntano nelle nostre città. L’acquisto delle grandi società siderurgiche, o delle squadre di calcio più importanti, è solo un aspetto, non sempre compreso.

Huaqiangbei, con i suoi negozi pieni di gadget, piccole invenzioni, robot, pannelli solari trasparenti da mettere sul vetro delle finestre di casa, computer grandi come monete, microfoni per cantare che danno un voto alla qualità della nostra voce oppure la correggono fino a renderla intonata, è solo il principio.

Transsion è una società della quale non sappiamo praticamente nulla in Europa. Eppure vende tre telefonini su dieci agli africani (secondo Canalys la seconda è Samsung, che si ferma al 22%). Il suo fondatore, Zhu Zhaojiang, ha imparato a gestire il mercato africano tramite la controllata Tecno Mobile e il suo direttore generale, Yu Weiguo, e a vendere 200 milioni di apparecchi. Una storia iniziata nel 2006 da manuale di business. Tra una rivoluzione e una nazionalizzazione, Tecno Mobile sta provando a far partire una fabbrica ad Addis Abeba, nel cuore dell’Etiopia con la quale l’Italia ha invece scambi economici decrescenti, che gli aprirebbe ulteriormente le porte del continente africano sul quale peraltro la Cina ha da tempo mire di espansione commerciale e progetti ben avviati. Transsion ha potuto lavorare così grazie all’infrastruttura delle telco africane costruita sempre da fornitori di tecnologia di rete cinesi.

L’ascesa economica della Cina è stata accompagnata da un aumento delle sue capacità scientifiche

La ricerca scientifica in ambiti come le biotecnologie, la fisica, il settore aerospaziale. Secondo Philip Ball, già direttore della rivista scientifica Nature, «l’ascesa economica della Cina è stata accompagnata da un aumento delle sue capacità scientifiche. A gennaio, la statunitense National Science Foundation ha riferito che il numero di pubblicazioni scientifiche dalla Cina per la prima volta nel 2016 superava il numero di quelle degli Stati Uniti: 426mila contro 409mila. Gli scettici potrebbero dire che si tratta di quantità, non di qualità. Ma la vecchia idea paternalistica che la Cina, come il resto dell'Asia orientale, possa imitare ma non innovare ora è certamente falsa. In diversi campi scientifici la Cina sta iniziando a stabilire il passo da seguire per gli altri».

Non è un caso. Le mosse sono state studiate a livello centrale. Pechino, assieme all’economia di mercato, ha pianificato anche la creatività di Stato e l’innovazione pianificata. Ad esempio con il “Piano dei mille talenti”. Tutti gli scienziati con meno di 55 anni, anche se non cinesi, hanno avuto ricevuto l’invito ad andare in Cina a insegnare e fare ricerca, con assunzione a tempo pieno (cioè l’incardinamento, che nelle università americane si chiama “tenure”) in università e istituti di ricerca prestigiosi, stipendi più elevati della media e accesso a fondi molto ampi per i loro progetti scientifici. Era il piano di Deng Xiaoping che ha fatto da elastico: dopo aver mandato i migliori giovani a studiare in università americane ed europee, li ha fatti ritornare praticamente tutti. A differenza ad esempio degli indiani, che hanno sistematicamente impoverito il tessuto nazionale (e reso più forte quello della Silicon Valley), i talenti cinesi sono tornati praticamente tutti a casa.

E i settori dove stanno innovando sono tantissimi: virologia, embriologia, quantum computing, vettori e satelliti. Ma torniamo a Huaqiangbei. Con l’agilità di Internet, un tessuto produttivo ricchissimo, capitale di ventura statale o privato, una rete pressoché infinita di connessioni in tutto il pianeta, i giovani inventori del Guangdong hanno affilato le armi. Le Pmi della provincia cinese sono veramente “piccole”, paragonabili alle italiane. E sono poco più di un milione, tutte a vocazione hi-tech, la maggior parte acquartierate in co-working, caffè della città, piccoli spazi commerciali, camerette e garage. E settantamila incubatori, strutturati e pagati con i soldi di investitori pubblici e privati in parti uguali.

«La realtà – spiega Silvia Lindtner, docente alla School of Information del Michigan – sin dalla sua creazione l’area di Shenzhen è stata un sito dedicato alla sperimentazione. È il posto aperto per definizione, e differente da tutto il resto della Cina». È stata la prima Zona economica speciale nel 1980, ed è diventato da un semplice villaggio di pescatori Hakka con meno di trentamila abitanti, a poca distanza da Hong Kong, in una città delle dimensioni di Los Angeles ma con tre volte la popolazione, pari a circa 12 milioni di abitanti. È vicina ai capitali e al nodo logistico di Hong Kong, ai casinò di Macau, al megaporto di Guangzhou (ci sono centri commerciali, fabbriche) e il centro manifatturiero di Dongguan. Gli americani la spiegano così: è come se la Silicon Valley, le banche di New York, le fabbriche di Detroit e Pittsburgh, i casinò di Las Vegas e l’area portuale di Longh Beach fossero tutti nello stesso posto, in un raggio percorribile con un’ora di macchina.

C'è un saper fare che va avanti da generazioni che adesso è stato incanalato nel progetto “Made in China 2025”

Come per la Silicon Valley, così anche Shenzen è inimitabile. E non è la prima volta: il delta del Fiume delle Perle è da sempre la fabbrica del mondo: oggi l’elettronica, ieri i giocattoli e prima ancora decine di altre categorie. Il punto non è il basso costo della manodopera, peraltro destinato ad aumentare con la trasformazione dell’economia cinese. Invece, c’è un saper fare che va avanti da generazioni che adesso è stato incanalato nel progetto “Made in China 2025”: la strategia di Pechino è esplicitamente quella di dare spazio alle aziende locali non come produttori ma come creatori, passare dalla produzione all’innovazione.

C’è un’arma segreta che la Cina sta utilizzando sempre di più. Sino a pochi anni fa la produttività del settore manufatturiero cinese era molto più bassa rispetto a quella degli Stati Uniti: secondo un’analisi di McKinsey del 2013, infatti, il tasso di produttività era inferiore di almeno 10 volte. Colpa del ritardo nella digitalizzazione delle industrie cinesi piccole e medie. La mancanza di un piano analogo a quello europeo di Industria 4.0, insomma. Ma questo divario digitale si sta colmando molto rapidamente: WeChat, Taobao, Jindong, Alibaba e anche l’americana Amazon stanno moltiplicato rapidamente la produttività delle Pmi cinesi perché fanno da piattaforma digitalizzatrice con la loro infrastruttura capillare e facile da utilizzare.

Si possono comprare online tutte le componenti che servono a un nuovo progetto, trovare anche i soldi con finanziatori alla carta o crowdsourcing, mettere rapidamente assieme una filiera produttiva e, altrettanto rapidamente, farla svanire se il prodotto non decolla. L’abbassarsi delle barriere all’utilizzo delle tecnologie, come abbiamo visto più volte, permette di allargare il bacino di utenza e apre i cancelli dell’innovazione. Huawei, uno dei principali produttori di telefonini e impianti di rete made in China, e DJL, il più grande produttore di droni al mondo, sono le star di un sistema a coda lunga fatto da più di un milione di piccole e piccolissime aziende hi-tech, che partecipano alla stessa spinta innovatrice.

Un sistema differente da quello costruito con la logica del distretto che costituisce l’essenza della Silicon Valley. Invece, Shenzhen non funziona più solo come un remix, anzi un bootleg, di iniziative che prendono pezzi di innovazione e prodotti realizzati da altri e li riadattano al proprio piano, alla propria idea. In cinese si dice ”Shan Zhai“, letteralmente “villaggi di montagna”, ma in pratica vuol dire copie non autorizzate e di bassa qualità.

Il rischio sulla strada dell’innovazione è enorme. Per i singoli, però, non per il sistema, che comunque va avanti. Tuttavia, i singoli hanno altri vantaggi: si muovono più veloci, con agilità. I costi si infatti abbassano sempre di più: coworking, reti di mentori, incubatori, microfinanziamenti, reti informali. E competenze diffuse. A Shenzhen ci sono 700mila laureati in ingegneria, più del doppio di quelli iscritti all’albo professionale in tutta l’Italia.

Il mercato interno cinese cresce talmente rapidamente che spingersi all’estero è sempre meno determinante

Per i piccoli in Cina oltretutto il maggior problema, cioè le barriera tariffarie, di logistica e linguistiche per raggiungere la clientela del resto del mondo, stanno diventando sempre meno rilevanti. Da un lato vengono superati da una generazione che conosce meglio l’inglese ed ha comunque accesso a piattaforme digitali multilingue. Dall’altro, il mercato interno cresce talmente rapidamente che spingersi all’estero è sempre meno determinante. Si riesce a fare tutto in casa: dalla committenza locale per avviare la produzione al marketplace digitale sino ad arrivare al pubblico cinese.

Non sa nessuno, neanche gli stessi cinesi, come sarà il futuro di Huaqiangbei e in generale della produzione che proviene dal delta del Fime delle perle o dal resto della Cina. Le opportunità sono arrivate a maturazione, una serie di ostacoli sono stati evitati e non era per niente scontato che si riuscisse. Il passaggio da “Made in China” a “Created in China” tuttavia non è stato ancora compiuto e nessuno sa che forma prenderà. L’unica cosa certa è che sarà molto diverso da quelle che sono le strutturi della produzione e del commercio attuali.

Un ragazzo cinese che attraversa al strada a Milano, orgoglioso di indossare il marchio che lo sta aiutando a costruire una nuova identità, originale e al di fuori degli immaginari americani ed europei, ne è forse l’avanguardia.


(pubblicato ad aprile 2018)