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I due gemelli: B-737 e A320


I due fratelli molto differenti tra loro ancora oggi sono entrambi sul mercato. Sentono la pressione di una concorrenza più agguerrita che mai, ma possono anche fare di conto su aiuti insperati. Questa è la loro storia


Questa è la storia di due gemelli alquanto differenti. Cominciamo dal primo.

Nel sud degli Stati Uniti, soprattutto in Louisiana, è il modo per indicare l’euforia che consegue alla libertà dai problemi della vita. Un modo alquanto strano per esprimere un concetto a dire il vero già singolare di suo: da quelle parti dicono infatti “seven-three-seven”, cioè 737. Che poi qui ci interessa per via di un altro significato, ben più pregnante nel settore aeronautico civile. 737 è infatti la sigla di una famiglia di velivoli nati all’incirca la bellezza di 45 anni fa: era il 9 aprile del 1967 quando il primo Boeing 737 ha fatto il suo volo d’esordio e il 10 febbraio del 1968 quando è entrato in linea grazie alla Lufthansa. Un sacco di tempo? Beh, neanche poi tanto vista la “freschezza” degli aerei di quella famiglia prodotti al giorno d’oggi.

Cos’è il 737? Un pezzo fondamentale nella storia dell’aviazione, ovviamente, anche perché sennò non ne parleremmo qui. Ma è davvero un pezzo grosso. Anzi, è il best seller dell’aviazione civile. Di B-737 ce ne sono un botto, più di qualsiasi altro tipo di aeroplano: ne sono stati prodotti finora quasi 7mila esemplari e l’ufficio vendite della Boeing ha un ordinativo da evadere per altri 2.215. In ogni momento, in media, 1.250 Boeing 737 stanno volando sopra le nostre teste, e ogni cinque secondi ce n’è uno che sta atterrando e uno che sta decollando. Non male, vero?

È un vecchio gioco, che rende più complicato da comprendere il funzionamento di questo mercato (ma solo perché la nostra mente è abituata a pensare comparando indici monodimensionali) rendendolo però al tempo stesso anche molto affascinante

Esistono nove varianti del B-737, con una capacità compresa fra gli 85 e gli 215 passeggeri. Come scopriremo andando avanti in questa cavalcata nel mondo del volo civile, i grandi produttori di aerei (Boeing e Airbus, ma anche gli altri, cioè i brasiliani di Embraer, i canadesi di Bombardier-Canadair e gli altri cinesi, russi, giapponesi) non producono aerei rispettando una misura canonica: anzi, sia l’autonomia che la capacità in termini di passeggeri variano di proposito da modello a modello, per fare in modo che l’offerta di un produttore possa acchiappare il “vuoto” lasciato nel catalogo del concorrente, sovrapponendosi ma solo in parte. È un vecchio gioco, che rende più complicato da comprendere il funzionamento di questo mercato (ma solo perché la nostra mente è abituata a pensare comparando indici monodimensionali) rendendolo però al tempo stesso anche molto affascinante. Almeno secondo me.

Il Boeing 737 nasceva come aereo super-economico. Doveva fare il lavoro “sporco” per la Boeing, che già aveva a disposizione due “grandi” jet, cioè il grande quadrimotore B-707 e la taglia intermedia trimotore B-727 (il terzo motore, per chi fosse troppo giovane e non ne avesse mai visti, sta in coda, a cavallo tra l’impennaggio e il finale la fusoliera). Il B-737 doveva cioè portare pochi passeggeri – una sessantina al massimo – per brevi-medie distanze: al massimo entro i 1.600 chilometri, al minimo un centinaio di chilometri.

Quando progetti un aereo così, lo fai parecchio resistente, perché deve reggere un numero elevatissimo di cicli (atterraggi-decolli) poiché in una giornata è capace di fare quattro, cinque, sei, anche una decina di tratte. E la robustezza del progetto è sicuramente il primo punto forte del B-737. Che non nasceva nel vuoto pneumatico.

La cosa come veniva su piaceva molto alla tedesca Lufthansa, per dire, che proprio all’epoca stava ingranando ed emergeva come una delle migliori tra le compagnie aeree europee

La cosa più interessante è che all’epoca in cui i progettisti della Boeing si mettevano al tavolo da disegno cercando di immaginarsi un piccolo, pratico “muletto” che costasse poco e facesse tanto, c’erano già il DC-9 e il Fokker F28 in via di certificazione. La BAC stava lavorando al suo One-Eleven e in totale c’era un mercato (molto americano, a dire il vero) fatto di numerose opzioni per chi volesse portare un po’ di gente rapidamente da un posto all’altro lungo una distanza non grande.

La cosa come veniva su piaceva molto alla tedesca Lufthansa, per dire, che proprio all’epoca stava ingranando ed emergeva come una delle migliori tra le compagnie aeree europee. L’idea era di usare questo velivolo per collegare città distanti in Germania e poi connettersi con i grandi snodi continentali: Parigi, Londra e Roma. L’idea piaceva, anche perché i tedeschi, pianificatori attenti al lungo periodo, pensavano anche Berlino, che era rimasta isolata nel “cuore” della Germania dell’Est, la DDR, e che fino al 1989 poteva essere raggiunta solo da compagnie aeree delle nazioni che erano responsabili dei quattro settori in cui era divisa: Francia, Regno Unito, Usa e Urss, e l’Urss evidentemente non contava. Ma un giorno, mi piace immaginare si dicessero i dirigenti di Lufthansa, chissà…

L’idea del B-737 piaceva, ma l’aereo all’inizio non ebbe il successo sperato. Anzi. Numerose problematiche di produzione, la scelta infelice della prima motorizzazione (c’era un problema di frenatura tramite l’inversione del getto dei motori, che toglieva “grip” ai freni delle ruote) e comunque un più generale momento di stasi economica non favorivano molto lo sviluppo del velivolo.

Pochi avrebbero potuto immaginarsi che uno dei motivi principali che hanno reso il 737 un tale “mulo” dei trasporti aerei stavano realizzandosi proprio in quegli anni. Sconosciuta ai più, una singolare coppia di imprenditori texani (Rolling King e Herb Kelleher) aveva fondato a fine anni Sessanta la Air Southwest e stava facendo causa a destra e a manca per rivendicare il diritto di volare senza dover sottostare alle regolamentazioni federali. L’idea dei due texani era che, poiché fornivano servizi solo all’interno dello stato del Texas, non dovevano sottostare alle regolamentazioni e ai vincoli pensati per il volo interstatale. I due avevano idee sinceramente originali per il volo, a partire dalla selezione delle hostess: per effettuarla chiamarono anche il tizio che aveva fatto il casting per le conigliette che lavoravano sull’aereo privato di Hugh Hefner (avete presente il boss di Playboy?) e grazie a lui e ad altri “esperti” misero insieme in cast di hostess della piccola compagnia che venne descritto come «long-legged dancers, majorettes, and cheerleaders with “unique personalities”».

Fu l’inizio dell’era delle low cost, come vedremo più avanti, e il B-737 risultò essere l’aereo perfetto per questa scelta

All’inizio l’azienda non andava bene. Volava in perdita, utilizzando i suoi tre B-737; avrebbe però cambiato nome all’inizio del 1971 in Southwest Airlines e mantenuto fede all’idea che il modello di affari migliore per una compagnia aerea che offriva biglietti a basso costo era quello di avere bassi costi anche nelle operazioni. A cominciare dalla scelta di un unico modello di aereo per tutti i voli. Fu l’inizio dell’era delle low cost, come vedremo più avanti, e il B-737 risultò essere l’aereo perfetto per questa scelta.

Più economico di altri, più flessibile, di più facile gestione, il B-737 veniva infatti venduto a prezzi più bassi della concorrenza, perché la Boeing poteva sfruttare il fatto che fosse una derivazione del 727, di cui utilizzava numerose componenti, compresi alcuni segmenti della fusoliera. Il vantaggio erano non solo nei più bassi costi di produzione, ma anche nel maggiore spazio interno grazie a un design che nasceva per un aereo più grande.

La scelta di avere motori agganciati ai piloni direttamente al di sotto delle ali (che in principio aveva creato alcuni problemi, come abbiamo visto) portò invece a una serie di vantaggi operativi, facilitando l’accesso alla componente che più spesso ha bisogno di verifiche e manutenzione a terra, cioè il motore stesso. Vennero scelte buone motorizzazioni dell’epoca, cioè turbofan a basso rapporto di diluizione (low-bypass) che oggi sono invece sostituite da sistemi con un hi-bypass ratio (grazie agli statori a geometria variabile che eliminano il rischio di stallo del compressore) e quindi con un corpo del motore adesso più “cicciotto” ma al tempo stesso molto caratteristico per il B-737: il motore è riconoscibile perché non solo molto “basso” rispetto al suolo, ma anche perché artificialmente “appiattito” nella parte bassa per non rischiare di sfregare a terra.

Notarla è poi uno dei trucchi per riconoscere a colpo d’occhio il B-737 dal suo avversario più diretto, l’A320

A rendere riconoscibile il B-737 è anche la scelta di avere il piano orizzontale degli stabilizzatori (le alette alla coda dell’aereo, cioè quello che si chiama l’impennaggio) con gli stabilizzatori messi non a forma di “T” (ovverosia agganciati alla cima dello stabilizzatore verticale, come nel 727), ma agganciati direttamente alla coda della fusoliera, nella configurazione più tradizionale e diffusa nell’aviazione civile. Ma c’è un particolare aggiuntivo: per dare più respiro e profondità aerodinamica, senza dover far crescere troppo la dimensione della pinna verticale (come accade per esempio nell’A330), questa viene avanti e si lega al dorso della fusoliera con una discesa più angolata, molto particolare e più lunga di quelle tradizionali. Notarla è poi uno dei trucchi per riconoscere a colpo d’occhio il B-737 dal suo avversario più diretto, l’A320. Ultima differenza, le “winglet”, le estensioni verticali sulla punta delle ali per ridurre i vortici e aumentare l’efficienza aerodinamica (e quindi diminuire i consumi). Quasi tutti i nuovi 737NG le montano, e nel caso di questi aerei vanno sempre e solo verso l’alto con una curva dolce, mentre la versione utilizzata da Airbus per i suoi è più corta e brusca, oltre ad andare sia verso l’alto che il basso.

Il B-737 è un buon aereo? Certo! Uno dei migliori in circolazione. Ma il suo successo è legato a due fattori in particolare. Fino al 1978 il B-737 non riscosse un particolare successo, pur avendo tutti i numeri per dare del filo da torcere alla maggior parte degli altri aeroplani nella fascia dei “piccoli ma economici”. Però alle grandi compagnie aeree non interessava l’argomento. Boeing lo aveva capito e spingeva molto il mercato internazionale, soprattutto quello dei paesi emergenti, dove l’aereo stava cominciando ad avere una certa popolarità: America Latina, Africa, Medio Oriente, Asia.

Poi, il botto: nel 1978 il mercato ingrana e si parte con 145 ordini in un anno, cifra al di sotto della quale il B-737 non è mai più sceso. Motivo? Lo spiega Robert Jackson in un suo vecchio libro dedicato ai 300 più importanti aerei civili al mondo: “Il governo americano abolì quell’anno le regolamentazioni che avevano impedito alle piccole ma efficienti compagnie aeree regionali di competere su linee al di fuori del loro bacino naturale”. È la “deregulation”, quella di Ronald Reagan (anche se la sistematica riduzione delle regole e dei prezzi nei trasporti americani erano iniziata già con l’amministrazione Nixon, era stata portata avanti da Ford e soprattutto Carter, e infine da Reagan).

Su quest’aereo tutto “made in Europe” sono stati scritti letteralmente decine di libri

Il B-737 fu l’apparecchio nella posizione migliore per raggiungere un successo spettacolare, vendendo sia in patria che all’estero centinaia e centinaia di esemplari, diventando uno degli aerei più popolari al mondo. Ma niente è per sempre. Fino ad ora il B-737 ha vissuto due fasi della sua lunga vita: quella della crescita solitaria, conquistando mercato grazie anche alla estrema flessibilità nella trasformazione tra configurazione passeggeri e quella cargo, e poi quella della Next Generation. Che arriva a partire dalla versione -600 nel 1991, seguita dalle -700, -800 e -900. I B-737NG nascono per un solo motivo: la concorrenza di un nuovo avversario, l’Airbus A320.

Su quest’aereo tutto “made in Europe” sono stati scritti letteralmente decine di libri. Uno di quelli più singolari ma al tempo stesso interessanti è la ricostruzione dell’incidente accaduto al volo US Airways 1549 comandato da Chesley Sullenberg, meglio conosciuto come Captain Sully. Quel volo, se vi ricordate, era partito da LaGuardia (LGA) e doveva andare a Charlotte/Douglas International (CLT) nella Carolina del Nord. Era il primo pomeriggio del 15 gennaio 2009, l’aereo era uno dei 74 A320 in servizio all’epoca per UA, con 150 passeggeri a bordo. Due minuti dopo il decollo, avvenuto alle 15:30, mentre saliva lungo il vettore che lo doveva portare a 4.600 metri, alla quota di 820 metri, l’A320 incocciò in uno stormo di oche canadesi che danneggiarono i motori causando la conseguente perdita la spinta da entrambi i lati. Tuttavia, grazie all’abilità dell’equipaggio e al sistema di guida “fly-by-wire” dell’apparecchio, l’A320 riuscì ad ammarare (anzi, ad “affiumare”) nell’Hudson, fortunatamente senza nessuna vittima.

Il libro che racconta questa storia (uno dei libri, secondo me il migliore) è quello del giornalista William Langewiesche, finora mai tradotto in italiano, intitolato Fly by Wire: The Geese, the Glide, the Miracle on the Hudson. Merita di essere letto per vari motivi, non foss’altro per le pagine che ricostruiscono l’attitudine psicologica delle oche canadesi quando vedono sopraggiungere dal basso un A320. Langewiesche, che ha fatto per anni il pilota di linea prima di diventare uno dei principali inviati “a tutto campo” del giornalismo americano, indaga e ricostruisce in modo originale la dinamica dell’incidente e del suo buon esito, leggermente infastidito dalla mitizzazione fatta dai media di “Captain Sully” e proponendo tuttavia punti di vista e angoli dell’analisi alquanto originali. La conclusione è che il 55enne pilota ha fatto le scelte giuste, da buon burocrate del volo, ma che in realtà il grosso del lavoro per non schiantarsi stallando l’ha fatto l’A320, o meglio i suoi sofisticati sistemi di bordo. Sì, perché a differenza del 737, l’aereo creato dal consorzio Airbus, è un piccolo prodigio di avionica digitale e di tecnologia informatica.

Il nuovo apparecchio creò le basi del successo economico e politico di Airbus, ma anche e soprattutto diede ragione alla strategia della “commonality”, la “comunanza” di parti e di impostazioni del design, portata alle estreme conseguenze dagli europei

Battezzato al volo il 22 febbraio 1987 ed entrato in servizio 28 marzo 1988 con Air France, l’A320 ha rivoluzionato il mondo del trasporto aereo. Più che colpire soltanto il suo segmento, quello dei 130-180 posti, ha creato i presupposti per il successo di Airbus, fino a quel momento un’azienda magmatica, nata alla fine degli anni Sessanta per far competere buona parte dell’industria aerospaziale europea (tedeschi, francesi, britannici e spagnoli) con i colossi americani: Boeing, McDonnell e Douglas, e dotata di due modelli di aereo: l’A300 e l’A310. Il nuovo apparecchio creò le basi del successo economico e politico di Airbus, ma anche e soprattutto diede ragione alla strategia della “commonality”, la “comunanza” di parti e di impostazioni del design, portata alle estreme conseguenze dagli europei. La cabina di pilotaggio della famiglia degli A320 (che comprende i “corti” A318 e A319, e il più lungo A321) è pensata per condividere il maggior numero possibile di strumenti, la loro posizione e la loro modalità di funzionamento, anche con gli aerei successivi. Vale a dire: A330 e A340, seguiti dall’A380 e in futuro dall’A350.

Questa strategia è quella che ha consentito all’A320 di offrire un serio vantaggio competitivo dal punto di vista economico ed operativo per gli aerei di Airbus rispetto ai concorrenti americani, spesso appartenenti a produttori diversi, con sostanziali differenziazioni sia nella progettazione che nella componentistica e nelle impostazioni della cabina di pilotaggio. Queste differenze vogliono dire costi più elevati di progettazione, costruzione e gestione. Per l’ultimo punto, banalmente i piloti e l’equipaggio di cabina non può essere certificato che per uno o due tipi di aereo da operare alla volta: troppe varianti differenti tra loro nella stessa flotta moltiplicano a dismisura il personale necessario per volare ogni giorno. È stato, tanto per non dimenticarcelo, uno dei principali problemi della nostra Alitalia.

L’A320 costrinse così Boeing a reimpostare la vita dei B-737 con la Next Generation attualmente in funzione. La vita relativamente più corta della famiglia dell’A320 (ci sono meno di cinquemila A320 in circolazione, con ordini per altri tremila e poco più) garantisce un più lungo sviluppo dell’attuale linea. Il modello A320 è già stato “potenziato” (“Enhanced”, erano quelli di Air One, ad esempio) una volta e si pensa che potrà arrivare almeno al 2025 prima che possa entrare in linea il suo successore, già chiamato NSR (per “New Short-Range aircraft”), quindi un po’ di tempo possiamo dire che ci sia. Le varianti più brevi sono effettivamente molto flessibili e la famiglia dell’A320 in questo momento compete con serenità con avversari molto diversi da quelli che erano presenti sul mercato al momento della sua nascita.

Se all’epoca della nascita dell’A320 c’erano i “vecchi” B-737 e la famiglia degli MD-80 (eredi degli ancora più vecchi DC-9, passati alla McDonnell Douglas poi diventati Boeing per una brevissima stagione come 717), oggi il panorama è parecchio diverso. Ci sono infatti gli Embraer E195 e la serie C di Bombardier-Canadair nella fascia degli aerei più piccoli e i Boeing 737NG per quelli più “lunghi”, mentre si stanno facendo sotto anche i russi di Sukhoi (con il Superjet 100 al quale abbiamo contribuito in buona parte anche noi italiani, grazie a Finmeccanica), i giapponesi di Mitsubishi (con il loro aereo regionale MRJ nelle due varianti -70 e -90) e i cinesi con il carrozzone di stato Comac (hanno in piedi sia gli ARJ21 che i C919 e i C929). Stanno tutti alacremente lavorando per ritagliarsi un angolo di paradiso e di mercato.

Si tratta di un sistema alquanto complicato, la cui spiegazione è oltremodo difficile soprattutto perché si apprezza non da una prospettiva statica ma solo se si immagina l’aereo impegnato nel decollo, nel volo o nell’atterraggio. Una magnifica spiegazione viene data da William Langewiesche nel già citato Fly by Wire

La novità tecnologica “interna” portata dall’A320 era anche un’altra: il sistema di controllo “fly-by-wire”, di cui i pionieri erano a dire il vero gli americani per quanto riguardava i caccia militari, ma che fino a quel momento nessuno aveva pensato seriamente di implementare negli aerei di linea. Invece, Airbus non solo lo fa, ma lo fa in maniera tradizionale, sostituendo al consueto volantino (la “cloche”) in posizione centrale, un joystick laterale (alla sinistra del comandante e alla destra del primo ufficiale) e mettendo assieme non solo comandi e attuatori mediati dall’impianto elettronico, ma anche un parterre di computer che si occupano di gestire moltissimi aspetti del volo. Si tratta di un sistema alquanto complicato, la cui spiegazione è oltremodo difficile soprattutto perché si apprezza non da una prospettiva statica ma solo se si immagina l’aereo impegnato nel decollo, nel volo o nell’atterraggio. Una magnifica spiegazione viene data da William Langewiesche nel già citato Fly by Wire. Il cambiamento è, comunque, epocale e non ha tanto a che fare con la digitalizzazione del cruscotto sulla plancia della cabina di pilotaggio, quanto sulla trasformazione della natura stessa dell’aereo, che adesso ha sistemi e sottosistemi digitalizzati e gestiti contemporaneamente dal pilota e dai cervelli elettronici di bordo.

I due fratelli molto differenti sono oggi entrambi sul mercato. Sentono la pressione di una concorrenza più agguerrita che mai, ma possono anche fare di conto su aiuti insperati. Dall’aeroporto di London City (LCY), uno dei miei preferiti in Europa, possono decollare i corti e maneggevoli A318 di British Airways in un assetto “long distance” che consente loro di arrivare a New York (JFK o in teoria EWR) con solo un veloce scalo a Shannon (SNN) e invece tornare con un volo diretto. L’aiuto è arrivato nell’aspetto di regolamentazione, assieme alla tecnologia. Il merito è infatti della regole introdotte con il nome “Etops”, cioè Extended-range Twin-engine Operational Performance Standard (Parametro di Prestazione Operativa per bimotori a gamma estesa) a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Cosa vuol dire? Che un bimotore può compiere lunghe trasvolate in aree come l’oceano, dove cioè gli aeroporti di emergenza in cui atterrare se la metà dei motori si dovesse rompere, è parecchio lontana. Per gli aerei quadrimotore il problema è meno importante perché, se si rompono la metà dei motori, ne restano sempre due che devono fare il lavoro di tutti e quattro. Per risparmiare sul costo dei motori, erano stati inventati proprio con questo pensiero in mente gli aerei trimotore (così se si rompe un motore, ne rimangono sempre due). Ma sui bimotori, la possibilità di avere un valore alto di ETOPS diventa fondamentale: anziché 75 minuti dall’aeroporto in qualsiasi momento del volo, diventa fondamentale poter avere un raggio di autonomia di 90, 120, 180 minuti. Il massimo sono i 240 minuti, ma questi sono per i quadrimotori e basta.

Legato a una poltroncina, sparato a 900 chilometri all’ora a un’altezza di diecimila metri all’interno di un fuso di alluminio tenuto in aria dal principio di Bernoulli (o qualcosa del genere)

Avere più di un’ora e mezza di autonomia per il primo aeroporto di diversione (la pista alternativa che un aereo deve poter raggiungere in caso di guai imprevisti) permette di volare lungo le coste dell’Islanda, della Groenlandia e del Canada e arrivare negli Usa (oppure saltare dall’Africa al Brasile) aprendo la via delle Americhe agli A300, agli A310, A330, agli A320 (raramente ma ci vanno anche loro) e ai B-777, B-767, B-757 e teoricamente ai B-737, anche se l’unico di cui ho avuto notizia finora è quello di PrivatAir, compagnia aerea svizzera che fa servizio per terzi, con un B-737 della serie Boeing Business Jet (BBJ) in questo caso da Schiphol (AMS) fino a Houston (IAH) per conto di KLM: il servizio però è stato chiuso e ora KLM ci vola con uno dei suoi A330.

Legato a una poltroncina, sparato a 900 chilometri all’ora a un’altezza di diecimila metri all’interno di un fuso di alluminio tenuto in aria dal principio di Bernoulli (o qualcosa del genere) con radar e boe radio che segnalano quale strada seguire sopra le nuvole, nella notte buia delle rotte transatlantiche, sapere che i due motori che vibrano costanti sotto le ali sono più che sufficienti per il loro scopo rende il sonno più dolce e mi fa sentire cullato come mai si riuscirebbe rimanendo a contatto con la Terra.

(pubblicato domenica 1 gennaio 2012)