+

Pimp My Hasselblad - Parte Seconda


(parte prima) (parte seconda) (articoli del 21 e 28 gennaio 2017)


E allora, andiamo a digitalizzare la mia Hasselblad. Riassunto della puntata precedente: l’estate passata ho potuto fare un piccolo esperimento, cioè rendere digitale la mia vecchia Hasselblad 500c. Dopodiché, per allinearci tutto a quello di cui sto parlando, è seguito un non breve riassunto di cosa sia una Hasselblad: la leggenda della fotografia a pellicola medio formato. Nel mio caso l’apparecchio Made in Sweden (la città di origine è Göteborg, per la precisione) è di fine anni Cinquanta, ma va ancora che sembra una sposa. Mi diverto molto a fare delle gran foto (in tutti i sensi: il negativo è circa sei centimetri per sei centimetri, rispetto al canonico 2,4 per 3,6 cm del piccolo formato 35mm) e non credevo si potesse davvero ridare vita digitale all’apparecchio.

Hasselblad 500c
Quando usi una Hasselblad la guardi dall’altro, attraverso il pozzetto. La prima volta che guardi giù viene subito rapito dalla spettacolarità dell’immagine catturata da quella lastra di vetro fresato

Dopodiché, invece, si può. Per capire come – e per cercare di mitigare gli spoileristi dei commenti della prima parte (lo dico sorridendo, ma fate degli spoiler da paura) – sono necessarie due digressioni non troppo rapide. Consentitemelo, per cortesia.


Prima digressione: il sale della fotografia

Le aziende non sono persone. Anzi, le aziende secondo me sono le persone che le fanno operare giorno per giorno: proprietari, vertici, quadri, impiegati, maestranze e (ci metto anche loro, perché dopotutto questo è il mio ruolo professionale nel giornalismo in quanto freelance) quell’insieme di competenze esterne che nonostante tutto contribuiscono in maniera appassionata al risultato finale. Insomma, le aziende sono i loro stakeholder.

Per questo quando un’azienda arranca, magari perché il mercato è cambiato troppo velocemente, oppure perché il percorso scelto dai vertici si è rivelato in parte sbagliato, bisognerebbe guardare con più empatia a quello che succede. Hasselblad è arrivata tardi e male alla digitalizzazione della fotografia, ma non solo. Il colosso estremamente costoso ma di grande eccellenza negli scatti grazie alla qualità del medio formato e degli obiettivi Zeiss, usata quasi sempre per moda, pubblicità e still life, è diventata all’improvviso solo un costoso ingombro. Nel mezzo, per aggravare la crisi degli anni Novanta-Duemila, ci sono stati anche un buon numero di passaggi di proprietà che non hanno certo aiutato.

Il vero problema però è venuto da fuori. Nel giro di pochi anni il mercato si è ristretto, i fotografi professionisti sono passati ad altri corredi, prima (in parte) con le reflex 35mm a pellicola più moderne degli anni Settanta e poi con le macchine digitali alla fine degli anni Novanta, restringendo notevolmente i margini di manovra dell’azienda. È successo la stessa cosa anche a Leica, ad esempio, il campione tedesco della fotografia di piccolo formato che si è visto superare da destra e da sinistra sia nel piccolo formato (che aveva inventato lei) che nel digitale. Ed è successo a tantissime altre aziende che non hanno saputo cavalcare l’innovazione. Alcune hanno saputo reinventarsi, altre meno, altre proprio no.

Per il mercato di Hasselblad c’è stata una prima risposta da parte di fornitori di tecnologia esterni, che hanno realizzato dorsi digitali per le macchine della serie 500. Vi ricordate che dicevo che il sistema Hasselblad ha l’unicità di essere estremamente modulare? Il magazzino, cioè il contenitore della pellicola, è dotato di alcune caratteristiche tra le quali la possibilità di essere sganciato anche a rullo non terminato e sostituito con un altro, dotato di un altro tipo di pellicola. Perché allora non sostituirlo del tutto con un magazzino che contiene, invece della pellicola, un sensore fotografico, una batteria e una scheda di memoria (e anche una connessione veloce come la Firewire per agganciarlo al Mac o Pc, visto che in studio il digitale si scatta prevalentemente in tethering), trasformandolo così in un prodotto ancora attuale?

Detto fatto: spuntano i primi dorsi di terze parti mentre Hasselblad esplora con lentezza la strada di nuove generazioni di apparecchi digitali, che però sarebbero arrivati un po’ a singhiozzo. Per la precisione, sarebbero arrivati cominciando con il 2002: il primo esemplare della nuova serie H (che ha retroattivamente cambiato nome alla serie “500” in “V”, arguto gioco tra “quinto” alla romana e la “V” di Victor Hasselblad), figlio anche della collaborazione con la giapponese Fujifilm.

Non mi perdete perché qui la cosa si fa complicata, ma sono solo passaggi aziendali. In pratica: Hasselblad si allea con i giapponesi, comincia a produrre macchine digitali ma dal momento che non esistono sensori 6×6, cioè quadrati, decide di cambiare formato (e fu una decisione davvero sventurata) passando al 6×45. Dopodiché, in una mossa quasi suicida, smantella la divisione digitale e si ributta sulla pellicola, praticamente andando a fare un frontale con gli avversari di sempre: Mamiya e Pentax, veri e propri dominatori del medio formato 6×45 che si stavano digitalizzando a tappe forzate e con buoni risultati.

Meetup in Svezia
Meetup in Svezia: Victor Hasselblad (a sinistra, con la sua macchina) incontra un altro pioniere del medio formato, Reinhold Heidecke (a destra, con la Rolleiflex), creatore dell’azienda tedesca delle biottiche assieme all’amico e socio Paul Franke

Il fatto è che il formato conta non solo per la dimensione della pellicola, ma anche per il rapporto di forma. I giganti dello scatto quadrato 6×6 erano Hasselblad e la tedesca Rolleiflex (quella delle biottiche del nonno, avete presente? Io ne ho una in casa, quindi sì). E dietro c’era non solo una filosofia di vita sulla composizione dello scatto nel quadrato rispetto a quella nel rettangolo di cui possiamo anche fare a meno perché fa parte di quelle cose un po’ onanistiche che piacciono tanto a chi in realtà non scatta mai una foto, ma c’era anche un problema tecnico. Scattare foto in un quadrato vuol dire non aver mai bisogno di girare la macchina sul fianco, perché non c’è un lato “panorama” e un lato “ritratto”. Ergo, sia le biottiche che le macchine come le Hasselblad non sono pensate per essere inclinate di lato. Poca roba, dite voi? Mica tanto, se all’improvviso si passa a un formato rettangolare 6×45, cioè 4:3 con il problema di mantenere la compatibilità con accessori pensati per essere usati su di un solo lato.

I pasticcio è colpa di (passati) proprietari che non si fidavano della possibilità di guadagnare con il digitale e decisero di tornare indietro mantenendo però il nuovo tipo di taglio dei negativi. Cattivi proprietari.


Una mezza digressione non prevista sulle pellicole

Le pellicole medio formato usate dalla Hasselblad e dagli altri si chiamano “120” e sono fatte a rullo: non c’è una cartuccia che fa da contenitore come per il 35mm, che poi Kodak aveva battezzato “135”, così come “120” è il nome dato da Kodak nel 1901 per la pellicola della sua Brownie n.2. Invece, sono rocchetti attorno ai quali viene arrotolata la pellicola su cui è incollata (da un lato) una striscia di carta di pari lunghezza che serve prevalentemente per proteggere il film sottostante. Quando si carica la macchina, si toglie dal posto di entrata il rocchetto avanzato della pellicola precedente e lo si mette al posto di presa, dove andrà a raccogliere il film man mano che si scattano le immagini. Nel posto di entrata viene inserito il nuovo rocchetto, dopodiché manualmente si aggancia la punta della pellicola al rocchetto di presa, si avanza fino allo stop (cambia da tipo di caricatore a tipo di caricatore) e si chiude il tutto per cominciare a scattare.

Esisteva, per la cronaca, anche una versione chiamata “220” della pellicola, di lunghezza doppia del film ma con lo stesso volume (perché mancava della carta posteriore di protezione, se non all’inizio e alla fine del rullo), che oggi non viene più prodotta e che veniva usata prevalentemente da chi faceva matrimoni e aveva bisogno di molti scatti. Sì perché a seconda del formato cambiava il numero degli scatti disponibili (ovviamente). Che erano molto pochi.

Il 120 permette di scattare immagini che hanno un’altezza di sei centimetri (in realtà leggermente meno) e vari rapporti di lunghezza: 6×45 (con un rullo si possono fare 16 scatti), 6×6 (dodici scatti), 6×7 (dieci scatti), ma ci sono anche apparecchi panoramici (non sto parlando di Hasselblad) che macinano 6×8 (nove scatti), 6×9 (otto scatti) e persino 6×12 (sei scatti). Considerando che oggi un rullo formato 120 di pellicola Kodak T-Max 100 o Ektar 100 (il primo in bianco e nero e il secondo a colori), costa tra i 5 e i 7 euro, bisogna abituarsi a far contare ogni scatto. Perché poi c’è da svilupparli (in laboratorio a Milano, circa 5 euro), eventualmente fare provini a contatto (più o meno altri 5 euro) o scansioni (qui il prezzo dei laboratori varia in maniera secondo me criminale, ma ne riparleremo). Infine, la stampa, che cambia per la carta scelta, la tecnologia di stampa, il formato.

Fine della mezza digressione non prevista, con due concetti da mettersi in tasca. Fare foto a pellicola costa; fare foto con il formato 6×6 fornisce un certo tipo di risultato ma soprattutto un certo tipo di ergonomia quando si lavora per lo scatto, mentre il 6×45 ne fornisce tutto un altro. Hasselblad aveva fatto dorsi per pellicola 6×45 e addirittura 4×4 (semplicemente mettendo delle mascherine all’interno e regolando l’avanzamento della pellicola: il 4×4 è ben più piccolo ma sempre più grande di un piccolo formato 135 e permette di fare 18 scatti) ma non erano molto popolari se non tra chi voleva cercare di risparmiare un po’ di pellicola.


Meglio grande o meglio piccolo?

Tuttavia resta ancora una cosa da dire. Perché è così importante la dimensione assoluta del negativo della foto? Il suo centimetraggio, per così dire? Una distinzione va capita, sennò i giovani Millennials rischiano di cadere nell’equivoco. Il vecchio mondo pre internet e pre digitale, aveva come punto di arrivo sempre la stampa. Immagini fermate su carta, e quindi fermate in una certa dimensione, non come quelle digitali che possono essere viste su una infinità di schermi diversi con una infinità di fattori di zoom (indifferentemente più grandi o più piccoli della immagine “fisica”).

Invece, un negativo di pellicola di dimensioni fisicamente più grande ha al suo interno concretamente più particolari e una grana meno visibile (perché più piccola in relazione alla dimensione del fotogramma: i sali di argento sono sempre grandi uguali, ma cresce la superficie della pellicola), cosicché si possono stampare fotografie con meno “rumore” analogico e con meno perdita di particolari dato che occorre fare meno ingrandimenti a parità di formato di stampa finale.

Anzi, per dirla tutta, il discorso va visto esattamente al contrario. Per un sacco di tempo i negativi erano molto grandi perché in qualche modo compensavano i difetti delle emulsioni della pellicola e delle ottiche. È stata Leica (all’epoca, Leitz) la prima che se l’è sentita ed è riuscita a fare una macchina fotografica e poi un ingranditore da camera oscura con obiettivi e lenti talmente buone da poter utilizzare con ottima definizione dei dettagli e poco rumore la piccola pellicola cinematografica (24 x 36 mm) disponibile in grandi quantità e più economica del medio formato.

Tuttavia per lungo tempo, cioè fino agli anni Sessanta, i giornali e soprattuto le riviste preferivano le fotografie scattate con il medio formato, nonostante Leica fosse in circolazione con il piccolo formato dagli anni Venti-Trenta. Se i professionisti usavano il medio formato (con l’eccezione delle foto di cronaca giornalistica e sportiva) in ambito amatoriale si usava lo stesso formato solo perché presentava altri tipi di economia. Da un lato, le foto venivano meglio anche con equipaggiamento mediocre. Dall’altro, anziché ingrandire una immagine del medio formato quasi sempre era più pratico fare una stampa a contatto (basta la luce, non serve l’ingranditore) che comunque aveva un formato apprezzabile di poco meno di 6 x 6 centimetri e costava all’appassionato molto, molto meno. Per il bianco e nero se la poteva sviluppare e stampare anche da solo, nel bagno di casa sua.

Più avanti il miglioramento della qualità delle ottiche sia degli apparecchi che degli ingranditori ha permesso di dividere nuovamente il mercato in due: da un lato le macchine di qualità e dall’altra quelle più semplici e meno costose, che recuperavano le limitazioni dell’apparecchio grazie alla generosità del negativo sia in termini di dimensione che di emulsione. Tutto si è rotto con la diffusione del piccolo formato. Avere 36 scatti a disposizione anziché 12 ha decisamente spostato il baricentro verso il 24×36. Poi, pochi anni dopo, nei Settanta, sono arrivati anche i giapponesi con le reflex e tutto è cambiato ancora. Ma torniamo a noi e alla mia Hasselblad: è tempo della seconda digressione.


Le dimensioni contano di brutto (attenzione, questa è la digressione tosta)

Se ci siamo un po’ chiariti le idee con il formato della pellicola, cosa cambia con il formato del sensore? Si tratta di due mondi completamente differenti.

Viktor Hasselblad
Viktor Hasselblad, il padre della serie 500, con in mano una delle sue creature

Nonostante l’ossessione per il formato “full frame” da parte di tantissimi fotografi digitali, perché è considerato il punto di arrivo per tutti, da un punto di vista ottico rimane un “piccolo formato”, perché equivale al fotogramma di un rullino 24×36. Tuttavia, purtroppo per noi non è questa la chiave con la quale è stata affrontata la questione da parte dei produttori di tecnologie. E, come state per leggere, non poteva che essere così.

Il mercato dei produttori di sensori ci ha messo un sacco di tempo e di soldi per arrivare a realizzare sensori via via sempre più grandi sino al “full frame” a prezzi ragionevoli. Per questo, i suddetti produttori si sono trovati “fermi”, agganciati a costosi sensori molto più piccoli (frazioni di pollice britannico, oppure mezzo full frame, due terzi di full frame) di quelli che il pubblico riteneva essere le dimensioni “minime”. Come fare a comunicare l’idea di un avanzamento tecnologico costante? Come fare a vendere le nuove generazioni di tecnologia che stavano su un sensore esattamente delle stesse (piccole) dimensioni di quella precedente? È nata così la corsa ai megapixel. L’unico parametro che si trova scritto su tutte le macchine fotografiche digitali, ancora oggi: 5 megapixel, 10 megapixel, 20 megapixel e via salendo. I produttori, insomma, hanno deciso di aumentare al massimo la densità di elementi fotoassorbenti sulla superficie di silicio del sensore. L’idea era e a tutt’oggi è che più megapixel vuol dire più risoluzione, in ultima analisi vuol dire “meglio”.

È vero fino a un certo punto, perché se la superficie del sensore rimane sempre quella, mettiamo un full frame di 24 per 36 millimetri, aumentare gli elementi fotoassorbenti vuol dire necessariamente farli più piccoli. E quindi capaci di assorbire ciascuno meno luce e a rischio maggiore di errori (il dato registrato da un singolo elemento “sporca” anche quello degli elementi attorno a lui). Insomma, visto che i fotoni rimangono grandi uguali, fare dei fotoricettori più piccoli non è necessariamente un bene.

Così, mentre il marketing aveva la possibilità di usare la leva del megapixel, con generazione di prodotti sempre uguali dal punto di vista delle dimensioni e quindi della resa ottica ma più “densi” per la capacità di assorbire particolari, la resa della fotografia digitale ha cominciata a dipendere sempre più dalla capacità dell’elettronica e del software di interpolare le immagini e migliorarle già dentro l’apparecchio fotografico. Con buona pace della “naturalezza” della resa delle immagini digitali (idem per quelle a pellicola, per carità, però il digitale è davvero arrivato a un livello estremo di manipolazione durante e dopo lo scatto).


Un titoletto giusto per tirare il fiato

Dal punto di vista ottico, però, la dimensione del sensore conta, e non poco. Se ricordate cosa dicevamo la volta scorsa, c’è un fattore di “crop”, cioè di moltiplicazione della distanza focale, che cambia le cose. Segue le stesse regole della pellicola, peraltro: dopo aver stabilito arbitrariamente il riferimento con il piccolo formato 24×36, sappiamo che l’angolo con il quale un obiettivo inquadra il mondo può distorcerlo in due modi: rendendo più grande (avvicinandolo) o più piccolo (allontanandolo) il soggetto e la scena inquadrati. Dopotutto sono lenti, no? Come quelle di un cannocchiale. Se guardo in un mirino senza niente, vedo all’incirca come vedrei a occhio nudo. Se ci sono lenti che ingrandiscono, vedo meglio cose più lontane; se ci sono lenti che rimpiccioliscono, vedo più cose all’interno del mirino rispetto a quelle che vedrei a occhio nudo (pensate alle GoPro).

Grattacieli a Milano
Scatto dell’Hasselblad con pellicola Kodak Ektar 100 e obiettivo 50mm f/4 Distagon. Lo sviluppo ha avuto qualche problemino (le gioie dell’analogico)

L’obiettivo che lascia il soggetto più o meno lo vediamo noi si chiama “normale”. Il “normale” è un obiettivo tra i 40mm e i 50mm nel piccolo formato. È anche quello con la formula ottica più semplice: non a caso i “nifty fifty” sono i “cinquantini” economici e performanti delle reflex Canon e Nikon. Semplici, veloci e di qualità, a costi molto contenuti.

La lunghezza focale è la distanza tra il piano di messa a fuoco, cioè sensore o pellicola che sia, e il centro ottico delle lenti dell’obiettivo. Le proprietà ottiche di un obiettivo dipendono da questa e non dal diametro dell’immagine che proiettano sul sensore. Cioè, non cambiano se si cambia la dimensione del sensore o della pellicola sottostante. Cioè, non cambiano anche se cambia la quantità del cerchio dell’immagine che viene raccolta dal sensore.

Esempio pratico: come dicevo l’altra volta, sulla mia Hasselblad utilizzo un obiettivo Carl Zeiss 50mm “Distagon”. Se potessi montarlo su una macchina digitale (o a pellicola) di piccolo formato, il sensore raccoglierebbe solo la parte centrale di quel che inquadra quell’obiettivo (perché il sensore FF è più piccolo della pellicola medio formato 6×6 della Hasselblad) e quindi l’immagine catturata risulta più zoomata in avanti. Si vedrebbe solo un particolare, che sembrerebbe più grande. Ma la lunghezza focale dell’obiettivo rimane la stessa.

Il corollario di questa situazione è semplice: sull’Hasselblad quando scatto una foto con quel Distagon ho una immagine moderatamente grandangolare, cioè cattura più cose di quello che mi permette il campo visivo degli occhi. Su una Leica M10 (sensore full frame), ad esempio, lo stesso obiettivo catturerebbe più o meno le cose che vedo a occhio nudo. Se la metto sulla mia Panasonic GX1, macchina digitale formato micro43 (il sensore è la metà di un full frame) quello stesso obiettivo diventerebbe un tele equivalente a un 100mm, perché il sensore riceverebbe la luce e le immagini che provengono solo da una parte centrale ancor più piccola delle lenti dell’obiettivo.

L’obiettivo però rimane sempre lo stesso, e quindi le proprietà ottiche legate a quella determinata lunghezza focale rimangono le stesse a prescindere dalla macchina che viene usata. Un 50mm ha la caratteristica di avere un piano di messa a fuoco abbastanza breve, non ha distorsioni geometriche significative, mantiene bene la proporzione dei soggetti inquadrati (le teste sembrano teste: i nasi non vengono in avanti rispetto al resto della faccia e il cranio non si piega all’indietro) e la prospettiva è ben disegnata, “profonda” e staccata.

Per un tele medio è la norma. Per un “normale” è l’eccezione. Per un grandangolo medio è una figata. Per questo il medio formato, da un punto di vista della resa ottica è molto buono. E per questo invece le macchine fotografiche con sensori molto piccoli (sotto il micro quattro terzi, a voler essere generosi) hanno una resa ottica decisamente discutibile.


E arriviamo finalmente al digitale sull’Hasselblad

Prima dell’estate per curiosità sono andato a vedere come vanno le cose in Hasselblad. A Milano c’era una conferenza stampa dell’azienda, con l’allora nuovo AD Perry Oosting (che due giorni fa se ne è andato e ha lasciato il posto a Paul Bram) e soprattutto c’era la nuova macchina fotografica tutta digitale e mirroless medio formato X1D (bellissima, tra l’altro).

X1D
È davvero un apparecchio molto bello. Prima o poi riuscirà a provare la X1D. Nella presa di contatto di qualche mese fa mi ha fatto un’ottima impressione

Chiacchiero un po’ con quelli di Hasselblad che mi spiegano che il sensore del nuovo apparecchio (che sta andando in commercio in queste settimane) è lo stesso “bestione” da 50 megapixel utilizzato sull’ultima nata anche della serie H e su un altro apparecchio misterioso. Mentre gli emissari di Hasselblad scoprono che sono un “vecchio” appassionato della serie 500, una persona tra loro mi spiega: l’apparecchio misterioso è il dorso digitale CFV–50c. Lo so, un’altra sigla. Ma che ci volete fare: temo che la probabilità che a un prodotto si dia un nome anziché un numero sia sempre più bassa. Bisogna farsene una ragione, purtroppo.

Comunque, la storia si fa interessante. Da tempo cercavo di capire se potesse avere senso comprare usato un dorso di vecchia generazione, da 16 o da 20 megapixel, con costi attorno ai mille euro o poco meno, e sperando di non prendersi una fregatura. Non ne sapevo niente, né di quelli di Hasselblad (in realtà sono il frutto dell’acquisizione di Imacon) né di quelli prodotti per anni da Leaf, Phase One, MegaVision, Imacon stessa e alcuni altri. Ce ne sono molti più di quanto non sia lecito immaginare, anche per altre macchine fotografiche analogiche medio formato e alcuni anche per banchi ottici (sarebbe il “grande formato”, nella tripartizione canonica delle macchine per catturare immagini basata sulla dimensione del negativo). Un mercato vitale e interessante, con tecnologie sorprendenti.

Avevo amici che ne avevano comprati alcuni facendo “veri affari” per poi scoprire che il sensore CCD era ormai “andato”, oppure che occorreva collegare svariati cavi e cavetti per consentire al dorso digitale di “parlarsi” con il corpo macchina e l’obiettivo. Già, perché il problema di come fare a capire quando l’obiettivo sta scattando, senza che ci siano contatti elettrici, e quindi sincronizzare la ripresa digitale, è stato finora risolto con molti e ingegnosi modi tra i quali l’uso dei cavetti sincro del flash.

Hasselblad, con la sua terza generazione di dorsi per la serie 500, ha risolto con un modo unico. Tradizionalmente nel mondo a pellicola della serie 500 al momento dello scatto il corpo macchina spinge una piccola levetta di metallo verso il magazzino per far avanzare il contapose, che è su quest’ultimo. Ecco che è bastato sostituire il contapose con un sensore sul dorso digitale che avverte il movimento (avviene sempre una frazione di secondo prima dell’effettivo scatto della foto) per avere un ottimo modo per attivare la ripresa digitale in sincrono con l’apertura dell’obiettivo e di tutto il resto della movimentazione dell’apparato di tendine e alzamenti di specchio vari. Ingegnoso, economico, e soprattutto funziona molto bene.


La mia (breve) vita con un dorso digitale

500cm con dorso CFV-50c
Bello è bello. Chi potrebbe dire che il dorso CFV-50c non sia nato assieme alla macchina fotografica?

Eccoci qua. Passano alcune settimane e ricevo in prestito il dorso digitale CFV–50C. Pratica comune con i fotografi professionisti, ai quali i produttori danno in visione le ultime novità, una sorta di “test prima dell’acquisto”, vista anche la cifra. Il dorso (da ora in avanti chiamiamolo così) costava al momento dell’entrata sul mercato nel 2015 circa 15mila euro, poi è “calato” a circa 10mila.

Ha un sensore Cmos da 50 megapixel, uno schermo posteriore da tre megapixel, pochi pulsanti (fin troppo pochi), il menu più lineare, semplice e completo che abbia mai visto in un apparecchio fotografico (a dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, che in Giappone ci sono geni dell’elettronica ma l’interfaccia utente non è proprio la loro cosa), uno slot per mettere una scheda Compact Flash, una porta Firewire 800, una batterie sporgente in modo sgraziato e il più bel design retro che abbia mai visto in un accessorio. Insomma, è uno spettacolo. E ancora non vi ho parlato delle fotografie.

Il dorso, mi spiace dirlo a chi ancora ripensa al precedente paragrafo dove ho specificato che costa 10mila euro, sembra veramente nato per vivere attaccato alla mia Hasselblad. Solo che, purtroppo, per me non ha assolutamente senso. E non perché costi 10mila euro (che sono anni luce lontano da potere e volere spendere in un qualsivoglia apparecchio fotografico o elettronico in generale) ma perché trasforma completamente l’uso della macchina fotografica.

È certo che serva a un fotografo che ha investito un patrimonio in un corredo Hasselblad 500 (tra obiettivi e accessori) e voglia mantenerlo anche nel digitale, con un processo di scatto nello studio analogo a quello con la pellicola, seppure con alcune differenze notevoli. Ma la cosa è differente se si è pesa la 500 per andare nella direzione opposta. Che senso ha il digitale, a quel punto? Tuttavia, andiamo con ordine.

Planar 120mm in digitale
Due scatti digitali fatti con il dorso digitale, la mia Hasselblad 500c e l’obiettivo 120mm f/4 S-Planar. Un soggetto cimiteriale, formato 4:3

SI della Piaggio con il Planar 120mm in digitale
Anche questo è stato scattato con l’obiettivo 120mm f/4 S-Planar e il dorso digitale. In questo caso, un vecchio SI della Piaggio. Colori falsati perché ho sbagliato la regolazione della temperatura. Il file jpeg è stato elaborato dal dorso della macchina, sempre in formato 4:3

Il sensore. Si tratta di un ottimo sensore, costoso (perché grande) e dalle qualità notevoli. Però nasce con un problema: anziché essere 6×6 centimetri (anzi 5,6 per 5,6 centimetri, perché c’è un bordo attorno all’immagine) è 4,38 centimetri per 3,29 centimetri. Un bel po’ più piccolo del 6×6 e per di più in rapporto 4:3 (cioè 6×45).

Quanto “pesa” la differenza. Il calcolo è presto fatto. L’area di un sensore full frame è quella di un rettangolo di 8,64 centimetri quadrati. L’area di una 6×6 è di 36 centimetri quadrati nominali (31,36 se si guarda alla superficie effettivamente utilizzata dallo scatto) mentre il sensore Cmos della CFV–50C è di 14,41 centimetri quadrati. Quasi il doppio del full frame, due volte e mezzo più piccolo del medio formato. Insomma, è una terza categoria a sé stante, che introduce a mio avviso tre problemi.

Distagon 50mm f/4 a pellicola
Stessa macchina, differente obiettivo (50mm f/4 Distagon) e soprattutto pellicola, in questo caso Kodak Ektar a 100 ISO, rigorosamente 6×6

Distagon 50mm f/4 a pellicola
Ancora uno scatto analogico della Hasselblad sempre con Ektar 100 e con il Distagon 50mm f/4, sempre 6×6

Il primo è il rapporto 4:3 del 6×45: adesso bisogna scegliere se scattare in orizzontale o verticale con un corpo macchina pensato per scattare solo in orizzontale. Si può settare il sensore per scatti quadrati, e il file raw mantiene comunque anche le due strisce laterali. Però è un ulteriore “crop”, ritaglio rispetto all’originario 6×6.

Eccoci quindi al secondo problema: c’è un nuovo fattore di crop e quindi vanno ripensati tutti gli obiettivi. Il mio Distagon 50mm da grandangolo diventa praticamente un normale, mentre il 120mm S-Planar (ne avevo parlato l’altra volta) da tele medio diventa un tele molto più spinto e difficile da gestire senza cavalletto.

Terza cosa, le gioie e i dolori del digitale. Il sensore è ottimo e parimenti ottima è la densità e sensibilità degli elementi consente di avere una scala di ISO da 100 a 6400 con una profondità del colore di 16 bit. In particolare gli ISO sono apparentemente pochi ma la resa su un sensore così grande è spettacolare. Tuttavia, per me che scatto in bianco e nero è fin troppa grazia, considerando che la gamma dinamica contenuta nei file raw permette di spingere di almeno altri due o tre stop il negativo digitale senza problemi. Questo è un sensore da studio che non si fa nessun problema a lavorare anche in esterna con poca luce. È solo lento perché il retrostante processore deve muovere 50 megapixel di informazioni: si fa uno scatto alla volta e per favore.

Però poi c’è un altro problema: il dorso produce file raw privi di molti dei dati Efix utili (perché non può sapere tempi e apertura del diaframma, e non ha un Gps per la posizione) oltre a rendere obsoleti un po’ di obiettivi che diventano “sbagliati“ come focale e risoluzione.

È il caso dell’ottimo S-Planar, un obiettivo molto particolare (nasce per fare riproduzione documentale ma cattura anche ottimi ritratti) che ha una risoluzione di righe per millimetro troppo limitata per il digitale e diventa quasi inutile. Occorre tenere il diaframma molto chiuso per riuscire ad avere una nitidezza adeguata, il mosso si fa imperioso, la piacevolezza degli scatti su pellicola si trasforma in fastidio per i risultati in digitale. Insomma, diventa una lente capricciosa, difficile da gestire, rispetto al 50 Distagon, che invece si trasforma in un normale ampio, arioso, adesso capace di sfocati interessanti (non ne possiedo altre, quindi non so fare paragoni con obiettivi di altre lunghezze focali).


Cosa ho portato a casa

Sono stato in giro per l’Italia e poi negli Stati Uniti portandomi dietro macchina, dorso e un obiettivo per volta, cercando di tenere il kit Hasselblad super-leggero, al minimo. La batteria ha retto sempre molto bene (fa una giornata di scatti), il display ha permesso di avere un’idea solo approssimativa della qualità dell’immagine finale (non si vede bene la messa a fuoco, ma si capisce bene l’esposizione), tuttavia è stato utile per fare live view in alcune circostanze particolari, anche perché mancando un vetro di messa a fuoco con degli indici che facessero da riferimento per il sensore croppato, nella messa a fuoco sullo specchio avevo una inquadratura più grande (a tutto obiettivo) di quella poi effettivamente catturata dal sensore. Invece il live view è perfetto e fa capire cosa viene effettivamente catturato.

A Los Angeles, per il servizio su Call of Duty che potete leggere qui, mi sono portato la macchina con il Distagon, e ho trovato il piacere maggiore nello scatto digitale da viaggio di tutta l’esperienza. Un adattatore mi ha permesso di caricare subito le foto scattate dalla scheda di memoria all’iPad (che con Lightroom legge anche le immagini raw) e alla fine credo di aver viaggiato più leggero di quanto sarebbe lecito aspettarsi con un apparecchio medio formato.

Los Angeles - Santa Monica Pier
Scatto in digitale con mascherina 1 a 1. Non è la stessa cosa del 6×6 ma almeno le proporzioni di quello che si vede sul vetro di messa a fuoco sono le medesime dello scatto. Siamo al pier di Santa Monica. L'obiettivo è il 50mm f/4 Distagon
Los Angeles - Santa Monica Pier
Secondo me – e queste due foto lo dimostrano – la Hasselblad con dorso digitale e un obiettivo adeguato fa dei gran panorami. Sempre al pier di Santa Monica. L'obiettivo è sempre il 50mm f/4 Distagon

Tornato a casa però, dopo aver restituito il dorso e dopo aver processato un quantitativo per me imbarazzante di fotografie digitali (visto che con la pellicola avrei scattato al massimo cinque o si rulli in tutto) sono tornato ai miei due magazzini analogici prima serie (quelli con il pozzetto, dove il film si allinea a vista) e ho scattato un rullo di Ektar 100 e uno di T-max 100 nelle settimane successive. Ho visto i risultati ancora due settimane dopo, con il consueto mix di emozioni: più concentrazione, più ansia, e molta più arrabbiatura per gli sbagli fatti che non sono più correggibili. A me sulla mia Hasselblad piace la fotografia analogica perché l’intero processo, dalla carica del rullo al ritiro del negativo sviluppato e in attesa di scansione, mi rallenta e mi costringe a impegnarmi di più, a essere meno pigro, più attento. Non c’è un ingegnere nascosto dentro il corpo macchina che cerca di fare una foto con la giusta (secondo lui) esposizione a tutti i costi e me la vuole far vedere immediatamente.

Odio essere da qualche parte e passare tempo mentale prezioso a guardare il display della macchina fotografica anziché il mondo attorno a me, per cogliere uno sguardo nuovo che mi catturi e mi faccia esprimere un’idea su ciò che mi circonda.


Ma allora è vero: il dorso digitale costa un botto e non conviene?

Siete arrivati fino a qui? Davvero? Credo che 24mila battute spazi inclusi dopo che ho cominciato questa snella seconda parte (forse esagerando un po’ anche per i miei standard) ancora ci sia da capire quale sia il pensiero finale sul dorso Hasselblad.

La versione CFV–50C è sicuramente la migliore, anche se le precedenti sono più che decenti (e superiori alla maggior parte del digitale oggi in circolazione, non sbagliamoci). Permettono di scattare usando lo stile della serie 500, cioè regolando l’esposizione a mano sia per i tempi che per i diaframmi, ma aggiungono la scioltezza del digitale.

Le foto, una volta che ci siamo capiti io e il dorso (a volte un po’ riottoso), sono venute più “corrette” di quelle che avrei potuto fare a pellicola, perché vedevo subito il risultato e potevo scattarne un’altra, correggendo l’esposizione o l’inquadratura. Niente di che per chi usa una normalissima macchina digitale e voglia provare lo scatto tutto in manuale (compresi gli ISO); tutte cose che già si sanno.

Invece, questo stesso sensore, messo sopra la nuova mirroless X1D (che spero di poter provare presto) è tutta un’altra cosa. Nella breve demo fatta prima dell’estate si capiva molto bene che quella macchina è speciale, sia come ergonomia che per l’utilizzo possibile. Bisogna vedere come rendono gli obiettivi (che non sono più Carl Zeiss) ma è la dimostrazione che non basta usare lo stesso sensore per fare due macchine uguali.

X1D
Non ci posso fare niente: a me la nuova X1D piace tantissimo. È una mirroless (mirino elettronico e non ottico, senza lo specchio con gli annessi ingombri e vibrazioni) che potrebbe riportare in strada il medio formato

Il dorso CFV–50C è molto bello, si aggancia perfettamente alla 500c (e alle altro serie V), funziona molto bene, fa bellissime foto (se l’obiettivo è capace di sopravvivere nell’era del digitale con risoluzioni maggiori rispetto a quelle della pellicola per cui è nato) però è una soluzione after market e ha molti limiti. Avendo avuto in mano, seppure brevemente, la X1D – che considero molto più rivoluzionaria – e che ha tutto quel che manca al dorso CFV–50C (più ISO, più funzioni sullo scatto, Gps integrato, doppia scheda SD al posto della CF) sono arrivato alla conclusione che casomai avrebbe più senso spendere quei soldi per un apparecchio come la X1D (il corpo della X1D costa meno di 8mila euro, gli obiettivi sui 2mila) e tenersi la 500c a pellicola vivendo felici. Nel mio caso, mi tengo la 500c a pellicola, e basta.

(pubblicato sabato 28 gennaio 2017)