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L'economia dell'efficienza giapponese

Per affrontare la trasformazione digitale e sopravvivere al gigante cinese che si è risvegliato dopo secoli, l'Arcipelago deve imparare un modo nuovo per essere se stesso

Un grattacielo di Tokyo
Un grattacielo di Tokyo

Il Giappone è sotto assedio: la popolazione invecchia, il mercato nazionale è maturo, l’innovazione cresce in maniera relativa, la ricchezza non aumenta, alle frontiere la pressione aumenta e risucchia il valore. Un buon esempio, quasi all’altro capo del pianeta, per capire non solo le dinamiche del sud-est asiatico, ma anche la traiettoria di un Paese (e delle aziende) che ha molte somiglianze con l’Italia.

Il principale problema del Giappone è la Cina, che sta cambiando e diventa un buco nero che tutto risucchia. L’economia cinese infatti monta, con numeri che migliorano costantemente anche nell’area dell’economia digitale: Internet, cloud computing, big data e intelligenza artificiale. Secondo China Academy of Information and Communications Technology (Caict), uno dei think tank governativo cinesi, l’economia digitale di Pechino nel 2017 ha raggiunto quota 27,2 migliaia di miliardi di yuan, cioè 3,65 migliaia di miliardi di dollari, con un aumento su base annua del 20%. Dato maggiore rispetto alla crescita dell’economia tradizionale, che nel suo complesso l’anno scorso è arrivata al 6,9%. Nonostante che solo a Tokyo ci siano i quartier generali di 40 delle prime cinquecento aziende al mondo della lista di Fortune (a Londra ce ne sono 19, a New York 17), il peso di quello che una volta era l’unico dragone asiatico sta diminuendo in valore relativo all’economia dell’area e del mondo.

Il Giappone, che per un trentennio ha avuto la leadership dell’economia digitale in Asia, sia in termini di innovazione tecnologica che di mercati, adesso infatti sta vedendo il suo ruolo rapidamente ridimensionato. E questo si inserisce inoltre nel quadro di rapidissima trasformazione della struttura delle economie dettata dalla digitalizzazione. Spiega il professor Martin Schulz, tedesco trapiantato a Tokyo e a capo del Fujitsu Research Institute, il think tank interno del colosso giapponese di hardware, software e servizi digitali: «Possiamo girarci attorno quanto vogliamo ma la sfida davanti alla quale ci troviamo richiede modi nuovi di imparare soluzioni nuove ai problemi vecchi e nuovi. Nelle economie mature la strategia vincente è quella della collaborazione, della co-creazione di valore da parte delle imprese. In questo contesto, la learning economy, l’economia dell’apprendimento, è quella che trasforma il modo di lavorare. Secondo me dobbiamo partire da qui».

Stiamo capendo solo adesso che la chiave interpretativa del professore danese Bengt-Åke Lundvall degli "innovation systems" e della "learning economy" è quella migliore per capire il nuovo millennio

Schulz, che ha vissuto viaggiando e studiando l’economia del pianeta per quasi trent’anni, vede finalmente avverarsi la visione quasi profetica di Bengt-Åke Lundvall, professore di economia della danese Aalborg University, che già negli anni Novanta scriveva: "Nell'economia dell'apprendimento […] le imprese […] migliorano le proprie capacità di imparare tramite il networking con altre aziende, con dei modelli di comunicazione orizzontale e con frequenti spostamenti di persone”.

Lundvall, che oggi ha 77 anni ed è in pensione, negli anni Ottanta è stato il creatore sia del concetto di “innovation system” (il flusso di tecnologia e informazione tra persone, imprese e istituzioni è la chiave per un processo di innovazione che porta a nuovi prodotti e servizi sui mercati) che di “learning economy” (economie in cui la conoscenza è la risorsa cruciale e l'apprendimento è il processo più importante). La sua interpretazione dei cambiamenti è stata visionaria ma, in qualche modo, poco apprezzata perché semplicemente non era visibile in pratica per tutti gli anni Ottanta e Novanta. Abbiamo dovuto addentrarci nel secondo decennio del nuovo millennio per scoprire che, in effetti, la chiave interpretativa che il professore scandinavo ci offre è una delle migliori.

«Quando pensiamo – dice Schulz durante un incontro nel suo ufficio all’ultimo piano di un palazzo con vista sulla baia di Tokyo, al lavoro per la trasformazione del 2020 – a una learning economy, cioè a un Paese in cui i processi di apprendimento sono fondamentali per generare valore, pensiamo a un Paese che investe nella sua scuola. Certamente deve essere fatto, ma non è questo il punto, perché ormai il mercato dell’educazione è maturo e saturo: è in grado di genere solo poco valore in più e il tempo che occupa nella vita delle persone è comunque una parte minoritaria rispetto a quello occupato dal tempo del lavoro».

Il tempo della formazione che genera valore nella learning economy viene dopo: durante la carriera delle persone. La formazione insomma diventa parte della vita d’azienda, parte del lavoro. «È vero – dice Schulz – che le sfide tecnologiche richiedono soluzioni legate all’apprendimento, e questo si vede analizzando la produttività del lavoro: per via delle tecnologie Ict rispetto all’economia tradizionale la qualità del lavoro non aumenta. E questo succede nonostante la scuola tradizionale funzioni sempre meglio e sia praticamente universale, aperta a tutti».

Il problema dunque, sostiene Schulz, non è tanto aumentare la quantità della scolarizzazione, che è già a livelli molto alti, ma spostare l’apprendimento all’interno della carriera professionale: continuare ad imparare anche dopo essere entrati nel mondo della produzione. Su queste idea Fujitsu ha costruito la sua strategia: co-creazione di valore, open innovation, design thinking e apprendimento costante durante tutta la carriera professionale.

«Non temo robot e AI perché il valore sta altrove. Le macchine imparano a gestire i dettagli ma sono gli esseri umani a imparare a gestire i contesti. La differenza è enorme»

Intelligenza artificiale e robot? Sono loro l’antagonista della produttività delle persone? In questa chiave all’improvviso no, non più. Anzi, sostiene Schulz che da tempo è scettico riguardo i rischi “ingigantiti sempre da voi della stampa” e in realtà molto più contenuti: «Non temo robot e AI perché le cose della tecnologia sono da sempre replicabili, e quindi irrilevante perché il valore sta altrove. Le macchine imparano a gestire i dettagli ma sono gli esseri umani a imparare a gestire i contesti. La differenza è enorme».

Una differenza che apre il fianco anche alla strategia per superare le sfide di oggi: «L’obiettivo – dice Schulz – è aumentare la produttività e diminuire i prezzi, e questo nelle economie mature si ottiene con il passaggio da sistemi controllati e intelligenti a piattaforme di servizi e soluzioni basate sulle competenze delle persone».

Come si diventa più produttivi, allora? Con un orientamento nuovo, non più ai prodotti ma ai servizi. Uno sguardo diverso che cambia tutto.

Secondo Schulz, infatti, il principale cambiamento, che possiamo leggere anche come la grande differenza tra Cina e Giappone, sta in questo: la prima è una “economia della crescita” orientata ai prodotti che vede nell’aumento dei volumi e nello sviluppo di nuovi prodotti la chiave per aumentare il valore, mentre la il secondo è una “economia dell’efficienza” in cui quando il mercato è saturo bisogna ridurre la produzione e i volumi aumentando il valore attraverso l’efficienza, adottando buone prassi e sviluppando nuove tipologie di operazioni. La differenza chiave? «Da un lato serve capacità di creare e di crescere, dall’altro capacità di imparare ed essere più efficienti».

All’interno di questa articolata riflessione sul futuro della competitività e la trasformazione delle economie si inserisce la strategia specifica di Fujitsu, che è di per sé interessante. Fujitsu è stata definita la nuova “Ibm giapponese“. Nel senso: il grande colosso nipponico che, per sopravvivere alla trasformazione del suo mercato e alla pressione degli avversari asiatici - sopratutto cinesi, come abbiamo visto - ha deciso di abbracciare la via dei servizi e soprattutto della consulenza operativa.

La trasformazione: il battito d'ali di gigantesche farfalle asiatiche che cambia la dinamica dei mercati e i percorsi di aziende e persone in tutto il resto del mondo

È questa la parola che in Giappone quasi non si può dire: "consulenza". Perché mostra la vulnerabilità di chi la chiede, il rischio di chi si propone. Meglio chiamarla "ricerca", allora, oppure "servizi integrati". Ma si tratta di consulenza. E la trasformazione di Fujitsu è fondamentale da capire per vedere cosa sta succedendo nei mercati. Il battito d'ali di gigantesche farfalle asiatiche che cambia la dinamica dei mercati e i percorsi di aziende e persone in tutto il resto del mondo.

Dopo Schulz, andiamo ha incontrare il presidente di Fujitsu, Tatsuya Tanaka, durante il Fujitsu Forum che si è tenuto poche settimane fa a Tokyo. L’incontro è avvenuto in una saletta del Tokyo International Forum, il centro congressi tutto vetro e acciaio creato venti anni fa dall’archistar uruguaiana Rafael Viñoly nel cuore della capitale giapponese: è stato a lungo il simbolo giapponese del futuro, un simbolo che oggi forse comincia a mostrare la sua età.

Dopo il suo keynote, Tanaka è imperturbabile: Fujitsu prosegue la sua strada e offre un mix di soluzioni e nuove tecnologie, che coprono gli ambiti dell’azienda. Se la co-creazione e la strategia della learning economy sono il nuovo fuoco, c’è anche molto altro da portare avanti, a partire dal DAU, il chip creato appositamente per dare la potenza del calcolo del computer quantistico con tecnologie tradizionali senza aver bisogno di aspettare l’arrivo del computer del futuro. Oppure i nuovi server, i nuovi laptop, i servizi di security gestiti. O la creazione della prima città gestita con una blockchain: un data pool in cui le aziende che collaborano non devono separarsi dai propri dati ma li mettono in una condivisione controllata che permette di creare comunque nuovo valore.

Tanaka non viene dai ranghi della ricerca, ma dal lato operativo, commerciale. È una figura atipica di leader per una azienda giapponese, ed è investito del compito di traghettare Fujitsu verso il porto sicuro del futuro. Un futuro dove non ci sia l’angoscia di vedersi schiacciare definitivamente dal declino e dalla concorrenza. L’incontro inizia proprio su questa nota, se cioè la Cina secondo lui sia una terra aperta e di opportunità con un popolazione gigantesca economicamente in ascesa, oppure una terra proibita, guardata a vista dal governo di Pechino e dai concorrenti cinesi, spesso legati a doppio filo con la capitale.

«Ho lavorato il Cina per sette anni: possiamo parlare di questo argomento fino a domattina, mi appassiona ed è capitale. Quando sono andato in Cina, nel 2003, c’era la grande aspettativa che derivava dall’entrata del Paese nella WTO. Si pensava sarebbe diventata un paese aperto, anche se legato alle politiche di stato. All’epoca quel che capivo era che nella creazione di hardware anche innovativo ci avrebbero raggiunto presto, e che quindi bisognava coltivare software e servizi. Anche perché la Cina chiede sempre che, se si apre una attività in quel paese, ci sia una joint venture con una impresa locale».

Shenzen è piena di giovani cinesi che hanno studiato all'estero ma ritornano in patria con offerte lusinghiere da parte del governo e delle grandi aziende

La Cina come paese protezionistico, grazie non a politiche esplicite e normative ma a una fitta rete di vincoli e relazioni superabili solo entrando e “bagnandosi” nel mercato locale. «Un mercato - aggiunge Tanaka – moto complesso perché legato ai cambiamenti di rotta di Pechino. Ho visitato pochi giorni fa Shenzen, ed è piena di cinesi che hanno studiato e lavorato all’estero ma ritornano in patria, con offerte lusinghiere da parte del governo. Il mercato cinese è diventato estremamente dinamico, complesso, assolutamente non vietato ma decisamente non per tutti: occorre conoscerlo, sapersi muovere seguendo tipi particolari di strada. Bisogna cercare il partner giusto, con il quale ci sia una comunanza di intenti e sentimenti: una filosofia aziendale paragonabile e compatibile. Ci sono startup, ci sono grandi aziende, ci sono amministrazioni locali e nazionali che entrano in gioco: per molti versi il mercato cinese è il mercato del futuro e non è ancora presidiato in maniera così ferrea da lasciare fuori chi viene dal Giappone o dalle altre parti del mondo. Non è nel loro interesse».

Fijitsu ha creato una complessa metodologia di empowerment per i suoi partner: la sta portando adesso fuori dal Giappone. Con dei facilitatori aiuta le aziende, anzi le persone delle aziende, a pensare nuove idee innovative, a risolvere problemi creduti insuperabili. Lo fa attraverso una serie di strumenti tecnologici ma soprattutto sulla base del capitale umano di facilitatori che l’azienda sta costruendo con tenacia e passione. Suoi consulenti capaci di aiutare a pensare, proiettare, trovare soluzioni. Una metodologia che, direbbe il professor Shulz, non è replicabile come un algoritmio di intelligenza artificiale o come il chip nel cuore di un robot industriale. È un’arma segreta, l’unicum che Tanaka cerca.

Il Giappone vive un momento di relax, illuminato da una luce riflessa: la crisi di Hong Kong, che viene rapidamente assorbito dalla madrepatria neanche troppo lentamente perdendo quell’autonomia che la dominazione britannica gli aveva lasciato alla fine del vecchio millennio. Adesso, la sicurezza nell’area asiatica per chi venga ad aprire un nuovo quartier generale, è di nuovo Tokyo, forse Singapore, magari la stessa Shanghai. Ma non è una fase destinata a durare.

La posizione di fabbrica low cost del mondo non è fissa. Dopo il Giappone, Taiwan, la Corea, il Vietnam e adesso la Cina, toccherà all'Africa e poi chissà

«Essere una azienda di servizi – dice Tanaka – oggi è critico, ma con i tempi giusti. Il nostro obiettivo è diventare una service company non solo come approccio tradizionale per supportare il business process dei nostri partner, ma anche per lavorare come consulenti operativi assieme ai nostri partner, con cioè soluzione tecniche e parte operativa dei servizi. Questo ambito secondo noi è molto, molto grande e ci lascia una libertà di movimento e di crescita enorme»:

Fujitsu ha 150mila dipendenti, ma anche l’abitudine tutta giapponese a considerarli non dei segnaposti immutabili, bensì degli studenti capaci di apprendere, cambiare, dare valore. La trasformazione è profonda, ha richiesto tempo, non cancella (almeno per ora) la produzione di oggetti ad alto contenuto tecnologico, ma si poggia sull’idea che tutto cambia, che tutto possa mutare. Anche la posizione cinese di nuova fabbrica creativa del mondo, dopo essere stata (ed essere ancora) quella low cost, non è assoluta. Domani sarà l’Africa, la cui economia deve crescere talmente tanto rispetto alle materie prime, spazi e popolazioni, da costituire forse già oggi la vera opportunità del futuro. Fujitsu ha aperto da decenni i suoi uffici nel continente africano, e come lei adesso le aziende cinesi consolidato posizioni avviate da sette-otto anni. Anche la Silicon Valley sta cominciando a vedere la frontiera africana come il posto a cui cominciare a guardare per lo sviluppo di dopodomani. E noi?

(pubblicato a maggio 2018)