Come farsi le domande giuste sull'innovazione
Ancora ci dibattiamo con i problemi di oggi, dalle storture dei social network alla gig economy, ma è ora di cominciare a lavorare per non farsi prendere alla sprovvista dai problemi di domani
(pubblicato il 25 dicembre 2019)
C’è un problema Silicon Valley: il modello di sviluppo che propone è in crisi e in un certo senso finito, perché oggi crea più ostacoli che opportunità. Come superarlo? Quali sono le domande giuste che ci possiamo porre oggi per trovare modelli alternativi? Come possiamo, cioè, pensare il futuro in modo diverso? Governarlo anziché subirlo? Un esempio sono le tecnologie “deep”, le tecnologie di base che potrebbero trasformarsi in qualcosa di fruttifero anche da un punto di vista applicativo. Oppure no. Investirci dei soldi sopra è un rischio che spesso non paga, e per questo la Silicon Valley in generale, e il capitale di ventura in particolare, che è sempre concentrato sull’aspetto finanziario dell’innovazione, le evitano il più possibile.
L’Unione europea invece ha deciso di metterci sopra 3,5 miliardi di euro (circa il 10 per cento di quanto il venture capitalist privato ha investito in aziende europee quest’anno) tramite un fondo che sarà operativo dal 2021 ma inizierà a fare i primi test di investimento già l’anno prossimo con una prima tranche di 600 milioni di euro. Secondo Jean-Eric Paquet, direttore generale per la Ricerca e l’innovazione della Commissione, questo meccanismo alternativo al Fondo di investimento europeo (a cui attingono i venture capitalist nostrani) è necessario perché l’Europa, per poter agganciare i tassi di innovazione di Stati Uniti e Cina, deve seminare molto e in modo intelligente. Deve cioè provare a rispondere alle domande di domani, non a quelle di oggi. Pensare il futuro e modellarlo secondo i suoi bisogni.
Questo è un problema ricorrente della nostra società: rispondere in ritardo alle domande che l’innovazione e la tecnologia ci mettono davanti. Cioè, rispondere alle incognite del futuro solo quando queste si manifestano, anziché cercare per tempo di capirle e prevederle. Il grande calderone di oggi della privacy, dei social che creano una lente distorcente che porta ad esempio alla manipolazione introdotta dalle fake news e dalle bolle informative, non è (più) un problema del domani. Lo era ieri, alla fine degli anni Novanta, all’inizio degli anni Duemila. Adesso è chiaramente un problema di oggi, con il quale la politica e la pubblica opinione stanno finalmente cercando di fare i conti. Oggi stiamo commettendo un altro errore: non vediamo i segnali deboli del cambiamento che sta incubando adesso e che arriverà domani, e di conseguenza non lo pensiamo per capirlo e governarlo.
La politica e l’opinione pubblica cercano oggi di dare risposte a problemi che hanno radici negli anni Novanta. L’Unione europea ha investito miliardi nelle tecnologie “deep”, per cercare di mettere un segnaposto nel futuro
Se un fondo sulle “deep technologies” è una buona riposta sia al tema tattico della ricerca dell’innovazione nel medio-lungo periodo sia a quello strategico di ripensare il modello dell’innovazione per ridurre l’effetto predatorio del venture capitalism, ci sono altri dossier che possono essere aperti. Un altro modo è guardare le tecnologie che stanno muovendo i primi, promettenti passi oggi, per porsi delle domande sulle conseguenze di secondo livello che verranno dalla loro maturità. Ad esempio: auto a guida autonoma, droni, intelligenza artificiale, computer quantistico, fintech, biotecnologie, cloud. La manipolazione genetica e del Dna, praticata ad esempio nell’agricoltura e nell’allevamento di animali, è apparentemente una versione più moderna delle pratiche di incrocio e selezione degli animali ma in realtà pone problemi enormi nel lungo periodo perché, nonostante i protocolli per la sperimentazione, in realtà non capiamo i meccanismi di funzionamento del Dna ma siamo solo in grado di descriverli e per di più parzialmente. Governare questo settore dovrebbe essere prioritario, così come il settore delle tecnologie per la finanza, che, intersecandosi con l’intelligenza artificiale (metodi automatici di risoluzione di problemi sulla base di regole non esplicite) possono sfuggire dal nostro controllo.
Ancora, l’introduzione di tecnologie per il trasporto di persone e merci basate su sistemi autonomi pone problemi che, nell’entusiasmo del momento, stiamo solo cominciando a porci. A partire dai costi di produzione (in termini di materie prime) e di trasformazione (occupazione, impianti e proprietà intellettuale) delle industrie coinvolte, come ad esempio quella automobilistica. Ma li pone anche per quanto riguarda l’impatto che queste tecnologie avranno sulle nostre strade, nei nostri cieli (con i droni e i robotaxi), nella complessiva sostenibilità di una politica che mira a un cambiamento radicale dei sistemi di interconnessione fisici delle persone.
Oggi il consumo energetico dei datacenter, dove risiede il cloud, è arrivato al 6 per cento del consumo mondiale di energia (il trasporto aereo è al 3 per cento) e toccherà il 10 per cento entro il 2025
Non c’è un rischio? Pensiamo alla sharing economy e alla sottostante gig economy: costruita dalla super-valutazione data dal venture capital agli unicorni (diventati in alcuni casi pluricorni) senza preoccuparsi di cosa viene dopo. E dopo è venuto il collasso di WeWork, ad esempio. Ma anche la scomparsa degli appartamenti in affitto nei centri delle città storiche, oltre a un problema di tassazione di questo tipo di attività e alla nascita di una intera industria fatta da lavoratori poco pagati.
Infine il cloud e le altre tecnologie per il calcolo, che diventano pervasive con le reti 5G e l’edge computing. Oggi il consumo energetico dei datacenter, dove risiede il cloud, è arrivato al 6 per cento del consumo mondiale di energia (il trasporto aereo è al 3 per cento) e toccherà il 10 per cento entro il 2025. Senza che ci sia un piano per abbattere i consumi o quantomeno renderli sostenibili basandoli ad esempio su fonti energetiche rinnovabili. Chi si sta chiedendo come fare?
Il problema non è imbrigliare o statalizzare l’innovazione, ma comprenderla e renderla praticabile, non selvaggia. Immaginare il futuro, scriveva lo scrittore di fantascienza William Gibson, gli fa acquistare immediatamente una patina pittoresca, perché ogni momento presente è al contempo il passato di qualcuno e il futuro di qualcun altro. Noi abbiamo completamente delegato la pensabilità del futuro all’eterno presente tecnologico che è fatto di nuovi prodotti ogni anno sempre più sottili e scintillanti, con promesse di rivoluzioni epocali “tra cinque anni”. E’ arrivato il momento di ricominciare a pensare il nostro futuro, magari facendoci le domande giuste.
(pubblicato il 25 dicembre 2019)