La coda lunga del futuro secondo Chris Anderson
Dagli Usa alla Cina passando per l'Europa, la grande trasformazione digitale secondo Chris Anderson, giornalista laureato in fisica diventato imprenditore e creatore dei makers
(novembre 2017)
Le trilogie, in letteratura come nel mondo del cinema, sono un appuntamento obbligatorio: comincia tutto con i trittici dei tragici greci (che ne inventarono la parola oltre al concetto, perché prassi negli agoni teatrali da Eschilo in avanti) ai terzetti di opere della cultura popolare e pop: da Guerre Stellari a Matrix, dalla trilogia del secolo di Ken Follett al ciclo dei nostri antenati di Italo Calvino.
Per raccontare il futuro fantascientifico comprensivo del cyberspazio, negli anni Ottanta William Gibson, il papà del cyberpunk, ha realizzato il suo primo ciclo di tre romanzi ambientati in una San Francisco del futuro. Per raccontare la trasformazione del presente Chris Anderson, laureato in fisica, già direttore del mensile americano Wired e adesso imprenditore high-tech, ha scritto anche lui tre libri. Il primo, La coda lunga, racconta l’aspetto commerciale della scelta infinita resa possibile da Internet. Il secondo, Free, ne illumina l’aspetto economico che ha riscritto la teoria del prezzo, e infine il terzo, Makers, racconta l’aspetto fisico con la rivoluzione della produzione grazie alle stampanti 3D.
Anderson ha mantenuto l’affabilità del giornalista abituato a fare le domande più che a sentirsele porre. È curioso e, anche se stanco per il viaggio e il jet lag dalla California sino a Milano, si presta tranquillamente a chiacchierare con me. Anche perché la sua, dice subito per rompere il giaccio, è la storia di un ritardo paradossale: «Quando ho scritto The long tail ancora non c’era YouTube, è partito tutto pochi mesi dopo. Eppure è quello il magazzino senza fine del video. Quando ho scritto Free ancora non era esploso il mercato del cloud. E quando infine ho scritto Makers avevo immaginato un futuro sbagliato. L’idea era che le stampanti 3D sarebbero state in tutte le scuole e in molte case, trasformando in maniera radicale il modo di fare business e non solo. Ma ho sbagliato più o meno come sbagliarono i futuristi negli anni Venti e Trenta quando immaginarono le auto volanti che sfrecciavano nei cieli del futuro delle grandi città europee e americane».
Adesso, la risposta della politica è stata quella di far leva sulla produzione digitale con piani come Industria 4.0
Ho incontrato Anderson in una piccola stanza a margine del World Business Forum edizione 2017: ospite di Porsche Consulting, Chris Anderson si prepara a parlare alla platea di imprenditori e manager che ogni anno partecipa alla conferenza. «Quello che mi ha davvero sorpreso – dice Anderson – è stato vedere il movimento nazionalistico alla base della rivoluzione nel settore manifatturiero. Stati Uniti, Germania e Italia, soprattutto. Dagli anni Settanta la trasformazione dell’economia verso i servizi ha portato la produzione in direzione delle geografie dove il lavoro costa meno, come l’Asia e la Cina in particolare. Adesso, la risposta della politica è stata quella di far leva sulla produzione digitale con piani come Industria 4.0 oppure l’equivalente statunitense per riportare la produzione verso i mercati occidentali. Penso di essere stato un po’ vittima di questa corrente nazionalistica, anche se l’automazione inverte davvero la marea e sposta la produzione globale. Ma non è il movimento dei makers a farlo. È sbagliato confonderli con i grandi produttori».
Il mondo che Anderson, grazie al suo lavoro, ha visto cambiare è molto. Omonimo dell’imprenditore che ha creato i Ted Talk, ha 56 anni, è nato in Gran Bretagna e ha una laurea in meccanica quantistica e giornalismo scientifico: ride quando lo ricorda e sottolinea che, nonostante abbia lavorato per alcuni anni come ricercatore ai Los Alamos National Laboratory, in realtà quel che voleva fare era il giornalista: prima alle riviste scientifiche Nature e Science, poi all’Economist dove la sua specializzazione è diventata anche economica (e lo ha portato a Londra, Hong Kong, Washington), sino ad approdare alla direzione del mensile Wired nel 2001 fino al 2012.
La testata, fondata da Louis Rossetto e Jane Metcalfe nel 1993, è stata la bibbia controculturale della tecnologia della Silicon Valley (dopo il Whole Earth Catalog Kevin Kelly, che ha fatto da primo direttore di Wired). Ha definito un nuovo standard per lo storytelling tecnologico nel momento in cui il web rendeva questo settore la cosa sempre più importante per l’economia americana e mondiale. Ma non è andata bene economicamente, tanto che è stata inghiottita dal gruppo Condé Nast nel 1998 (la parte online venne invece assorbita da Lycos per alcuni anni e poi “restituita” alla testata cartacea), iniziando un lungo percorso di trasformazione in peggio, terminato con l’arrivo di Anderson.
Merito del giornalista è stato quello di reinventarsi la testata e portarla di nuovo ad avere rilevanza internazionale con una forma di giornalismo dell’innovazione più mainstream e un forte accento sulla grafica di alto livello e la ricchezza dei temi trattati. Sotto la guida di Anderson, Wired ha pubblicato articoli di inchiesta che hanno definito l’agenda del sistema dell’informazione su temi prima ignorati: dall’economia dell’idrogeno come fonte alternativa di energia, all’outsourcing, dall’esplosione dell’open source come modello non solo per il software ma anche per l’impresa aperta sino all’idea della coda lunga dello stesso Anderson e all’invenzione del termine “crowdsourcing”.
È singolare, ma la critica ai makers viene anche dal mondo della tecnologia, soprattutto dai programmatori
«Oggi la vera ironia – continua Anderson, sorridendo – è che ho creato un’azienda come parte del movimento dei makers, ma siamo diventati un’altra cosa, produciamo software. Il movimento c’è, esiste, ma l’economia è andata avanti e fa altro. La rivoluzione è culturale, non economica». È un discorso lungo, dentro ci sono anche le critiche che sono state fatte al primo libro, La coda lunga. L’accusa è che la visione di Anderson sia filtrata da troppo entusiasmo e voglia di fare. Singolarmente, la critica ai makers come movimento dominante viene anche dal mondo della tecnologia, soprattutto dai programmatori. Fa parte di un’antica faida, forse: i programmatori sono astratti, matematici, mentre i maker si sporcano le mani con i saldatori, come i fisici e gli ingegneri. Risultato? La comunità dei lettori di Wired era meno interessata di quel che si può immaginare all’idea di una rivoluzione fatta di stampanti 3D in tutte le case e in tutte le scuole.
Perché succede questa cosa? In realtà Anderson generalizza il problema e lo utilizza per disegnare un cambiamento importante: «Quel che è successo è che oggi l’hardware è sempre più complesso, i sistemi produttivi industriali sono sempre più complessi e soprattutto viene già prodotto praticamente tutto in Cina, per intero o anche solo in parte. Il problema non è più produrre un oggetto in America o in Europa con le stampanti 3d, ma riuscire a industrializzarne la produzione e scalare verso l’alto con la consapevolezza che in realtà la Cina ha la capacità di produrre la stessa cosa meglio, più velocemente e a prezzi più bassi». Cosa cambia? «Cambia che in Cina stanno già facendo le cose che vorremmo fare noi e quindi ci fai una partnership anziché provare a competere, oppure ancora meglio, si va a vedere prima di iniziare a produrre qualcosa che cosa sta succedendo in Cina».
Al di là degli stereotipi, il cambiamento secondo Anderson è radicale. Tanto che lui ha cambiato direzione alla sua azienda e adesso si occupa di software e servizi. «L’idea della prototipazione è importante - dice Anderson – ma è pensare di andare oltre questa fase da soli è sbagliato: si va verso la collaborazione e l’industrializzazione. Per tutto il movimento dei makers il vero problema non è scegliere se fare da soli o con la Cina, ma scegliere se trasformare un hobby in una attività industriale. Questa è la parte più difficile dove falliscono più spesso». È anche l’errore di comunicazione che la rivoluzione dei maker ha portato da noi, sottolineando la dimensione “artigianale”, che nel mondo porta una idea di piccola impresa mentre in Italia fa venire a mente le partite Iva e le attività dei mestieri tradizionali. Per questo la situazione delle nostre piccole imprese e startup da noi è così lenta e difficile, nonostante la fama di essere piccoli imprenditori e artigiani all’estero è molto chiara. Solo, non si capisce che le due parole hanno significati diversi in Italia mentre negli Usa vogliono dire la stessa cosa. E poi c’è un altro problema: «Conosco poco della situazione italiana, ma se dovessi dire il principale problema del vostro Paese, da questo punto di vista, indicherei la burocrazia, la lentezza amministrativa, la complessità normativa, il peso enorme delle regolazioni al di fuori delle attività imprenditoriali che smorzano le energie anche dei più motivati e strutturati».
Google è esemplare: l’azienda permetteva ai dipendenti di creare progetti personali nel 20% del tempo di lavoro. Adesso il programma è stato cancellato
Anche la grande impresa ha fallito nell’idea degli spin-off basati sull’idea di cercare all’interno dell’azienda nuove idee lontane da quelle del business abituale. «Per una grande azienda creare uno spin-off e cercare una joint venture in Cina per produrre cose che non sa produrre di suo è molto complesso. E in generale per una grande azienda oggi cercare di stimolare forme di innovazione dall’interno è sempre più complesso. Il caso di Google è esemplare: l’azienda aveva permesso ai dipendenti di portare avanti i loro progetti nel 20% del tempo di lavoro per poi creare nuovi prodotti. Ma il programma è stato cancellato perché matematicamente sbagliato: Google di nuovi progetti ne prende forse cinque, al massimo dieci in dieci anni. E gli altri 50mila ingegneri che hanno lavorato sui loro progetti personali sono frustrati, potenzialmente se ne vogliono andare e cercare di realizzare le proprie idee in un ambiente più favorevole. Dal punto di vista dell’azienda si è dimostrato che è un modo per tirarsi la zappa sui piedi».
Il problema della Cina sta invece tutto in una parola: condivisione. Che nelle lingue europee vuol dire scambiarsi informazioni. «Invece, in mandarino – dice Anderson – “condividere” vuol dire anche “rubare”, “portare via”. Cioè, dentro la parola c’è anche un significato che alle nostre imprese ovviamente non piace molto». Il mondo da questo punto di vista è molto cambiato, anche perché la Cina sta diventando sempre più forte non solo nell’hardware –come i terzisti asiatici sono sempre stati, a partire dal Giappone, poi dalla Corea del Sud e quindi da Taiwan. Invece, la Cina è diventata anche una potenza del software e dei servizi: app come WeChat sono tra i software più complessi e meglio strutturati per fare praticamente tutto con il proprio telefonino (solo che da fuori il Great Firewall cinese moltissimi servizi non sono abilitati), e fanno anche molto altro con Alibabà, Baidou, le grandi università che ormai sfornano centinaia di migliaia di ingegneri a trimestre con livelli di preparazione che non hanno niente da invidiare alle migliori europee e americane. Per questo il “pericolo cinese” ha caratteristiche che stiamo sottovalutando: «Li vediamo come produttori di cose a basso costo, ma in realtà il vero mercato delle startup e dei makers è a Shenzen”.
C'è una seria volontà di coprire i posti di lavoro che mancano con robot e intelligenze artificiali
Le dinamiche dei mercato internazionali sono differenti da una macroarea all’altra. Seguirle è difficile perché spesso il dibattito sui media, sostiene Anderson, è fuorviante. «Prendiamo l’Europa e l’Italia rispetto agli Stati Uniti in relazione ai robot e intelligenze artificiali nei confronti del posto di lavoro. Le cose non potrebbero essere più diverse». La diversità però non si vede, leggendo i giornali, ma solo parlando con gli addetti ai lavori (come lo stesso Anderson). Ed è la seguente: «Negli Usa stiamo vivendo uno dei periodi storici di massima occupazione: pochissimi disoccupati. E abbiamo bisogno di almeno 500mila persone che lavorino nei settori come le costruzioni, la sanità, i servizi, la produzione manifatturiera. Perché succede questo? Da un lato perché la forza lavoro invecchia, dall’altro perché le politiche per l’immigrazione da tempo sono molto restrittive e quindi entrano meno stranieri giovani, cioè forza lavoro fresca. E poi ancora, ci sono i test per le droghe: le normative prevedono che per usare qualsiasi tipo di macchinario non si possa aver usato nessuna droga neanche “ricreativa” negli ultimi dodici giorni. Peccato che poi alcuni tipi di lavoro, come quello delle costruzioni edili, sia al primo posto per i piccoli incidenti sul lavoro e quindi si utilizzino tantissimi antidolorifici e oppiacei, che portano rapidamente a dipendenza e all’uso di altre droghe. Però in buona sostanza, abbiamo una forza lavoro che invecchia, pochissima immigrazione e politiche per le droghe estremamente restrittive che riducono ancora la forza lavoro attiva. Risultato? C’è una seria volontà per coprire i posti di lavoro che mancano con robot e intelligenze artificiali. Le aziende ci credono e ci sono molti he investono in questo settore».
In realtà in tre grandi settori c’è una scarsità di lavoratori qualificati e l’unica lamentazione che si sente è quella che non c’è ancora abbastanza automazione
Il punto centrale, secondo Anderson, è il dibattito sui media, che è completamente differente. Il pericolo per i giornali diventa il robot che prende il potere, l’intelligenza artificiale antropomorfizzata che cerca di sostituire con l’inganno e la violenza l’uomo. In realtà in tre grandi settori, quello delle costruzioni, il manifatturiero e i servizi, c’è una forte scarsità di lavoratori qualificati e l’unica lamentazione che si sente è quella che non c’è ancora abbastanza automazione. Un po’ come in Giappone, dove non a caso ci sono leggi ancora più stringenti per l’immigrazione e la popolazione invecchia: il più grande amore del Giappone non a caso sono i robot.
«In Europa, invece, la musica cambia completamente. Da voi si parla di alti tassi di disoccupazione, non di scarsità di manodopera. Il rischio dell’automazione qui è bassissimo: quel che succede invece è che gli stipendi si abbassano perché lavora chi accetta le condizioni più favorevoli al datore di lavoro, come accade sempre nei mercati dove c’è un eccesso di offerta di lavoro, fatte salve ovviamente le regolamentazioni di settore che poi pian piano però si erodono, una legge alla volta, una protezione dopo l’altra». Lo scenario secondo Anderson è ulteriormente complicato dalla Cina, dove la crescente ricchezza porta a un cambiamento nelle dinamiche del mercato del lavoro: «La gente che viene dalle campagne e che accetta di lavorare per pochi dollari la settimana è sempre meno. Ci sono regolamentazioni che stanno strutturando delle politiche salariali sempre più indirizzate verso gli standard occidentali. Alla fine, ci saranno stipendi troppo alti e inizierà la disoccupazione. Ma per questo manca ancora tempo».
(Pubblicato a novembre 2017)