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A Dino Zei, ufficiale gentiluomo, unito nell’Eterno all’amata moglie Vera
“L’orologio e non la macchina a vapore, è lo strumento della moderna era industriale”
Lewis Mumford
Anno 1860. Mancano ancora dodici mesi all’unità d’Italia e sessanta a Firenze capitale. Nel capoluogo toscano Giovanni Panerai (1825–1897) apre un piccolo negozio in cui fabbrica opere meccaniche, in parte segnatempo. La bottega, prima sul Ponte alle Grazie e poi in piazza San Giovanni, davanti al Battistero (dov’è ancora oggi), è quella di uno dei primi orologiai di Firenze, dall’inizio del Novecento rivenditori storici di Rolex ma fin da subito concentrati sui segnatempo d’Oltralpe. Il nome infatti è quello di “Orologeria Svizzera”.
Il fondatore Giovanni lascia il campo a uno dei figli (Leon Francesco) e soprattutto al nipote Guido (1873–1934), che alla fine dell’Ottocento trasforma l’azienda in una agile impresa di meccanica di precisione, con la Regia Marina come cliente principale. Proprio alla Regia Marina vengono forniti, a partire dal 1936, alcune centinaia di orologi per gli “Incursori del Comando del 1° Gruppo Sommergibili della Regia Marina Italiana”.
Gli orologi della ditta Panerai devono essere semplici. Sono basati su casse realizzate apposta da Rolex, che aveva in realtà già realizzato alcuni orologi con il sistema di serraggio impermeabile “oyster” e con cassa squadrata da 47mm e che poi manterrà alcuni concetti seminali per lo sviluppo della cassa dei suoi orologi subacquei nel dopoguerra. Anche i primi movimenti sono realizzati da Rolex. Gli orologi della Panerai (che cambierà più volte ragione sociale sino a diventare G.Panerai e Figlio) devono essere semplici perché devono essere funzionali. Quadranti giganteschi per poter essere facilmente visibili sott’acqua, da indossare sulla muta, con indici luminosi grazie all’uso di una sostanza leggermente radioattiva (il Radiomir, una miscela di solfuro di zinco e bromuro di radio, brevettato nel 1916 da Panerai stesso, e poi il Luminor) e un un innovativo quadrante a “sandwich”, che rende ancora più funzionale l’orologio.
Oltre che per la Marina italiana, Panerai subito dopo la Seconda guerra mondiale produrrà anche un piccolo quantitativo di orologi per la Marina egiziana battezzati con il soprannome di “Egiziano”. Qui viene introdotto un elemento funzionale che definisce l’estetica di molti orologi Panerai: la corona protetta da un ponte arcuato con chiusura a pressione tramite una leva, brevettato nel 1956. Diventerà un elemento molto riconoscibile dei modelli Luminor, pur essendo nato come Radiomir. La fornitura alla Marina militare egiziana si esaurisce poco dopo la Seconda guerra mondiale.
L’azienda negli anni successivi diventa uno dei migliori fornitori di tecnologia per la Marina militare italiana e realizza alcuni sistemi tutt’ora usati. Tra di essi, il sistema di appontaggio ottico per elicotteri che viene utilizzato dalle navi militari italiane e statunitensi, ma anche in decine di tipologie di impianti civili.
Negli anni Novanta, a seguito della crisi del comparto militare dovuta al crollo del Muro di Berlino, Panerai cerca altre strade per diversificare le sue attività. Alla guida dell’azienda, dagli anni Settanta, c’è un manager atipico: ingegnere e colonnello di Marina, Dino Zei (1931-2015) è stato fortemente voluto dalla proprietà dell’azienda e dalla stessa Marina militare come garanzia del proseguimento delle attività alla morte dell’ultimo erede maschio della famiglia Panerai. Zei intuisce la possibilità di rilanciare la G.Panerai e Figlio commercializzando la marca di orologi sportivi dal grande quadrante in un momento in cui l’alta orologeria si sta riprendendo dallo shock degli orologi al quarzo e cerca nuovi modelli e paradigmi per i suoi prodotti. Non più il “super-sottile” e piccolissimo, che dava prova delle abilità di miniaturizzazione degli orologiai svizzeri ma che era stato sconfitto dalle dimensioni nanometriche dei circuiti integrati degli orologi al quarzo. Invece, arriva il “super-grande” con quadranti di 42, 45, persino 47 mm di diagonale. Oggetti prevalentemente se non esclusivamente maschili, dei quali la neonata Officine Panerai è subito uno dei principali esponenti.
«Dei tre principali elementi che costituiscono un orologio meccanico di lusso – diceva Dino Zei – cioè il movimento, la lavorazione di precisione della cassa e il design – abbiamo capito subito che non potevamo competere con gli svizzeri per il primo punto. Ma potevamo realizzare orologi unici e superiori sia per i materiali e le modalità di lavorazione della cassa che per il design dell’oggetto». Così è stato: lo sforzo di innovazione di Panerai è stato quello che ha mirato a farsi forti con quel che c’era a disposizione e riuscire ad eccellere.
L’innovazione però non basta: Panerai è travolta dai debiti, mancano i soldi per finanziare lo sviluppo e la crescita degli orologi eorologi e questo neonato ramo d’azienda viene venduto al gruppo svizzero Vendôme, oggi diventato Richemont, proprietario di altri marchi di alta orologeria, che ne farà il fenomeno assoluto dei vent’anni successivi: gli orologi Officine Panerai diventano uno dei marchi più ambiti in tutto il mondo, lanciati con la fama degli Incursori italiani (e il modellino di un “maiale”, il siluro a lenta corsa o S.L.C. cavalcato dai sommozzatori della Regia Marina, diventa il gadget di serie nella confezione dei primi esemplari).
A lavorare con Zei nel momento della rinascita degli orologi Panerai c’era stato anche Antonio Ambuchi, straordinaria e poliedrica figura di designer e artigiano, l’uomo dietro alla progettazione di decine di modelli intriganti di segnatempo, vero Enrico Salgari dell’orologeria fiorentina.
Ambuchi e altri fanno da “ponte” tra Zei e un manager ex Ferragamo, Federico Massacesi, che nel 1997 decide di mettersi in proprio e fondare una società che produca orologi per sé e per conto terzi con gli artigiani della filiera di Panerai. Per sottolineare che si tratta di orologi realizzati guardando al contenuto e non al marchio, e anche per richiamare l’idea che sono fatti dagli “anonimi artigiani” che stavano dietro al Grande Marchio adesso diventato svizzero, Massacesi decide di chiamare l’azienda “Anonimo”.
In pochi anni Dino Zei viene attratto di nuovo nell’orbita dell’orologeria, complice anche un libro dedicato a Panerai che l’uomo scrive per fare i conti con la storia e rimettere a posto le cose: Panerai è stata molto più che un produttore di orologi per la Marina militare durante la guerra. Anzi, gli orologi sono stati un di cui importante proprio perché l’azienda produceva ben altro.
Tra i due uomini, Zei e Massacesi, nasce una buona sintonia e il responsabile dello sviluppo Antonio Ambuchi progetta vari modelli marchiati “Anonimo – Dino Zei”. E così un marchio che si stava facendo un ottimo nome come produttore di alta qualità di nicchia (orologi tra i cinquemila e i diecimila euro) riesce a diventare ancora più esclusivo.
Accanto agli orologi iconici di Anonimo (Millemetri, Militare, Polluce, Marlin e Professionale – GMT, soprattutto) si ritagliano un ruolo gli orologi pensati per Dino Zei: Nautilo, Aeronauta, Argonauta, Glauco, Notturnale e il bellissimo San Marco, vero e proprio vertice della produzione di Anonimo. La società produce in piccoli blocchi di alcune centinaia di pezzi numerati, sperimentando con materiali diversi (è la prima a usare il bronzo delle elice di nave per le casse o lavorazioni con tecnologie d’avanguardia. Collabora con la Cooperativa nazionale sommozzatori (Cns), fa ricerca, sviluppa e testa assieme ai palombari che si immergono per lavoro in ambienti estremi dove pressione, acqua salmastra, idrocarburi e solventi richiedono soluzioni innovative. Vengono prodotti nel momento migliore circa 3.500 pezzi all’anno, con movimenti Eta, Sellita, Soprod e Dubois Dépraz. Anonimo direttamente o tramite i modelli firmati Dino Zei ha realizzato circa 96 modelli prodotti in serie limitate più varie serie speciali, per un totale di 25mila/28mila segnatempo prodotti in circa 15 anni.
L’azienda però ancora non va bene, passa di mano, viene acquistata dalla Firenze Orologi che cerca di infondere nuova vita nel quartier generale, costruito sopra il laboratorio artigiano di Lastra a Signa della famiglia Ambuchi. Le cose per un momento migliorano con Firenze Orologi sotto la guida di David Cypers, imprenditore belga passato dal ruolo di distributore a quello di proprietario.
Il successo della “vecchia” Anonimo è legato alla viralità di uno dei primi marchi di lusso di fascia medio-alta di questo settore: migliori ambasciatori del brand che vuole restare anonimo sono alcuni forum di super-appassionati, dove le qualità e i difetti degli orologi vengono analizzati fin nel più minimo dettaglio. È attraverso questi forum e il lavoro spontaneo dei social media che Anonimo vende negli Stati Uniti, a Singapore, in Asia, in buona parte dell’Europa e persino in Italia.
Semplicemente una pagina su Facebook e un sito istituzionale bastano per costruire il mercato mondiale a partire da Firenze. Il successo è esploso quando la rete ha cominciato a seguire le celebrità che indossano gli orologi di Anonimo, scoprendo che Sylvester Stallone, Tom Cruise, il gruppo dei Kiss, il cantante dei Red Hot Chili Peppers, la modella Heidi Klum indossano un “Nimos”, come gli americani chiamano gli orologi di Dino Zei. Stelle di Hollywood, cantanti ma tutti acquirenti senza bisogno di sponsorizzazione. Poi la seconda crisi e la nuova parabola discendente. Nonostante tutto infatti si arriva a un altro stop e a un nuovo passaggio di proprietà a cavallo del 2013. Si perdono le tracce del marchio, che lentamente oggi sta tornando a produrre orologi questa volta dalla Svizzera.
Dino Zei, un gentiluomo di più di 80 anni, ha continuato la sua lenta parabola. Ammalato, rimasto vedovo dopo la repentina scomparsa dell’amata moglie Vera, viveva sul viale dei Colli di Firenze, a poca distanza da Porta Romana. Intelligente, vivace, attento, ha avuto la capacità di intuire molto.
Il suo nome è inciso nel ricordo di migliaia di appassionati. L’ho incontrato a Firenze attorno all’ora di pranzo del 12 aprile del 2012, a casa sua. Mi ha portato Antonio Ambuchi: abbiamo fatto una lunga intervista che ho sbobinato e mai usato, perché mi è servita solo come contesto per due articoli scritti in quel periodo sull’azienda. L’emozione di quell’incontro però è rimasta fortissima: la sensazione di aver conosciuto un uomo di doti non comuni, di stoffa antica, ormai non più comune almeno nel nostro Paese.
Sono rimasto sempre in contatto con il mondo di Anonimo, frequentandone i forum, seguendo le notizie, incrociandoli un paio di volte per interesse di orologeria, anche dopo aver acquistato usati due orologi realizzati da loro. Un bellissimo Millemetri Japan LE (serie limitata con giglio di Firenze) e un Professionale GMT con inedita cassa nera. Non ho mai avuto modo di comprare il più bello (e costoso di tutti), cioè il Dino Zei – San Marco, forse uno dei più begli orologi in assoluto. Ma non è detto che un giorno non succeda.
Due giorni fa, su Facebook ho trovato questo un messaggio di Federico Massacesi:
Dino Zei carissimo amico e protagonista della storia dell’orologeria con il marchio Officine Panerai ci ha lasciato ieri dopo lunga malattia, Non solo ha rappresentato qualcosa di importante ma soprattutto è stata una delle più belle persone che abbia mai incontrato, e che mi ha privilegiato della sua amicizia: ha raggiunto la sua amata Vera. Riposa in pace Dino
Ho deciso di riaprire il taccuino digitale nel quale ho conservato questa intervista e pubblicarla, così com’è: da quando ho acceso il microfono a quando l’ho spento. Nella speranza che serva a contribuire con una piccola luce per il giusto riconoscimento della memoria di quest’uomo.
Milano, novembre 2015
a.
DOVE: Nel salotto di casa ZEI sul viale dei Colli a Firenze
QUANDO: Il 12/04/2012 attorno all’ora di pranzo e nel primo pomeriggio.
PRESENTI: Ing. Col. Dino ZEI Antonio DINI Antonio AMBUCHI
Inizia a parlare DINI.
===AVVIO REGISTRAZIONE===
DINI …un canovaccio di domande.
ZEI Ho visto quel che mi ha scritto su quanto intende chiedermi.
DINI Grazie. Innanzi tutto devo fare i complimenti perché ho letto il suo precedente libro.
ZEI Ah quale, quello Panerai?
DINI Quello su Panerai, che David Cypers mi ha mandato, e anche il suo successivo che ho trovato molto interessanti.
ZEI Non so…
DINI È un bel libro.
ZEI Ecco confesso che andavo bene in italiano a scuola…
DINI Diciamo così…
ZEI L’italiano mi piaceva, era una delle materie che mi piacevano, quindi mi è sempre piaciuto “scribbacchiare”, ma quest’ultimo libro mi è costata molta fatica, perché io ho 81 anni e a quest’età la curva è ripida.
DINI Ci sono differenze?
ZEI Il libro sulla Panerai è molto più esteso, c’è molto più scritto, e quindi non mi è costata particolare fatica. Consideri che i ricordi erano freschi: la maggior parte del lavoro è stata riordinare le schede. E poi trovare le parole giuste. Ma per questo ho un segreto: quando non mi viene la parola che voglio scrivere ho sempre il vocabolario della lingua italiana sulla scrivania, anche quello dei sinonimi, e cerco la parola di cui ho bisogno.
DINI Due libri importanti: Panerai, adesso Anonimo.
ZEI Ne vorrei fare un altro, un terzo. Perché parecchi anni fa ritrovai degli appunti di mio padre sull’annuario storico di Viterbo. Una parentesi: noi siamo di Viterbo, non so se lei conosce: è una piccola città medievale, papale, nella Tuscia etrusca, ricca di storia. Io sono affezionato a Viterbo e mio padre era un personaggio ai suoi tempi. E scrisse l’annuario storico della città: ci furono tanti avvenimenti, concistori di papi, altre cose simili. Ho ritrovato i suoi quadernetti scritti a mano, era anche perito calligrafo scriveva molto bene. Ecco, ho stampati questi testi ma non li ho muniti di un indice, per cui è di difficile lettura. Allora ho fatto l’indice analogico, adesso lo vorrei ristampare. Sono andato giusto ieri a Viterbo, perché era anche l’anniversario della morte di mia moglie, sono andato, ho parlato con una persona, adesso insieme a mio figlio lo voglio ristampare, aggiungendo anche delle altre opere di mio padre. Era pittore e scrittore: cose molto belle, come ad esempio quella laggiù, che è una ricostruzione di una statua etrusco-romana, perché era ispettore dei monumenti dell’Alto Lazio. Bene, allora vogliamo cominciare con l’intervista?
DINI Da dove vuole cominciare? Ho visto che ha già degli appunti.
ZEI Sono delle tracce di argomenti che mi ha indicato: tre aree diverse. Innanzitutto un bilancio della carriera di Dino Zei fino ad oggi, quali vicende l’hanno portato a creare e guidare uno dei marchi più innovativi di sempre nella storia dell’orologeria, la Panerai.
DINI Certo.
ZEI Poi quali sono state le mosse chiavi e quali gli errori, eccetera. Infine, qual è il giudizio dell’ingegnere sul mercato dell’alta orologeria e degli orologi digitali e infine prospettive per il futuro della Firenze Orologi, cioè Anonimo, il ruolo dell’ingegnere Zei e il suo amore per Firenze. Sono tre punti.
DINI Tre aree esatto.
ZEI Quindi?
DINI Partirei dalla storia.
ZEI Lei che fa?
DINI Io registro. Non scrivo perché preferisco non distrarmi; questo registratore ha otto ore di autonomia, ma penso che finiremo prima…
ZEI Certo! Dunque il primo, il bilancio. Io ho guidato la Panerai per trent’anni ed è stata una esperienza naturalmente importantissima e ritengo che sia stata una esperienza positiva. Ho realizzato molte innovazioni per la Marina di cui sono andato fiero, ho sempre rifiutato di essere un imprenditore dedicato principalmente all’utile aziendale, invece ho sempre premiato la parte diciamo etica della professione. Questa potrebbe essere considerata una scelta strategica ma non lo è. Il fatto è che sono stato educato in una famiglia in cui il padre artista mi diceva che il denaro è uno strumento che purtroppo serve, ma non deve essere assolutamente amato. Poi sono andato in Accademia dove mi hanno fatto il lavaggio del cervello. Così, quando venne fuori il problema, cioè la morte di Giuseppe Panerai, gli eredi dissero alla Marina che avrebbero chiuso l’azienda se non veniva l’ingegnere Zei e io fui chiamato a Roma. Questo dello stato maggiore della Marina è un reperto secondo me di archeologia di onestà. Nel ’72 un Capo di stato maggiore decide, nell’interesse della Marina, di mandare un suo ufficiale a guidare una azienda che lavora esclusivamente per la Marina nella forma della trattativa privata. Oggigiorno ci sarebbe da farci subito delle inchieste. Invece, fu una cosa fatta con estrema onestà e con estrema naturalezza. Io fui chiamato a Roma e mi chiesero “Se la sente?” e io le devo dire che ero spaventato: dal punto di vista tecnico mi ritenevo in grado ma per tutto il resto, cioè guidare una azienda, gestire i problemi con le banche, insomma, proprio una cosa innaturale per me che ero un ufficiale della Marina, non un imprenditore.
DINI Le hanno chiesto anche di rinunciare alla carriera.
ZEI Certo. Dunque, chiesi una settimana per decidere, poi dissi di sì perché mi assicurarono che la Marina avrebbe comunque fatto gli ordinativi necessari alla sopravvivenza dell’azienda, quindi dissi di sì. La trattativa privata significava però che tutte le offerte dovevano essere fatte documentando per iscritto tutti i costi che poi venivano controllati dalla Marina tramite l’ufficio tecnico di Firenze, e poi aggiungere un utile che doveva essere pari al 10% dei costi. Questo scoprii che era un aspetto fallimentare: infatti per il buon Panerai, bisogna dire che i suoi guadagni li faceva con la sorella con l’orologeria svizzera di piazza del Duomo. Era lì che avevano costruito il loro benessere. Poi l’attività andava avanti anche perché lui era un amante della Marina. Non ho mai capito il perché, in realtà. Non ha avuto antenati in Marina, però era innamorato della Marina, di quel modo di trattare le cose. Gli piaceva di stare in Marina e gli piaceva servire la Marina, operare per lei, e gli piaceva fare tutte quelle strane diavolerie per le armi speciali degli Incursori. Ogni tanto faceva un colpetto, inventava qualcosa e guadagnava un po’. Però c’era un problema. Vede, se con una linea tipo quella della Panda, una volta messa a regime, la Fiat ha un dieci per cento di utile, credo che sia una cosa buona. Ma una azienda come la vecchia Panerai faceva continuamente ricerca e sviluppo, prototipi, studi. Poi, su tre quarti delle cose decideva che non valeva la pena e buttava via i prototipi. E per il quarto restante di cui si decideva di fare una produzione in serie, la serie erano 50 pezzi, capisce che i numeri non tornano. Quindi io mi detti da fare per avere l’autorizzazione dalla Marina ad avere utili almeno del 15-20 percento. E mi venne detto che non si poteva perché era un regolamento interforze quello della trattativa privata secondo il quale doveva esserci un margine del 10%. A quel punto confesso che per tenere in piedi l’azienda mi feci furbo, cercai di aumentare: quando mi dicevano 100 ore di progetto questo, 50 ore quell’altro, io facevo 50 ore in più, aumentavo il peso. E tant’è, meno male che feci così perché in tutti gli anni che ho guidato la Panerai non ho mai avuto un bilancio dell’azienda che raggiungesse un utile del 10%. Non ci sono mai riuscito. E ho accumulato tanti di quei debiti con le banche che alla fine ho dovuto vendere l’azienda. Perché poi oltretutto con le banche, a quel tempo, il denaro c’era. Quando mi presentavo io, che dietro alle spalle avevo i contratti con il ministero della Difesa, non facevo in tempo neanche a farmi salutare. Mi dicevano subito: “Quanto vuole?”
DINI Mai un problema?
ZEI Tutto il denaro di cui avevo bisogno. Ma perché siamo arrivati a parlare di questo? È il bilancio. Il bilancio è positivo senz’altro. Ho fatto cose buone ed errori. Montanelli diceva che non bisognerebbe ricordare la vita trascorsa perché si sbaglia o in positivo o in negativo. In ogni caso si modificano le vicende. Quindi, per essere onesti, certamente ci sono stati errori e altrettanto certamente ci sono state anche cose molto buone. Per lasciare la Marina dovevo dare le dimissioni. Occorreva un motivo. Ci pensai sopra. Da qualche anno avevo un’ulcera che tenevo nascosta, perché la Marina allora si riservava il lusso di esentare dal servizio chi avesse l’ulcera, in quanto era considerata una malattia non affrontabile con la vita di bordo. E tutto sommato non avevano torto. Quindi dissi: ho un’ulcera. Tutti contenti: allora è fatta, lei va in pensione per l’ulcera. Ed ebbi una piccola pensione, che ho tutt’ora, perché allora l’impiegato statale dopo 19 anni, sei mesi e un giorno di servizio aveva diritto a un minimo della pensione. Io all’epoca avevo 21 anni di servizio.
DINI Se lo sarebbe immaginato che da ufficiale di Marina si sarebbe occupato di ricerca tecnologica?
ZEI Sì e no, ma io sono un ufficiale delle armi navali, specializzato in meccanica industriale. Oltretutto, ho sempre voluto stare in Marina perché ho sempre avuto incarichi prestigiosi di grande soddisfazione. Ed ero il responsabile delle nuove armi speciali per gli Incursori, che sono sempre state importantissime nella Marina italiana. Per cui mi occupavo di cose ultraprotette dal segreto, superiore al livello del segreto Nato. Non so ora, ma allora gli Incursori della Marina erano l’unico corpo che l’Italia non aveva messo a disposizione della Nato, invece dipendevano direttamente dal Capo di Stato Maggiore della Marina e non rientravano quindi in quell’altro contesto. Cioè il comando Nato non avrebbe potuto disporne: erano l’unico corpo che era separato e quindi era un “Segretissimo nazionale” più importante del “Segretissimo Nato”. Poi, in realtà facevo la ricerca anche di armi non speciali, per esempio una volta andai in Olanda quando seppi dalla nostra intelligenza, che ci teneva informati delle eventuali armi particolari che potevano esserci utili, che era uscita una mini bomba a mano che era molto interessante. Non mi ricordo in quale anno uscì, comunque l’Olanda fece questa bomba che era una piccola palletta efficientissima, che si portava bene, si lanciava bene, se ne potevano portare parecchie, insomma era una bella realizzazione. Io andai, la provai, me ne portai in aereo 160 bombe a mano dentro una cassettina.
(Risate Dini e Ambuchi)
ZEI Avevo il passaporto diplomatico. Quelle degli olandesi erano cassette da 160 pezzi, ne feci preparare una, ci scrissi sopra “materiale classificato di proprietà dello Stato Maggiore della Marina Italiana” e partii. Allora non c’erano state le due torri di New York, si poteva fare. Adesso penso che una cosa simile, anche con il passaporto diplomatico, non penso che si potrebbe fare.
AMBUCHI Se fosse accreditato come corriere diplomatico probabilmente sì.
ZEI Probabilmente si, ma io non passai nemmeno dal nostro diplomatico, andai direttamente e dissi io sono tizio. E le portai in Italia e le feci provare agli Incursori: io le avevo lanciate in Olanda, i nostri Incursori ne lanciarono molte e poi ne acquistammo parecchie centinaia.
DINI Mi pare di capire che a fare il responsabile delle armi degli Incursori si trovava bene.
ZEI Stavo benissimo. Era una vita che mi piaceva, mia moglie stava bene. Poi arrivò questa faccenda di Panerai. Mi ricordo che il giorno prima di morire Giuseppe Panerai mi mandò la macchina con l’autista a Spezia, dove abitavo e lavoravo, per venire a Firenze. Mi telefonò e mi disse: “Ho bisogno di parlarle”. Chissà perché, mi chiesi, dato che sapevo che stava male. Mi disse: “Vorrei sapere se posso contare su di lei”. E io pensai, siccome c’erano parecchie cose in corso, tutte segrete, tutte importanti, e lui stava molto male, pensai: questo è peggiorato e si preoccupa di queste cose in corso e così risposi: “Stia tranquillo. Per tutto quello che posso fare, molto volentieri. Anzi chiederò al comando di mandarmi più spesso”. “Bene, grazie”. Ecco, e il giorno dopo è morto. Da parecchio tempo, adesso mi ricordo, mi parlava spesso di cose dell’azienda, di cose che a me non interessavano: il personale, il carattere del personale, dei vari operai. Tutti cose di questo tipo perché evidentemente lui aveva già iniziato a pensare a me come suo possibile successore. Perché, scoprii poi, lui aveva messo due ingegneri al vertice della Panerai. Ci aveva provato, e gli ingegneri che sceglieva erano tra i migliori, ma non era andato d’accordo. Non so bene com’erano andate le cose, ma se ne erano andati entrambi. Lui infatti voleva un ufficiale di Marina, idoneo a fare quel lavoro, e lo voleva devoto alla Marina: perché una volta che mi aveva chiesto di indicargli una persona e io gli avevo detto che c’era un ufficiale che voleva lasciare la Marina e che era qualificato per quel lavoro, mi rispose: “No, se vuole lasciare la Marina vuol dire che ha nemici in Marina, oppure che non gli piace. No”. Quindi voleva qualcuno devoto alla Marina, però al tempo stesso disposto a lasciarla. C’è una contraddizione in termini. Una persona così non esisteva. Questi comunque erano i precedenti. Mi è tornato tutto in mente, parlandone adesso.
DINI Però lei non solo si è trovato a fare l’imprenditore, ma anche il maestro di alta orologeria.
ZEI No, guardi: maestro di alta orologeria ecco, non penso che si possa dire in questi termini. La storia è più complessa. Quando, dopo la caduta del muro di Berlino, il bilancio della Difesa fu…
DINI …ridotto…
ZEI …”cannibbalizzato” è la parola giusta. In quel periodo lo Stato Maggiore mi chiamò e disse: “Noi quel livello di ordinativi che le abbiamo chiesto finora non ce la facciamo più a chiederglielo. Deve trovare un altro modo”. Allora io mi sono chiesto: che cosa faceva prima la Panerai, oltre alla strumentazione di precisione, ai sistemi d’arma e alle altre cose per la Marina? Nei primi anni quaranta ha fatto gli orologi. Tiriamo fuori dagli archivi tutto quel che abbiamo ma non c’erano più i disegni. Avevamo un po’ di altri materiali e un orologio Luminor, e la fotografia del Mare Nostrum. Rifacemmo i disegni costruttivi, perché li abbiamo rifatti tutti d’accapo, e poi venne l’idea: c’era l’attore americano di origine italiana Sylvester Stallone che si trovava a Roma a girare un film e allora uno mi disse: “Perché non parliamo con Stallone e facciamo una serie di orologi con il suo nome sopra?”. Insomma, andammo a parlargli, accettò e facemmo questa cosa. E andò bene, per me era una carta vincente a condizione di avere mezzi finanziari idonei. Io però con l’azienda avevo solo debiti. Ero arrivato ad avere sei miliardi di lire di debito con le banche. Che era una cosa che non mi faceva dormire di notte.
DINI Ci credo. Quante persone lavoravano per lei?
ZEI Eravamo arrivati a una cinquantina di persone divise su tre aziende. Come immaginerà, per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè per avere i 15. Perché poi le persone dovevano essere scelte una per una. Io non ho mai avuto commissioni interne, non ho mai avuto agitazioni, ho sempre fatto squadra con gli operai, come si dice adesso, con i tecnici, perché erano scelti. Anche la donna delle pulizie doveva avere il nulla osta di segretezza. Capisce, è un problema diverso: non avevamo una fabbrica “normale”. Dovevano esserci garanzie e direi caratteristiche particolari in tutto, anche e soprattutto nella selezione del personale.
DINI Certo.
ZEI Quindi era difficile sceglierli però in cambio poi c’era la pace completa, la collaborazione, si lavorava di sabato, di domenica, si faceva gli straordinari, era un clima speciale, una azienda particolare: non ce ne sono più.
DINI Mi diceva che lei non è un maestro di orologeria.
ZEI Ecco: gli orologi. Venuta l’idea di rifarli, ho pensato: ma gli orologi poi li vendiamo? Perché, io l’ho sempre detto e Ambuchi lo sa: per me l’orologio si compra quando uno passa l’esame di maturità, oppure la Prima comunione, e magari un altro alla laurea. Dopodiché sei a posto per la vita. E invece scopro che c’è gente che spende un sacco di soldi e che fa le collezioni. Io non lo sapevo: non conoscevo assolutamente il mercato dell’orologeria.
DINI E che scoperta è stata? Come l’ha trovato, quando è entrato in contatto con questo mondo?
ZEI È stata una sorpresa: io mi sono molto sorpreso a vedere gente che era disposta a spendere tanto per un orologio. Allora ho capito che, facendo dei depliant ben fatti e avendo dietro il nome prestigioso della Panerai che faceva queste cose per gli Incursori, gli Arditi della Seconda guerra mondiale, e avendo anche del denaro per fare una pubblicità oculato, c’era da fare veramente un buon lavoro. Era un progetto che aveva del potenziale. Quindi, quando parlammo con la Cartier della possibile cessione, io gli feci presente questo, loro naturalmente dissero che no, che era un marchio fallimentare. Questo fu un altro errore: le mie trattative con la Cartier furono improntate alla lotta, perché loro minimizzavano il valore della Panerai facendo ovviamente il loro interesse.
DINI Cosa successe?
ZEI Io mi offesi: quindi si andò avanti a pesci in faccia, come si dice in Marina. Però mi ricordo che alla fine della trattativa la cessione di questo ramo d’impresa mi fruttò tre miliardi di lire che misi subito in banca, dimezzando il debito. Poi il resto della Panerai fu venduto alla Calzoni di Bologna e finì lì. Ritornando agli orologi: è a quel punto che mi sono appassionato ai segnatempo, ma fino a un certo punto e comunque non sono un tecnico degli orologi, della loro costruzione. Un tecnico degli orologi è Antonio Ambuchi, qui presente, che è uno dei più prestigiosi, preparati progettisti di orologeria secondo me…
DINI Prima di venire qui a intervistarla mi ha fatto vedere la piccola fabbrica a cottage di Anonimo, nelle campagne fiorentine: mi ha fatto passare una mezza giornata straordinaria.
ZEI Ambuchi è eccezionale. È una fortuna di Anonimo di averlo avuto e adesso di Firenze Orologi. Quindi, voglio dire, per gli orologi i compiti sono semplici: io consiglio, propongo, al massimo raccomando.
DINI Firma anche…
ZEI Parlando di una cosa: l’alta orologeria come si può difendere: il mercato secondo me è affollatissimo, quindi credo che si debba innovare sempre di più per distinguersi. D’altra parte è quello che Anonimo ha sempre fatto, con una assiduità e una determinazione che è rara e secondo me encomiabile, perché fatta da una piccola azienda con risorse limitate. Anonimo ha sempre innovato, mi spiego? E Ambuchi è il protagonista principale di questo. Quindi adesso deve continuare su questa strada, a mio parere. Un’altra cosa che c’è che posso consigliare è di difendere risolutamente la qualità: bisogna stare attenti alla qualità. E poi non so se il dottor Ambuchi è d’accordo, io limiterei non tanto il numero dei modelli ma il numero delle versioni di ciascun modello, perché nel fare il libro su Anonimo mi sono ritrovato con 89 versioni dello stesso orologio. Questo è strategico perché poi bisogna assicurare anche la presenza dei rispetti, come si dice in Marina, cioè delle parti di ricambio, dell’assistenza. Sono cose che, volendole fare bene, ci si perde. Quindi farei un numero limitato di modelli e un numero molto limitato di versioni di ciascun modello puntando sulla qualità di ciascun pezzo.
AMBUCHI Questo che dice è il portato di un periodo di tre o quattro anni in Anonimo che poi ci si porta ancora dietro: cioè la crescita principale di Anonimo è stata fortemente spinta sull’aumento delle varianti. Perché da un certo punto di vista è più semplice convincere ad acquisire un prodotto nuovo piuttosto che a consolidare un qualcosa già visto.
ZEI Questo da un punto di vista commerciale.
AMBUCHI Questo da un punto di vista commerciale.
DINI Però nel lungo periodo non è più così, no?
AMBUCHI Nel lungo periodo non paga. Infatti, la più grossa differenza che io vedo tra Firenze Orologi con l’attuale gestione del marchio Anomimo e l’Anonimo dell’origine, è questa: che la strategia è quella di consolidare. Possono essere eseguite delle varianti ma sono essenzialmente fatte su richiesta, cioè se, come dicevamo stamani, mi viene chiesto, particolarmente dal mercato russo, di produrre una versione in oro massiccio a un costo esorbitante vicino ai 30mila euro, e tecnicamente sono capace di farla, la posso realizzare.
ZEI Certo, certo.
AMBUCHI Purché si sia consapevoli che è fatta su una specifica richiesta, che verrà prodotta in quel numero di pezzi limitato lì e che quindi in quel costo si finisce per pagare sia la ricerca e lo sviluppo che anche le parti di ricambio, perché non posso semplicemente fare dieci orologi da 28mila euro al pubblico e poi dire tra tre anni non c’è più il quadrante. Come Anonimo, valeva il principio inverso: creiamo la piccola versione di modo che il pubblico sia stimolato a cercarla e comprarla proprio per la sua rarità.
DINI Ma non si può fare solo questo.
AMBUCHI Esatto. Però non paga. Il discorso delle serie è importante. Noi abbiamo scelto di produrre delle serie limitate ma con un quantitativo un po’ più alto, e l’evoluzione avverrà sui materiali, sui colori dei quadranti, sulla tipologia dei quadranti. Il Marlin, prendiamo un esempio, è nato in acciaio, viene prodotto in bronzo, potrà essere prodotto in ossidazione chimica o comunque a “meritura”, potrà essere prodotto in metalli nuovi, ma l’impianto di fondo dovrà rimanere perché io devo assicurare a chi ha comprato a 5mila euro un orologio in bronzo che la valvola per l’elio la troverà anche tra dieci anni e quindi quell’oggetto mi passerà dall’acciaio al bronzo e al titanio mantenendo però la stessa valvola.
DINI Mi sembra molto giusto questo discorso di qualità e innovazione da un lato e semplicità, semplificazione dall’altro. Ho visto che adesso gli orologi sono anche nei quadranti più semplici e più puliti.
ZEI Questo è vero, sì,
DINI C’è stato un momento che erano più “affollati”, complicati, per così dire.
ZEI Questo Ambuchi lo sa: io ho raccomandato sempre di essere semplici, Infatti per me l’orologio più bello è il Luminor Panerai.
DINI Quello sì è molto essenziale.
ZEI È grande, pulito, come la Marina l’aveva voluto. Certo è che per distinguersi bisogna trovare anche altri modi. Però bisogna evitare di esagerare Ho visto dei quadranti per esempio con il “12” quasi del tutto cancellato da un contatore. Quelle forme estremiste che rendono complessa l’interfaccia dell’orologio: secondo me è meglio togliere il dodici in quel caso e metterci un “dot”, un pallino. Vabbé adesso scendiamo nel particolare e non il caso.
AMBUCHI Ne abbiamo parlato stamani e fa parte anche questo di una eredità che era molto presente nei primi cinque anni di Anonimo e che poi piano piano sta cambiando, in buona parte perché è cambiato l’approccio dell’azienda. Il punto di passaggio è la collaborazione e il grosso studio soprattutto per il San Marco ma anche in genere per altri orologi successivi. Adesso la tendenza non è più quella a dire: devo trovare il modo di comunicare, tramite colore, decalc, stile, alcune informazioni; bensì chiedersi prima quali informazioni sono realmente necessarie e quindi la semplificazione viene in modo naturale. Stavo riflettendo con la tecnologia comunque relativamente moderna che c’è, chiedere all’orologio da polso anche destinato a un uso tecnico o addirittura militare la precisione al quinto di secondo è un controsenso perché se voglio veramente avere questo livello di precisione e di sincronia mi rivolgo a un computer da polso, a un palmare, a un GPS sincronizzato.
ZEI Certo.
AMBUCHI L’orologio ha una funzione di backup personale: comunque io ho uno strumento che indipendentemente dalla rete elettronica, dai satelliti, da qualunque altro problema, mi dice grossomodo che ora è e cosa posso fare. Quindi la pulizia aiuta. Perderò la possibilità di leggere i secondi, ma non sincronizzerò il mio orologio con i tempi dell’armi moderne, è un nonsenso credere di poter sincronizzare un’azione militare guardando la lancetta dei secondi. Devo lanciare un missile, programmo un computer che me lo lancia, non è che aspetto di essere a un secondo e poi gli dico lancia.
DINI Tre, due, uno, via.
AMBUCHI Quindi, anche per questo, durante i lanci dei Saturno c’era un “tre-due-uno” ma era a uso televisivo, il lancio del Saturno non avveniva con il signore che schiaccia il tasto, anche lì c’era un computer – sia pure con la tecnologia degli anni sessanta – che comandava il tutto. Quindi, su questo secondo me l’aiuto dato dall’ingegnere Zei è stato fondamentale perché spesso serve un punto di vista esterno per capire quel che si sta facendo. In fondo Anonimo era andato avanti cinque anni con un certo stile e un certo modo di vedere gli orologi. Avere dall’esterno qualcuno che dice sì, proviamo a pulirlo: se io prendessi - ora l’ho lasciato in azienda - gli originali del San Marco, tutte le versioni quadrante, io credo che ce ne siano cinque, per arrivare all’ultima, che è comunque piena perché le informazioni son tante e servono, le prime erano davvero molto più affollate dell’ultima.
DINI Ingegnere le volevo chiedere una cosa. La spiegazione del computer è perfetta per introdurre questa domanda: gli orologi che nascevano con Panerai, gli orologi che nascono con Anonimo, non sono estetici ma sono funzionali: effettivamente il palombaro il sommozzatore, può andarci sott’acqua.
ZEI Sono anche belli.
DINI Sono anche belli, certo. La domanda è questa: la sua idea di che cosa sia diventato l’orologio.
ZEI Anni fa arrivarono i digitali ma il mercato non era ancora pronto: il virus della digitalizzazione non era ancora entrato. Tra l’altro, per me è un virus perché sono un uomo superato.
DINI Analogico, come si dice.
ZEI Analogico, certo. Giorni fa mio figlio, che è un cinquantenne colto, letterato, grande lettore di libri, mi si presenta con un libro digitale. E io dico, ma come? E lui: “Guarda che è di una comodità e poi ha una risoluzione che non affatica la vista. Io lo sto prendendo in seria considerazione”. Allora, a me ottantenne con la mia cultura, fa una certa repulsione il libro digitale. Invece, mio figlio cinquantenne con le doti che le ho detto, no, lo vede con soddisfazione. Io temo che le nuove generazioni se ne innamoreranno perdutamente. Per cui la digitalizzazione prenderà piede. Però, proprio il discorso che faceva adesso lei: credo ci sia sempre spazio per l’alta orologeria, perché l’orologio-strumento di lavoro io lo vedo digitale, ma non riesco a pensare a un orologio oggetto di desiderio perché è bello, perché lo si vuole al polso digitale.
AMBUCHI Io su questo sono più pessimista.
ZEI Lei è pessimista?
AMBUCHI No, io ritengo semplicemente che il digitale sia pervasivo e possa essere bello.
ZEI Ma come fa ad essere bello al polso un digitale? È utilissimo, si legge bene, è preciso.
AMBUCHI D’accordo.
ZEI Quindi ha tante doti ma non la bellezza.
AMBUCHI Però, io sto pensando piuttosto che non è nemmeno un problema di contenuto se il motore sia meccanico o elettronico. Il punto è l’oggetto in sé. L’orologio esiste perché storicamente c’è stata la necessità, oltre a leggere il tempo, di leggerlo in modo personale. Cioè di non dover ricorrere a orologi fermi, che siano pubblici o privati. Siamo andati sempre in direzione dall’orologio da tasta, da collo, al polso fino alla massima da un lato praticità e dall’altro la massima resta estetica e tecnologica. Però questo si basa sul fatto che comunque da fine Ottocento agli anni settanta la maggior parte dei progressi che ci sono stati da parte di tecnologia hanno influito relativamente sulle persone. Sì, abbiamo avuto le automobili, la diffusione dell’energia elettrica, qualcuno aveva già la lavastoviglie, un po’ di tivù. Però alla fine una famiglia degli anni trenta avrebbe riconosciuto abbastanza bene una famiglia degli anni sessanta, in quello che fa e nel modo in cui viveva. La famiglia del 2020, in confronto a una famiglia degli anni trenta, secondo me è diverso.
DINI È fantascienza.
AMBUCHI Fantascienza, sì, ma non tanto perché c’è l’auto che lievita a mezzo metro da terra. Invece perché realmente Internet e il computer ha cambiato completamente tutta una serie di percezioni. Io temo che nemmeno la generazione di chi oggi ha vent’anni o venticinque si appassionerà a questi argomenti. Il problema non è che l’orologeria nei prossimi vent’anni scompaia, però temo che la prossima generazione che sta venendo fuori sarà disinteressata agli orologi. Lo vedo con due figlie giovani: non c’è interesse per l’orologio digitale o l’analogico che sia, perché è un oggetto che non rientra nel loro orizzonte,
ZEI Ah ecco, da questo punto di vista ha ragione. Temo abbia ragione.
AMBUCHI Perché in fondo l’ora se gli interessa se la vedono sul cellulare, se la vedono sul motorino, sull’auto, sulla tivù, sul computer, sul palmare.
DINI Però l’orologio può diventare un gioiello, può trasformarsi, no?
AMBUCHI Secondo me resisterà se riusciranno, perché non è una cosa che può fare Anonimo né che può fare neanche un singolo marchio, ma se gli svizzeri avranno l’intelligenza di capire che il mondo sta cambiando e loro devono fare uno spostamento: spostare il valore. Non l’orologio, la tradizione, la complicazione, bensì appunto il bello, il gioiello, la distinzione, l’affermazione della persona. Se riescono a spostare da questo all’altro, probabilmente l’orologio continua.
ZEI Non ho capito: da questo all’altro cosa?
AMBUCHI In questo momento, riguardo l’orologio di prestigio svizzero, quello che vien detto è che è bello, che è tradizionale, che c’è il movimento complicato, che c’è cent’anni di storia, dugento, che è il pronipote dell’orologiaio che stava a Ginevra sul lago a fare le ruote dentandole una per una. Ma questo ha un valore tradizionale e parte da un punto di vista che tu l’orologio lo vuoi comunque e allora dici: se posso mi compro Patek Philippe piuttosto che Anonimo. Ma io dico, se sono convinto che l’orologio non mi serve, tu devi convincermi a comprarlo e per farlo hai bisogno di spostare da tutto quello che è la storia dell’orologio a dire: “A te l’orologio, o cliente, ti serve perché è un oggetto bello, che ti identifica, che fa capire a un altro come sei, che afferma un po’ della tua personalità e che quindi se anche ha un uso pratico relativo, ti serve comunque. A questo punto l’orologeria continua, magari cambierà, cambieranno i numeri, dubito che si continuerà tra venticinque anni ad avere lo stesso numero di orologi prestigiosi che dicevo.
DINI Diventa un fenomeno ancora più di nicchia.
ZEI Infatti.
AMBUCHI A meno che non si riesca a trasferire contemporaneamente a tutta la Cina e a tutta l’India lo stesso modello europeo, ma ho dei dubbi.
DINI Eh, per un po’ forse ce l’avranno.
AMBUCHI Vengono da una cultura molto diversa.
DINI Ma, ingegner Zei, quando suggerisce gli orologi che portano il suo nome, quando consiglia Anonimo per gli orologi che portano il suo nome come oggetti distintivi che andranno verso un pubblico che sceglie di comprarli, che tipo di persone si immagina? Sono uomini, perché gli orologi di Anonimo come anche Panerai sono orologi maschili, diciamo, ora ce n’è uno nuovo che forse è più unisex…
ZEI Ma, non immagino un modello di persona
DINI Cioè cosa dice di sé?
ZEI Non una tipizzazione spinta. Le confesso che io non ho mai capito perché comprano gli orologi Dino Zei. Lei Ambuchi l’ha capito?
AMBUCHI Non so.
ZEI Voglio dire: capisco uno che compra l’orologio Stallone, perché è Rambo.
DINI Un personaggio famoso, una star di Hollywood.
ZEI Esatto. Ma Dino Zei non lo conosce nessuno: lo conoscono poche persone nell’ambiente fiorentino e della Marina Militare. Anzi, la Marina nemmeno, perché ormai la mia generazione se ne sta andando uno dopo l’altro, ogni giorno arriva la notizia che uno ci ha lasciato, e i giovani nemmeno conoscono Dino Zei. Quindi, tutto sommato, alla sua domanda non so come rispondere. Non capisco come fa ad avere successo. Perché mi dicono che ha successo, che si vende.
AMBUCHI Sì, sì, si vende
ZEI David Cypers è molto interessato al marchio Dino Zei perché dice che ha molto valore. Ecco io mi stupisco che ci sia questo. Penso che sia dovuto al “Dino Zei”, come parole, come suona. Mia moglie ha avuto successo come pittrice perché “Vera Zei” era un nome che suonava bene. E io sono grato a mio padre, che si chiamava Costantino.
DINI Un nome complicato.
ZEI Infatti. Mi diceva “Guarda quanto ho sofferto io che, avendo un cognome di tre lettere, mi hanno dato un nome così lungo. Per fare la firma mi ci vuole un sacco di spazio”. Lui aveva il problema della firma. E mi diceva: “A te t’ho chiamato Dino Zei perché Dino è corto”. Se io, pur con tutto quel poco o tanto che sono e che ho fatto, mi fossi chiamato “Bartolomeo Cazzullo”, credo che nessuno m’avrebbe proposto di fare un orologio. Anche se avessi avuto un grande valore, chessò, un premio Nobel perché ho scoperto qualcosa, ma l’orologio Bartolomeo Cazzullo non l’avrebbe fatto nessuno.
AMBUCHI È una vecchia battuta che circola negli Stati Uniti:
ZEI Ah sì?
AMBUCHI Su Harley Davidson. In cui viene detto più o meno che è vero che le moto sono molto particolari, sposano bene la mentalità americana e quindi si capisce il successo, però se invece di essere i due signori mister Harley e mister Davidson, fossero stato Esposito e Cacace, non avrebbero venduto.
ZEI È importante, non è una cosa secondaria.
AMBUCHI Storicamente sì, nell’orologeria il marchio è legato al cognome o al doppio cognome purché sintetico e facile da ricordare.
DINI Come i due spagnoli che hanno accorciato i loro, no?
AMBUCHI Bell & Ross, non a caso hanno tutti e due nomi molto più lunghi
DINI E poi Bell & Ross sembra quasi La bella e la bestia
AMBUCHI E poi c’è la trovata della “E commerciale”. È un nome curioso ma funziona bene in molte lingue: francese, inglese, italiano.
DINI Anche “Dino Zei” funziona bene in molte lingue,
AMBUCHI Sì, funziona bene in molte lingue.
ZEI Io credo che sia molto importante, è un nome e un cognome bene unito.
DINI È stato bravo suo papà.
ZEI È stato bravo: era stato colpito con Costantino quindi si doveva rifare con il figlio e si è rifatto.
AMBUCHI Però poi il nodo di fondo è chiedersi perché si venda. Comunque siamo un prodotto di nicchia, che ha un marketing abbastanza debole a confronto di marchi ben più diffusi. Probabilmente proprio per questo, cioè c’è una soglia, una fetta della torta di persone che hanno già uno due tre orologi di marchi molto più diffusi Rolex, Omega, Breitling, Tag Heuer…
DINI Collezionisti, appassionati.
AMBUCHI Con questi quattro nomi meccanici io ho già fatto due milioni di pezzi l’anno. Si deve pensare i due milioni di pezzi moltiplicati cinquant’anni danno una visibilità enorme.
DINI Ma la visibilità però non vuol dire “esclusivo”. Perché come fa ad essere esclusiva una cosa così diffusa?
AMBUCHI Appunto, perché probabilmente una fetta di queste persone al passo successivo se ha la disponibilità cerca il prodotto più di nicchia. Anonimo e Dino Zei sono in questa nicchia. Se potessimo chiedere, se potessimo sapere ora, chi sono tutti i 25, 28mila possessori di orologi Anonimo e Dino Zei, a parte alcuni che ne hanno quattro o cinque, scopriremmo che quasi nessuno l’ha acquisito come primo orologio ma che è stato un passaggio successivo.
ZEI Da qualche parte in azienda c’è scritto quanti Dino Zei sono stati venduti?
AMBUCHI Venduti?
ZEI Mi piacerebbe saperlo.
AMBUCHI Quello lo posso ricostruire.
DINI Ha mai incontrato qualche cliente? Per caso intendo dire.
ZEI No. Tra gli amici però ci sono alcuni che ce l’hanno.
DINI E lei quale porta?
ZEI Io ho un Glauco, il primo che mi portò Massacesi, la prima preserie non automatica, cinquanta pezzi.
DINI È un meccanico?
ZEI Meccanico, sì.
AMBUCHI Un cronografo a carica manuale.
DINI E che si dimostra essere un ottimo orologio perché ormai ha qualche annetto.
ZEI Funziona benissimo, a me piace molto, il nero con il blu.
DINI Bellissimo con quel quadrante lì, molto bello.
ZEI Poi l’idea, di chi è stata l’idea dello scafandro? Lei Ambuchi vero?
DINI Ce l’ha tutte lui, le idee,
ZEI Questa è una idea vincente. Associare al Dino Zei l’elmo dello scafandro è veramente un’idea vincente.
AMBUCHI Ne ho preparata un’altra.
ZEI Poi non so se lei l’ha visto che dietro è sfruttato per far vedere il movimento. È fatto bene. Lo dobbiamo al dottor Ambuchi.
DINI Quella che è prevalente nell’innovazione di oggi è la dimensione industriale: startup che si muovono come future realtà industriali. Invece qui da voi c’è capacità di innovazione in una dimensione volutamente artigianale, perché i numeri sono quelli dell’artigianato, il laboratorio è quello dell’artigianato.
ZEI Certo. Anche nel libro se ne parla. L’attività, e io l’ho detto poc’anzi, l’attività di innovazione di Anonimo è stata eccezionalmente ricca. Io non ho mai visto una cosa simile. Noi come Panerai avevamo pochi ma buoni sub-fornitori, tutti con alto livello di qualità, gente seria. Ma tanta innovazione fatta in una piccola azienda, come in Anonimo, non l’ho mai visto. Perché credo che problemi finanziari ce ne siano sempre stati.
AMBUCHI Sì.
DINI Quelli purtroppo non mancano mai.
ZEI Perché queste cose costano, ritardano. Quindi, devo dire, la prima fortuna di Anonimo è quella di avere il dottor Ambuchi. Che è bravo e geniale, insomma, senza Ambuchi le cose sarebbero andate in un modo completamente diverse.
DINI Che non lo fa per diventare ricco.
AMBUCHI No, decisamente no, magari. Accontentiamoci, via.
ZEI C’è quella cassa in tre pezzi incernierata che è una genialità. Bellissima. Una novità assoluta.
DINI Sa che cosa ingegnere? Nei marchi che esistono oggi sul mercato, in cui ci sono persone che per un qualche motivo hanno un nome conosciuto e allora vanno a cercare il fornitore svizzero che gli fa un disegnino e gli realizza gli orologi, e quindi sono marchi come dire di cartapesta, dietro non c’è niente, c’è qualcun altro che ti fa il lavoro. Invece mi sembra che Anonimo, grazie alle tradizioni che si è portato dietro, è diverso. Anzi forse è più la tradizione di quanto ancora non riesca ad esprimere.
ZEI È mancata la possibilità di fare investimenti, sa? Se ci fosse stato un po’ più capitale, io non so forse sbaglio, ma se fossi stato al posto di Massacesi, cosa avrei dato per avere io il montaggio in casa. Perché un’aziendina che ha un centro di progettazione piccolo ma efficientissimo come quello, se può riuscire a dimostrare ai visitatori che si fa tutto da sé, è fantastico. È da mettere l’annuncio sul giornale: venite a trovarmi, venite a vedere cos’è Anonimo. È vero Ambuchi? È d’accordo? Lo meritava…
AMBUCHI Nel 2005 per la prima volta Anonimo superò abbondantemente i tremila pezzi, e considerato il valore medio della produzione che è sempre stato superiore ai mille euro, se uno fa due conti vede che è una azienda piccola ma con un buon fatturato, la scelta a quel punto è stata verso il marketing. Perché l’operazione di partecipare nel 2006, nel 2007 e nel 2008 – aggiungo purtroppo – al TP Race, la Mediterranean Cup, che era di Breitling, con una barca estremamente costosa, sì certo forse ha dato visibilità. Però se effettivamente quel rischio fosse stato preso per avere anche nella medesima sede il montaggio.
DINI Una spesa di marketing di settantamila euro, ottantamila euro…
AMBUCHI No, no, molto molto molto di più
DINI Due-trecento?
AMBUCHI Molto di più, purtroppo.
DINI Urka. E allora mi permetta ma è una scelta pericolosa, suicida.
AMBUCHI Lo è stato.
DINI Vai a fare gli spot in tivù piuttosto.
AMBUCHI Sì lo è stato. Sono scelte. Ognuno ha diritto a fare qualche errore nella vita.
DINI È una scelta anche tipica della cultura di chi fa marketing.
AMBUCHI Però effettivamente mantenendo la stessa sede produttiva e magari facendo uffici altrove, ristrutturando tutto per integrare nell’officina – cosa che era tecnicamente fattibile – anche il montaggio degli orologi, ma nemmeno per tutti perché montare un orologio prende l’uno per l’altro con un sistema artigianale un’ora, poi se ho un sistema automatizzato il più possibile, diviso in più fasi, posso scendere anche a 30 minuti. Noi abbiamo orologi come i professionali e i San Marco che di fatto vanno aggiustati uno per uno e lì l’ora è ampiamente sforata. Però, una persona all’interno ti può assicurare mille pezzi l’anno, grossomodo. Ma anche poter dirottare solo mille pezzi da un laboratorio esterno a uno interno…
ZEI Sì, anche solo una parte!
AMBUCHI …ti dava una completezza di azienda che poteva essere spesa come marketing molto meglio.
ZEI Sono contento che siamo dello stesso parere. Io ci ho pensato spesso, non l’ho mai detto a nessuno eh, tantomeno a Massacesi perché io penso che tutto sommato siccome è una persona intelligente probabilmente si è anche pentito.
AMBUCHI Sì sì, sicuramente si è reso conto.
ZEI Io quando entrai in azienda vidi questo, che gli orologi dalla fabbrica per il montaggio andavano a quell’altro posto, come si chiama?
AMBUCHI Fabiano. Sì, sono sei sette chilometri ma non è la stessa cosa.
DINI Anche per me. E come fiorentino che vive fuori da Firenze, scoprire Anonimo a Firenze è stata la scintilla: essere inorgoglito che a Firenze c’è una tradizione artigianale che, se avesse anche il montaggio dentro, sarebbe perfetta. Ti darebbe anche proprio l’idea: un cliente viene a Firenze a comprarsi l’orologio e vuole vederlo nel momento in cui lo montano e un’ora dopo glielo danno. Come fa la Porsche, no?
AMBUCHI Esatto. Io avevo proposto di organizzare una serie di orologi, un qualunque modello, con il sistema che aveva utilizzato la Volkswagen quando iniziò quell’esperimento terribile della Phaetòn: al cliente viene comunicata la data dell’assemblaggio del suo orologio e se vuole viene, e magari c’è anche la pubblicazione del registro in cui viene attribuito il numero di serie al cliente, e così via. Sarebbe stata una iniziativa che magari costava un po’ perché richiede tutta una serie di cose, però avrebbe avuto un bell’impatto sul marketing. Perché alla fine di tutto, se ci si pensa, noi abbiamo notato che la pubblicità, per dire quella su un giornale quotidiano, funziona: abbiamo fatto due uscite sole l’anno scorso che però hanno portato un immediato riscontro di persone che sono entrate da Manetti, che è il nostro negozio di Firenze, quantomeno per domandare.
DINI Dov’è Manetti, in Ponte Vecchio?
AMBUCHI Inizio via Calzaiuoli. Non so se è ancora attivo ma c’è stato per anni Callai in Ponte Vecchio
DINI E anche Barducci, avevo visto.
ZEI Ho sempre visto, sì. Poi ho visto anche che si riduceva la parte della vetrina e quindi ho pensato che forse non teneva più gli orologi
AMBUCHI Si ho visto che Callai spesso è chiuso, non so se si è spostato più sulla gioielleria perché sull’oreficeria c’è meno in questa fase.
DINI Però su questo ragionamento, non è il discorso del prezzo del lusso, perché dicevo che spendo ottomila euro di orologio ne spendo anche altri 500 per andarmelo a prendere, non è quello il problema. Ma apre un capitolo completamente diverso: è il rapporto, la relazione tra il marchio e il cliente.
AMBUCHI Il punto è che avrei avuto un rapporto diretto. Non posso comunque accedere a un marketing realmente incisivo perché richiede budget molto più alti e comunque la mia uscita locale mi fa vendere tre orologi in più da Manetti ma non mi crea la diffusione del marchio. Ma avere cinquanta persone o cento persone nel mondo che hanno speso ottomila euro, e che ne hanno spesi dai 500 ai magari duemila in più, se il cliente viene da New York, pur di vedere il proprio orologio assemblato, mi dà una ricaduta enorme. Questo cliente poi ne parla. Se viene sino da me a vedere, son quasi certo che dopo rientrato nel suo giro non si limita a tenere l’orologio sotto la camicia ma comincerà a dire questo sono andato a vederlo assemblare, mi hanno fatto vedere tutte le parti, ho stretto la mano al maestro orologiaio che l’ha montato, questa è la foto del signore che l’ha consegnato, questo è l’artigiano che ha lavorato la cassa. È una cosa che speriamo di riuscire a realizzare.
DINI Ho visto a San Francisco un negozio di biciclette su misura che costano quanto costano i vostri orologi più cari, cioè diecimila euro. È in una strada della zona Mission-Valencia, dove il cliente prenota su Internet, addirittura personalizza il prodotto finale su Internet, che nella bicicletta ha senso perché ci sono delle componenti che uno può volere, e loro risponde dicendo: “faccia il bonifico, venga martedì tra due settimane alle sei e aspetti mezz’ora”. È simbolico, perché legano gli ultimi due pezzi …
ZEI Certo.
AMBUCHI La messa a punto.
DINI Ti prendono due misure.
AMBUCHI Magari per registrare qualche lunghezza, il pedale, la sella.
ZEI Certo.
DINI Poi magari anziché Lastra a Signa può essere interessante spostare la produzione dentro Firenze.
AMBUCHI Il laboratorio di Lastra a Signa ha bisogno di essere ristrutturato, di essere organizzato in modo diverso e portato gli uffici, allora ha realmente senso una show room. L’ufficio show room e unità produttiva. L’unità produttiva può anche essere tradizionale: non credo ci sia l’interesse ad avere un’immagine hi-tech, l’immagine hi-tech è oltretutto perdente perché l’immagine hi-tech oggi domani è vecchia.
DINI Un mio amico mi disse una volta: “Tu hai cambiato telefonino dieci volte in dieci anni, e invece il mio orologio Omega nei primi dieci anni ha solo iniziato ad aggiustarsi, a prendere velocità. Se mantenuto a regola andrà ai miei figli e anche ai miei nipoti”. Questa cosa credo sia l’ambizione anche vostra, cioè di fare degli oggetti che durano nel tempo.
ZEI Certo.
AMBUCHI Comunque secondo me l’orologio non dovrà cambiare molto nei prossimi anni. Ci sono due cose ineludibili. La prima è che il polso degli esseri umani è fatto in un certo modo e non ci posso mettere oggetti di forme strane e dimensioni incongrue. E l’altra è che il tempo anche se è una freccia lineare noi lo percepiamo come un ciclo, perché di fatto è regolato dall’alternanza giorno notte quindi l’orologio è uno spazio chiuso, rotondo. Nel digitale si percepisce meno ma è comunque un andamento ciclico e quindi queste cose di fatto restano. Però credo dovrà cambiare di molto la percezione dell’oggetto e come quest’oggetto cercherà d’esser venduto perché non avrà più il valore di tecnologia che ha ora proprio perché il problema di fondo è cercare di convincere di dimostrare che hai bisogno di comprarlo. Mentre bene o male altri oggetti no: si può cambiare tutto ma le scarpe ai piedi ce le mettiamo; si può discutere di che scarpe, ma a oggi gli esseri umani hanno bisogno di scarpe. Non si tratta di convincere che è un oggetto necessario, si tratta semplicemente di vendere la mia scarpa anziché quella di un altro
DINI È la cravatta che bisogna convincere che è un oggetto necessario.
AMBUCHI Ma molte di queste battaglie sono state perse, chiamiamole così. Io fossi il caro signor Hayek, il figlio di Nicholas Hayek…
DINI Il capo della Swatch.
AMBUCHI Sarei molto preoccupato. Perché il problema di Anonimo è di trovare tre, cinquemila, diecimila, siamo ottimisti ventimila appassionati nel mondo. E questi li trovo. Il loro problema è trovare due milioni di persone.
DINI Tutti gli anni.
AMBUCHI Tutti gli anni.
DINI Perché due milioni li trovano, però trovarli anche l’anno dopo…
AMBUCHI E ci penserei un po’, perché effettivamente l’orologio rischia di fare la fine della cravatta sui grossi numeri, cioè di diventare un oggetto che ha un senso solo in determinate circostanze.
DINI Ingegner Zei, tornando alle mie domande…
ZEI Le domande… Prospettive future di Firenze Orologi ne abbiamo parlato mi sembra. Il ruolo di Zei. L’amore per Firenze di Dino Zei.
DINI Questa è una cosa che da fiorentino mi interessa. Perché lei stava a La Spezia, all’inizio.
ZEI Si va be’ io sono stato in tanti posti. Come ufficiale di Marina ho girato tutta l’Italia. Ma io sono di Viterbo, questo l’ho già detto no? Che ci tengo molto perché è una cittadina molto bella, storica. E però diciamo che Viterbo sta a Firenze come una bella perla sta a una splendida collana di perle. Ammiro molto Firenze. L’amo di riflesso perché mia moglie invece era perduta per Firenze. Io ricordo sempre quando andavamo verso Firenze e quando quindi dovevamo andare in macchina verso Piazzale Michelangelo qua e sul viale Galileo sotto a sinistra c’era il centro di Firenze assolato e lei si commuoveva ogni volta e mi diceva “Guarda che bellezza”. Diffido istintivamente però dalla presunzione congenita dei fiorentini.
DINI La capisco.
ZEI Bisogna riconoscere che c’è ed è diffusa. Ed è anche giustificata perché hanno dietro una ricchezza di lavori fatti, il Rinascimento, le bellezze intorno a loro… Sono tante cose, quindi capisco, capisco che essere fiorentino è importante. Qualcuno ne fa un uso un po’ eccessivo, però. C’era un ammiraglio tanto bravo, un certo Pannacci, che io ho citato nel mio libro, ed era senese. Mi fece un giorno un discorso bellissimo: “Siena è meravigliosa, ma Firenze se non avesse i fiorentini, sarebbe enormemente più bella di Siena”. Me lo ricordo sempre. Non parliamo a Livorno. A Livorno il fiorentino è meglio che non si qualifichi, almeno ai tempi miei. Il fiorentino doveva stare attento ad andare a Livorno perché era guardato con molta antipatia. Perché il livornese è simpaticissimo ma non ha storia, è il più povero di tutti, è figlio di ergastolani, di donne di servizio, di servi. Dietro le spalle non ha nulla. Il fiorentino dietro le spalle ha nobiltà, ha ricchezza, ha geni, ecco. Quindi i due non legano.
AMBUCHI Quest’azienda fiorentina sia ora in qualche modo entrata su persone che sono fiorentine fino a un certo punto. Perché Massacesi era fiorentino, David Cypers no.
DINI Non è fiorentino per niente.
AMBUCHI Io sono fiorentino non tipico.
ZEI Ecco lei di dove è, Ambuchi?
AMBUCHI Io? Molto probabilmente sono o tedesco o inglese di famiglia.
ZEI Ah sì? Cioè?
AMBUCHI Una volta ho voluto fare un po’ di ricerche sul cognome.
DINI Che è molto particolare.
AMBUCHI Risale a molto tempo fa, circa tre secoli fa. È venuto fuori che il cognome è sostanzialmente la resa italiana di Einbuck, che è il nome tedesco del “carpine”
ZEI Il nome tedesco del?
AMBUCHI Del “carpine”. Il Carpine è un albero tipo quercia, per cui dubito sia un caso. Le prime attestazioni di questo cognome non sono in Italia, ma sono in un registro inglese del 1500. E io tuttora ho degli Ambuchi a Londra che non conosco assolutamente ma che so che ci sono, con una “C” sola, e nella mia famiglia - che non è di Firenze ma è di Lastra a Signa, anche se vantiamo parenti a Firenze - la storia mi diceva che queste persone sono arrivate a Firenze venendo già con la famiglia Lorena, quindi non siamo fiorentini stretti.
DINI Di antica osservanza.
AMBUCHI Di antica osservanza, diciamo.
DINI Tornando alla dimensione artigianale di Firenze e il valore anche per il brand di Anonimo di essere di Firenze. Se se ne accorgono i non fiorentini, perché i fiorentini lo danno per scontato.
ZEI Ah, non c’è dubbio. È giusto che sia così perché l’artigianato fiorentino di qualità ha prestigio enorme nel mondo, e meritato. Si va sempre più impoverendo quindi io non so il futuro, perché gli artigiani mi sembra che perdano sempre importanza. Ma l’artigianato fiorentino di qualità è ricco di tradizioni e di prestigio. E lo si vede infatti giustamente. David Cypers su Firenze ci gioca molto e ha ragione, Firenze non c’è dubbio è un passe-partout importante.
AMBUCHI Purtroppo i fiorentini se ne accorgano poco, hanno anche lasciato cadere molte cose: se si fa un giro nel centro di Firenze ci si accorge che dopo quindici anni le creatività tradizionali, storiche, dal falegname al riparatore di mobili, non dico il fabbricante di scarpe proprio su misura: ebbene, non esistono più, e sarebbe bastato molto poco per tenerle in vita. Probabilmente sarebbe bastato metterle in rete, dare a queste persone la possibilità di essere conosciute, e di avere accesso fuori da Firenze per sopravvivere e forse rendere a loro più semplice la trasmissione di quello che sanno. Perché ora per il piccolo artigiano prendere una persona e trasmettere in cinque o sei anni quello che sa fare è un onere veramente pesante.
DINI È un costo pericolosissimo.
ZEI E se si perde tutto questo, Firenze si appiattisce. In parte è stato già perso. La forza di Firenze è proprio quella, l’artigianato: se non ha quello è una bella città che ha belle cose che gli antenati hanno fatto. L’Italia è piena di posti del genere. Firenze invece era diversa dalle altre città proprio per l’artigianato di alta qualità che era profondamente inserito nella realtà fiorentina. E che si sta distruggendo. È una ricchezza della città che se ne va. Una ricchezza importante. Di difficilissima ricostruzione, come dice effettivamente il dottor Ambuchi.
AMBUCHI È molto difficile.
DINI Le posso chiedere una cosa che mi ha molto colpito. Lei quando ha venduto il ramo di azienda della Panerai a Cartier, controllata di quello che ora è il gruppo Richemont, ha dato la sua parola e anzi ha anche firmato che per cinque anni non avrebbe lavorato. Un accordo di non competizione come si dice. Poi nel breve periodo ha finito di liquidare anche l’altro ramo di azienda, cioè l’attività come amministratore.
ZEI Sì sì ma lì non c’è stata alcuna attività.
DINI No, era per chiedere in questi cinque anni non si è per niente occupato di orologi.
ZEI No.
DINI Ma pensava che sarebbe tornato ad occupare o pensava che sarebbe finita così?
ZEI Non ci pensavo proprio perché era finito tutto. Dunque, vediamo: l’ultimo documento per l’azienda l’ho firmato nel duemila, e le trattative con la Calzoni di Bologna sono state fatte nel ’99 se ben ricordo.
DINI Questo per chiudere il ramo di meccanica,
ZEI Per l’ultima vendita. E l’incontro con Massacesi è nel 2004. Adesso non mi ricordo, mi sembra che ci presentò quel famoso francese.
AMBUCHI Mah, l’unica conoscenza comune che mi viene in mente oltre a Audiet, avrebbe potuto essere Massimo Pasquali, e Dall’Erba, che sono stati nel ’90.
ZEI No perché con loro non avevo un buon rapporto.
AMBUCHI No appunto, ma mi ricordo che comunque per un periodo, non so per quanto, hanno distribuito in Italia forse gli ultimi orologi Panerai. E per un periodo Massimo Pasquali è stato agente generale per l’Italia di Anonimo.
DINI Voi due siete stati in contatto?
AMBUCHI No no. Siamo stati in contatto per l’ultima serie degli orologi Panerai.
ZEI Si.
AMBUCHI Ma però è stata una vicenda brutta per entrambe le parti, finita malamente, sì.
ZEI Non ne parliamo
AMBUCHI Però diciamo la differenza, il punto di fondo è che io ho sempre ritenuto che alcune decisioni di Panerai non fossero decisioni, cioè fossero obbligate, fossero l’unica strada. Immagino che anche l’ingegnere pensi che alcune azioni fatte dalla mia società non fossero volute da me ma anche lì si trattasse di azioni pressoché obbligate dal fatto che comunque in una società in cui ci sono tre soci, le decisioni vengono prese a maggioranza, indipendentemente dal fatto che io potessi o non potessi essere d’accordo. Quindi quella è stata una vicenda non bella però è stata una vicenda che non ha toccato le persone. Spesso nei rapporti aziendali si fanno delle cose che non si vorrebbero fare o che personalmente si potrebbero fare diversamente. Io però ero dentro una società a responsabilità limitata, l’ingegnere ugualmente dentro una società per azioni, tutti e due abbiamo avuto delle responsabilità non nostre ma verso le società rispettive che hanno portato anche a rapporti che potevano essere migliori, ma questo non ha mai toccato la persona.
DINI Quindi ingegnere lei nel 2000 era lì che diceva, ora vado in pensione, mi occupo forse di scrivere le mie memorie, qualcosa del genere.
ZEI Sì, pensavo già di scrivere la storia della Panerai perché avevo avuto una reazione a quel che era successo poi. Perché la Cartier, il gruppo Richemont, ha comprato anche il marchio oltre al ramo d’azienda.
DINI Oltretutto il marchio lo ha creato lei, come Officine Panerai
ZEI Il marchio lo feci io.
DINI Quello è stato geniale.
ZEI Si chiamava originariamente “G.Panerai e Figlio”.
DINI E non andava bene.
ZEI Invece io, prendendo a prestito l’idea delle Officine Galileo, nome glorioso, inventai le Officine Panerai. Fu una buona cosa.
DINI Poi, venduto tutto e chiusa quella vicenda, decide invece di scrivere un libro su Panerai, in sostanza di rimettersi in pista.
ZEI Ecco perché pensai al libro. Fu una reazione al gruppo Richemont, che con la nuova Officine Panerai ha iniziato subito una azione promozionale pesante con i mezzi di cui sono dotati, nella quale però si dipinge la Panerai come una azienda di orologeria che era della famiglia, che ha fatto gli orologi per la Marina italiana durante la guerra, dopodiché ha avuto varie vicende, è caduta in disgrazia e loro l’hanno salvata. Questa è grossomodo la narrazione. Cioè, tutto quello che la Panerai ha fatto storicamente con Giuseppe Panerai e con Dino Zei per la Marina, per i sommergibili, per gli elicotteri, scompare. Ci sono innovazioni molto importanti per la Marina italiana e non solo. Pensi che la Marina statunitense ha adottato il sistema di appontaggio Panerai per le sue navi con capacità elicotteristiche. Lei pensi i soldi che adesso fa la Calzoni. Perché è un sistema, iniziato da Giuseppe e sviluppato da me, che è ancora in funzione. Per il gruppo Richemont tutto questo è inesistente. Al che io ho scritto nel libro su Panerai: attenzione, è vero che l’azienda ha fatto il Luminor, ma il Luminor era un piccolo episodio di secondaria importanza per una azienda che ha fatto tante cose con tecnologia per quei tempi avanzatissima.
DINI Ha voluto evitare che la storia la scrivessero i vincitori.
ZEI Ho pensato di scrivere queste cose in modo che venisse messo alla luce tutto questo, che non è giusto che venga trascurato. Poi dopo, non so nemmeno perché, Massacesi mi disse: “Senta ma che ne direbbe di fare un orologio con il nome Dino Zei?” A me piacque l’idea, però non ci credevo molto, non ci ho mai creduto molto per le ragioni che ho detto. Comunque, l’ho fatto. Ambuchi, lei sa perché a Massacesi venne l’idea di fare la linea Dino Zei, perché io non ho mica capito.
AMBUCHI Perché Anonimo soprattutto in Italia ma anche negli Stati uniti secondo me ha sempre scontato, soprattutto fino ai primi cinque o sei anni di vita, l’essere percepito come una copia povera di Panerai. Perché, da un lato anche a ragione, Massacesi aveva sottolineato fin dall’inizio nelle interviste che il know-how e le persone erano in qualche modo la prosecuzione della attività Panerai. Non di tutta ma di una parte: vedi me, vedi Alessandro, vedi Fabiano per l’assistenza degli orologi. Due, quello che raccontavo: la famosa fotocopia includeva anche un Panerai. Il Panerai Luminor ha un rapporto con il Millemetri di Anonimo e con il Polluce che è quello per cui sono entrambi orologi grandi, sportivi, leggibili, relativamente semplici. Il Millemetri è una evoluzione del Panerai perché la proposta di Massacesi fu: “Voglio fare un orologio che sia più performante e che costi meno”. E da lì è nato il Millemetri.
DINI Il Millemetri sembra disegnato dalla mano che ha fatto già il Luminor classico e che è andata avanti.
AMBUCHI Sì e non perché il Luminor classico quando era arrivato a me era un progetto chiuso, già disegnato.
ZEI Disegnato da Giuseppe Panerai, abbiamo ricopiato quello che fece: il primo orologio lo fece nel ’39.
DINI E poi il Luminor ha dentro una idea Art Decò che crea una linea straordinaria.
ZEI Sì ma c’è su richiesta della Marina: non esisteva un orologio subacqueo commerciale. Fu la Marina che disse: “Ho bisogno di un orologio che si veda bene così e così e così, quindi”.
DINI E poi che si possa azionare con le dita di una mano.
ZEI E infatti ne Panerai ne fece circa 200-250 per la Marina e chiuso. Arrivarono gli egiziani che ne vollero altri 200 per loro imponendo il loro un progetto: un ufficiale egiziano che aveva fatto il corso subacqueo al Comsubin a La Spezia si innamorò degli orologi Panerai e disse: “Li voglio per la mia Marina” e venne fatto il famoso Egiziano. Poi, di nuovo, chiuso lì: dopo Panerai è passata a tutte altre cose. La mia relativa notorietà esclusivamente in campo orologiaio, quella che mi ha fatto conoscere da Massacesi, forse la devo invece al mio libro Panerai: infatti la prima edizione è del 2003.
AMBUCHI Secondo me Massacesi venne colpito anche dal fatto che lo accusavano di continuo di essere una copia povera di Panerai: non tanto una evoluzione quanto una copia povera. L’idea poteva essere diversa: facciamo il salto, diventiamo evoluzione. Dimostriamo realmente che la nostra azienda ha non solo utilizzato alcune competenze, non solo seguito un’idea di fondo simile, ma ha anche coinvolto la persona che in realtà ha fatto rinascere Panerai, perché il prodotto degli anni trenta e successivi era destinato a uso solo militare, quindi sul mercato civile come orologio Panerai c’è arrivato nel ’92-93.
DINI Dino Zei si è inventato l’orologio venduto in quel periodo al pubblico.
ZEI Non l’ho inventato, gliel’ho detto. Il fine era quello di riuscire a superare la crisi. Purtroppo siamo incappati subito in un distributore, che è Dall’Erba, il quale si è preso 350 milioni di lire di orologi ed è scappato.
DINI Scappato?
ZEI Scappato, non ci ha dato più una lira. Io ho dovuto fare causa e per uscire poi dalla causa altrimenti non avremmo potuto stringere gli ultimi vendite con la Calzoni, ho dovuto pagare mi sembra cinquanta milioni di lire di accordi extragiudiziari. Insomma, va a finire che ho in odio la magistratura perché siamo stati anni bloccati. Ricordo che il magistrato ci mandava di sei mesi in sei mesi e ogni volta mi diceva “Panerai, Panerai, ma lei sta facendo un sacco di orologi”, e io gli dovevo dire: “Come già le ho detto sei mesi fa, quella è la Panerai del gruppo Cartier, io sono Panerai povero”. Capito? Appuntamenti dati alle otto e mezzo del mattino, stavamo lì fino alle tre del pomeriggio. Guardi io sono contento che gli hanno dato un palazzo a Novoli che è il più brutto di Firenze. L’ha visto lei?
DINI Si l’ho visto.
ZEI È una cosa orrenda. Costosissimo, perché tutti quei giochi di pareti inclinate, io lo so come ingegnere, è una cosa costosissima. Non solo, lo voglio vedere alla manutenzione: quelle superfici vetrate vanno tenute pulite, voglio vedere, e sono contento, perché la cittadina giudiziaria con questa gentaglia! Loro sono autorizzati a portarsi il lavoro a casa, quindi significa che spariscono. Quindi una causa che andava risolta in nemmeno in un mese si è trascinata per anni e alla fine ho dovuto pagare per poter vendere l’azienda.
AMBUCHI Ci sono almeno due sentenze di cassazione relative ai fallimenti in cui è stato riconosciuto colpevole il magistrato e il curatore per la ingiustificata durata del fallimento. Io sono andato a controllare. È venuto fuori che questi fallimenti sono durati diciannove anni uno e ventuno l’altro. E che comunque per la nostra magistratura dieci anni è considerato normale. È la regola.
DINI È pazzesco.
ZEI Capito?
AMBUCHI E che hanno riconosciuto a queste persone o agli eredi, perché chiaramente in alcuni casi gli aventi causa erano deceduti, cause che si sono trascinate per vent’anni a un titolo o l’altro, sia di fallito che di eventuale creditore, hanno riconosciuto l’astronomica cifra di 750 euro l’anno più interessi legali per i danni.
ZEI È proprio una rovina per l’Italia.
AMBUCHI In fondo, in un caso tecnico così come quello di Panerai, la ricognizione del passivo viene fatta entro sei mesi, entro sei mesi i dati sono tutti presenti. A meno che non sia un sistema a scatole cinesi per cui controllata e controllate si va a vedere, ma in un caso normale la situazione contabile è chiara. Come fai a giustificarmi che duri altri nove anni? È che purtroppo io sarei veramente curioso di vedere quante ore lavorano e con che ritmo i nostri magistrati.
ZEI Pochi pochi. Perché se ne vanno a casa.
AMBUCHI Quando sento che si lamentano che non hanno i soldi per le fotocopie gli vorrei dire: ascolta, mia moglie insegna, non hanno i soldi per le fotocopie ugualmente e guadagnano un quarto di quello che guadagna un qualunque magistrato. Stanno tutti zitti, si frugano nelle tasche, mettono magari venti euro per insegnante per fare un fondo di 300 euro per pagare le fotocopie. Oppure chiedono a noi genitori, ci chiedono alle medie regolarmente venti euro di fondo cassa per classe e quindi vien fuori che ogni classe ha quei 5-600 euro con cui si finanzia. Quindi, cioè ci stiamo veramente prendendo in giro.
ZEI Non solo, ma la cosa grave è che in campo civile alimenta la delinquenza: so di gente a cui l’inquilino che non paga gli ha detto “fammi causa”. Ed è un pericolo. Uno non può fare causa in queste condizioni, quindi dice “ti do così se tu te ne vai”, cerca l’accomodamento insomma, pagando di tasca propria, e c’è gente che specula su questo proprio perché sa che la nostra magistratura è in queste condizioni. Quindi la causa civile non bisogna mai farla, bisogna evitarla il più possibile pagando. Vabbè.
DINI Tornando al libro. Il motivo del libro su Panerai è chiaro. E il motivo di questo nuovo su Anonimo alla sua seconda incarnazione come Firenze Orologi?
ZEI Questo me l’ha chiesto David Cypers. E mi è sembrata una buona idea. Mi ha chiesto di scrivere questa cosa. L’ho fatta con piacere, come le dicevo.
DINI È un po’ il battesimo per la Firenze Orologi.
ZEI Ma sa, sono giovani. Lì ci sono tre dirigenti, due belgi come lui. Sono tre persone giovani, motivate, brave. C’è una onestà congenita che è pericolosa, bisogna che stiano attenti perché la persona troppo onesta rischia, per le ragioni che abbiamo appena detto. Io mi ricordo che finché abbiamo avuto in Panerai rapporti con la Marina tutto è filato, appena ci siamo avventurati nel mercato civile con gli orologi ci è successo di tutto. Perché quello che scappa con 350 orologi è solo uno. Facevamo impianti di atterraggio per il pronto soccorso degli ospedali, e le Asl non pagavano. Capito? Abbiamo fatto cose per i comuni, e i comuni non pagano come le Asl. Non pagano i tribunali. A un certo punto siamo andati a carte quarantotto perché non avevamo più soldi, perché nessuno ci pagava.
DINI Eppure lei quando ha venduto Officine Panerai, ha avuto proposte credo anche per continuare a lavorare nel mondo dell’orologeria.
ZEI No
DINI No?
ZEI No, perché mi era stato consigliato di fare il presidente della Officina Panerai nuova. E lì quello è un altro errore fatto da me.
DINI Cioè richiesto dagli svizzeri, da Richemont?
ZEI Per queste ragioni che le ho detto i rapporti si sono subito guastati. Il mio consulente tributario che era accanto a me in queste cose mi diceva: “Ma non li trattare così, questi mi hanno detto che vorrebbero averti come presidente”. Invece a me non piaceva sentirmi fare discorsi colmi di disprezzo: “Ma che cosa sta inventando questa Panerai, questa Panerai sono quattro gatti, le cose che fa ormai sono invecchiate”. Questi discorsi a me non andavano per cui i rapporti sono subito stati difficili e si sono conclusi male da un punto di vista personale. Per cui quando si accennò che io avrei potuto fare il presidente, feci il grande rifiuto per un orgoglio del tutto sbagliato, perché avrei fatto bene ad accettare. Era un ruolo di prestigio che forse avrebbe avuto qualche utilità. Per fortuna mia moglie mi ha seguito sempre e quindi non ho avuto una moglie che si è opposta. Dal punto di vista personale ero tranquillo. Quindi è andata così, e ho pensato di scrivere un libro di protesta, che dice “avete trascurato cose importanti, grandi lavori della Panerai, e non è giusto che sia così”. Quindi a quel punto ho chiuso. Poi, avendo scritto questo libro e per le ragioni che molto acutamente ha detto Ambuchi – io non ci avevo pensato – ma ha senso il portarmi dentro Anonimo. Perché diceva: c’era una Panerai, e il capo che l’ha diretta per trent’anni diventa un uomo Anonimo.
DINI Diventa anche presidente onorario
ZEI Non mi pento, guardi, perché con quella gente lì di Richemont io non sarei stato bene. Poi li ho trattati anche bene, perché nel libro faccio nomi di alcuni dirigenti ma non sottolineo le cose che sono successe durante le trattattive. Ed ebbi una lettera di Cologni, che adesso è il capo onorario del gruppo Richemont in Italia, e che era un coccodrillo eh, una belva nelle trattative. Però Cologni mi ha scritto per ringraziarmi e mi ha detto: “Abbiamo fatto male, avremmo dovuto fare diversamente e coinvolgerti”. È finita bene, in modo onorevole.
DINI Le piace il nome Anonimo o preferisce Firenze Orologi?
ZEI Non l’ho mai capito!
DINI Non l’ha mai capito?
ZEI E il bello è che Massacesi me l’ha spiegato più volte.
DINI (ride).
ZEI Poi me lo sono fatto scrivere. Nel libro c’è, però ho detto per favore scrivimelo tu quello che devo scrivere sul significato di Anonimo. Infatti c’è scritto: Massacesi dice, due punti e aperte virgolette. E vada a leggere cosa c’è scritto perché l’unica cosa che ricordo è questa: Anonimo è nato per fare orologi per conto terzi, con i nomi di terzi: orologi su misura e su ordinazione, per cui serviva un nome che non si imponesse, che fosse un “non-nome”. La logica qui è cambiata: fare orologi con una ditta innominabile non va bene: poi si è deciso di cominciare con gli orologi per Dino Zei, che gliene ha ordinati cinquanta. Secondo motivo del nome: Anonimo si traduce bene, si legge bene in tutte le lingue. Per queste due ragioni mi è sembrato una buona idea. A me però non mi sarebbe venuto in mente, se avessi dovuto fare una azienda di orologi, di chiamarla Anonimo. Non lo so, che ne dice lei Ambuchi?
AMBUCHI Neanche io non l’apprezzo. C’è stato un terzo aspetto, appunto quello di fare il prodotto in cui prevalga l’oggetto e non il marchio, quindi “anonimo”, e che poi è chiaramente legato alla speranza e alla convinzione, che poi non è stata così oltre un certo limite, di poter fare co-branding, di poter dire Anonimo realizza orologi assieme agli altri marchi già affermati in altri settori.
DINI Marchi come Prada? Per fare “Anonimo di Prada”?
AMBUCHI Sì, qualcosa del genere, poi la cosa si è limitata a un paio di esperienze. Ed è rimasto l’aspetto del padre storico: Dino Zei che è in realtà parte ormai strutturale del marchio.
DINI È buffo, a pensarci: “Anonimo” e poi c’è subito un nome, Dino Zei. Quindi è un po’ poco “anonimo”, in realtà.
AMBUCHI È poco “anonimo”. C’era però questa idea di fondo per cui il prodotto avesse valore di per sé e non per il marchio che porta. Il concetto può anche avere un senso perché è legato all’onestà, è legato al fatto che non vendo semplicemente una bella storia di marketing o anche una storia vera ma che comunque ha poca relazione con l’oggetto che sto vendendo. Insomma, Anonimo perché quel che conta davvero è l’orologio. Il problema secondo me è che è un nome sì traducibile in tutte le lingue, ma un nome che non ha una eredità positiva.
DINI Anonimo insomma.
AMBUCHI E perché è comunque equivoco tra ciò che non ha un nome e ciò che non ha un nome perché non lo merita.
ZEI Son d’accordo.
DINI La persona anonimo è una che non spicca. E invece l’orologio Anonimo è tutto tranne che anonimo.
ZEI Eh! Sennò, capito, sì insomma.
AMBUCHI “Nessuno” è già diverso. “Nessuno” ha una storia, una tradizione, c’è Ulisse. E un anonimo… Infatti se si fanno ancora oggi alcune ricerche un po’ più mirate in cui non so, voglio vedere se c’è qualcuno che ha parlato degli orologi Anonimo a Basilea, e digito Anonimo Basel 2012, oltre a qualcosa legata ad Anonimo, mi viene fuori anche tutta una serie di articoli su orologi “anonimi”, cioè orologi di cui non si conosce la marca
DINI O perché troppo anonimo?
AMBUCHI O perché sono degli anni cinquanta e non leggo più la marca oppure è un quadrante senza logo o è un marchio che non corrisponde più a niente, come è pieno. Quindi questa è stata una scelta che ha pesato molto sulla comunicazione. Mentre il logo, viceversa, è un logo molto funzionale.
DINI Il logo è bello.
ZEI Sì è bello.
DINI Era meglio Firenze Orologi fin dal principio, quindi,
AMBUCHI Si però anche questo ha richiesto un po’ di tempo.
ZEI Firenze Orologi è geniale, io mi sono meravigliato che nessuno ci avesse pensato prima, perché a Firenze c’è un sacco di gente, e invece no. Eppure un sacco di gente che cerca di fare orologi qui c’è. A nessuno è venuto in mente di prendere questo marchio.
DINI Ci voleva un belga.
ZEI Firenze Orologi è un ideale. La parola Firenze e Orologi sono le due cose importantissime.
DINI Poi c’è una tradizione.
ZEI Per la miseria. Un bel colpo.
AMBUCHI Firenze Orologi è stata l’ultima eredità di Massacesi, ed è un po’ la riunione di due esperienze, perché per un certo periodo Massacesi ha avuto anche una azienda collaterale destinata alle consulenze e che si chiamava se non ricordo male “Manifatture di Firenze”. Nello stesso tempo, cioè all’inizio di Anonimo, c’era un’azienda che appunto era quella con cui ho collaborato io per un periodo breve, che si chiamava “Fabbriche Meccaniche”, e con sotto l’indicazione Firenze: quindi il nome corretto sarebbe stato “Fabbriche Meccaniche Firenze”. Massacesi probabilmente ha avuto il lampo di unire le due idee: “Sì effettivamente produco orologi, sono di Firenze”. Ho visto due realtà legate a orologi in cui il nome Firenze era esplicito: “Firenze Orologi” e poi “Orologi Fiorentini” sono stati in ballo e in fine è venuto fuori “Firenze Orologi”.
ZEI Ah, ma quindi l’idea è di Massacesi. Ah, nessuno me l’aveva detto…
AMBUCHI È nata prima dell’arrivo di Davide Cypers, è nata nel febbraio del 2009, e l’ingresso di Davide nella società è nella metà 2009. Quindi per sei mesi e il nome è stato quello.
ZEI Io mi sono meravigliato. La prima cosa che dissi è stata: ma siete sicuri che nessuno ci abbia già pensato, che il nome insomma sia libero?
AMBUCHI Fu fatta una ricerca.
DINI Basta andare in camera di commercio
ZEI Certo, ma voglio dire, strano però, a Firenze non è che mancano quelli che vorrebbero fare orologi, e nessuno ha avuto quest’idea. È un’idea ottima, un nome bellissimo.
DINI Ingegnere, progetti per il futuro?
ZEI A parte questo lavoro che voglio rifare per sistemare la memoria di mio padre, che se lo merita, e che mi aiuterà mio figlio, non so.
DINI Suo figlio cosa fa?
ZEI Prego?
DINI Suo figlio cosa fa?
ZEI Mio figlio ha fatto un anno di Accademia navale: io non ho fatto mai nulla, è stato lui che mi ha detto: “Papà io vado in Accademia” e io “bene sono contento”. Ha fatto un anno e poi ha visto che secondo lui non era una vita per lui, e allora ha detto “Vado e mi iscrivo a ingegneria”. Ha fatto un anno di ingegneria, facendo tutti gli esami, e anche in Accademia era stimatissimo fin dall’inizio perché era risultato terzo su 103. Ha fatto tutti gli esami del primo anno di ingegneria, dopodiché si è ferma e mi ha detto: “La mia strada è un’altra”. E io lo capisco perché mio figlio è tutta la madre: la madre era una letterata e lui si è laureato in lettere a Firenze e io l’unica cosa che ho detto è stata: “È la facoltà dove siete di più”, cioè è più difficile per il lavoro. Lui ha cercato di supplire a questo andando a prendere una seconda laurea negli Stati Uniti, dove gli hanno dato subito una borsa di studio e un incarico d’insegnamento. Si è sistemato e poi s’era ammalata la madre e lui, che è figlio unico, ha mollato tutto ed è tornato a Firenze. Qui c’erano allora tante università americane, ce ne sono ancora, con facoltà di lettere, per cui all’inizio non ha trovato nessuna difficoltà a insegnare e lavorare con il curriculum che ha. Solo che gli americani che studiano lettere a Firenze stanno diminuendo e queste università, se non raggiungono sette persone per classe, non aprono il corso. Insomma, è un precario.
DINI È un precario.
ZEI Ed è veramente una persona di grande valore, è intelligente, è coltissimo, legge continuamente, ha una memoria di ferro, è proprio bravo. I suoi compagni di Accademia: uno è addetto navale in Giappone, uno è Capitano di vascello anziano prossimo ammiraglio, e lui invece è un precario. Vabbé è andata così. Ma perché le ho parlato di mio figlio?
DINI Perché mi stava dicendo anche dei progetti per il futuro
ZEI Quando sento dire che ci sono progetti per allungare la vita a centocinquant’anni mi viene la pelle d’oca: bisogna morire all’età giusta, perché il mondo non è più accettabile. Si modifica talmente che non ci vivi più bene. Per esempio, il libro digitale: a me fa senso il libro digitale, il pensiero che tra qualche decina d’anni i nostri giovani non avranno queste belle cose, non sfoglieranno i libri, mi dà tanta tristezza. E io dovrei vivere in quell’epoca? No! I vecchi devono morire. L’unica cosa che chiede è di morire senza soffrire, ma è un lusso per pochi. Mio padre, io ero all’Accademia e me l’ha raccontato mia madre, si è alzato da letto per allacciarsi le scarpe ed è ricaduto. Morto. Bellissimo. Una morte eccezionale. Speriamo. Quindi alla domanda: prospettive future, rispondo: no, nessuna prospettiva. Cerchiamo di guadagnare l’altra vita con le minori perdite possibili. Ho già avuto una brutta operazione di tumore che mi ha lasciato handicappato. Faccio fronte, tengo duro perché io sono di carattere battagliero. Ma è una vita brutta la mia. Coraggio.
DINI Però sta lasciando una bel segno: qualche migliaio di appassionati di orologi la ricordano, probabilmente la ricordano anche le persone di Panerai Officine, di Panerai industria.
ZEI Non ho meriti: sono nato onesto, mio padre mi ha inculcato l’onestà, l’Accademia mi ha inculcato l’onestà, ho continuato ad essere onesto. E ho operato facendo il meglio, ho commesso errori, naturalmente. Però se uno nasce per essere onesto e un altro nasce per rubare, io sono nato così, onesto: non è merito mio, è predisposizione. Quindi penso di aver lasciato un buon ricordo. Mia moglie Vera mi stimava, mio figlio mi stima, gli amici che mi conoscono credo che mi stimino. E va tutto bene così.
DINI È da molto che è rimasto da solo?
ZEI Eh, purtroppo sono cinque anni. Ieri era l’anniversario. Una perdita enorme. Presto la raggiungerò.
===FINE REGISTRAZIONE===
Per quasi un decennio, grazie a Internet, lo spirito di Anonimo e in particolare quello degli orologi della linea “Dino Zei” è cresciuto. Nonostante prezzi di listino medio-alti (dai tremila ai diecimila euro) e una distribuzione/post-vendita a dir poco carente, la fama degli orologi senza volto, prodotti da sconosciuti artigiani fiorentini, ha continuata a crescere nei forum degli appassionati.
In quel periodo oramai passato Anonimo ha poggiato doppiamente il suo peso sulle spalle di Dino Zei: sia come idea, dato che è emanazione sostanzialmente diretta rispetto al ragionamento iniziato dalla ditta “G.Panerai e Figlio” che Zei ha guidato, sia come nome, perché Zei ha accettato di diventare l’uomo immagine dell’azienda contemporaneamente come testimonial “marchio del marchio” che come presidente onorario.
Su YouTube si trovano i filmati di Dino Zei con David Cypers e con Antonio Ambuchi mentre partecipano a incontri con giornalisti alle fiere di orologeria, soprattutto a quella di Basilea. Documenti storici, frammenti di una vita fatta di serietà e determinazione, in cui negli anni la tecnologia ha assunto una declinazione particolare, meno “ufficiale” e più commerciale.
La storia poi è stata riscritta dai vincitori. L’onda potente del marketing della Panerai multinazionale, con boutique di lusso aperte nei centri commerciali di tutto il mondo, da Dubai a Las Vegas, da Singapore a Firenze, ha rivisitato la sequenza degli avvenimenti e li ha cambiati. Com’è naturale che sia: ogni anno in Svizzera ci sono marchi di orologeria che vengono “resuscitati” e trasformati dal marketing in qualcosa di diverso, ancora più originale dell’originale, per eccitare l’emozione degli appassionati.
La storia “vera” di Panerai è però altrettanto emozionante di quella figlia dello storytelling aziendale. E quella di Anonimo è molto più breve ma altrettanto interessante: l’anarchia vitale con la quale questa piccola azienda fiorentina ha cercato di emergere e ritagliarsi uno spazio, azzeccando e subito dopo sbagliando strategia nel giro di un paio di lustri, è un caso quasi da manuale del ciclo di vita delle piccole imprese italiane. Multinazionali bonsai, capaci di arrivare all’altro capo del mondo e poi di inciampare e cadere rovinosamente nel proprio tinello. Salvo, nel caso di Anonimo, ripartire ancora una volta due anni dopo con una nuova proprietà, che però non è l’oggetto di questo piccolo libro dedicato invece alla figura e al lavoro di Dino Zei.
Oggi che è scomparso anche Dino Zei, uno degli ultimi grandi maghi dell’orologeria mondiale, diventato tale per caso come sempre accade, si può mettere una riga che taglia l’ultima pagina della storia di Anonimo. Tuttavia, “Anonimo Classic”, come è stato chiamato nei forum il marchio fiorentino per differenziarlo rispetto alla nuova proprietà, è tutt’altro che scomparso: su eBay, Chrono24 e negli altri luoghi virtuali dov’è possibile comprare orologi di seconda mano, se ne possono trovarne ancora alcuni, con prezzi più abbordabili.
Il più pregiato tra i pezzi che si possono trovare usati rimane a mio avviso il capolavoro, quel San Marco che ha segnato un’idea di design e un progetto di ricerca unico per l’orologeria. Poi ci sono il classico Millemetri, magari in qualcuna delle edizioni limitate, il Polluce (molto simile al Millemetri) e il Professionale, che ha ingegnose soluzioni tecniche, come la cassa fermata in cinque punti da grandi viti della quale fa cenno Dino Zei nell’intervista che avete appena letto. E altri nomi, ormai entrati nella storia per intenditori: Glauco, Aeronauta, Argonauta, il rarissimo (e prezioso) Notturnale, omaggio ai maestri rinascimentali dell’orologeria fiorentina.
La storia di Anonimo insomma non è finita, e fino a che qualcuno porterà con orgoglio un orologio con il nome di Dino Zei, farà vivere ancora il suo spirito, più grande della vita stessa.
Firenze e Milano, novembre 2015
Antonio Dini
Copyright 2022 Antonio Dini
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Le immagini di questo libro sono state concesse in uso da Dino Zei e Anonimo Firenze Orologi. L’immagine del negozio Panerai nel Palazzo Arcivescovile in piazza San Giovanni a Firenze è di pubblico dominio su Wikipedia.